sabato 23 dicembre 2017

MANHUNT. La serie Netlix su Unabomber.


Dopo avere spalato merda per anni addosso a coloro che si imbevono ottusamente di serie televisive originali, ieri l'altro ho peccato di incoerenza portando a termine la mia prima visione da ossessivo: Manhunt: Unabomber. Otto puntate in quattro giorni.
Prodotto originale Netflix, è la storia di come i federali americani giunsero alla cattura e alla condanna di Ted Kaczynski, il famigerato Unabomber, killer responsabile di una lunga serie di pacchi-bomba che seminarono il terrore negli Stati Uniti tra il 1978 ed il 1995.
Conoscere i fatti narrati certo aiuta (si tratta di una storia vera), ma non è requisito indispensabile alla comprensione e al godimento della serie: l'apparato cronologico è chiaro, il ritmo costante.
Sebbene vanti una star del cinema del calibro di Paul Bettany nel ruolo dell'attentatore, e Chris 'Big' Noth nei panni del capo dell'unità speciale, protagonista della serie è Sam Worthington, ovvero 'Fitz', sottovalutato profiler federale il cui talento porterà alla cattura di colui che al tempo era il ricercato numero uno.
La vicenda è rivissuta attraverso i suoi occhi. 'Fitz' trasforma l'iniziale fascinazione per un caso che sente come proprio in una vera e propria ossessione. Un'ossessione che mette a repentaglio la sua vita professionale (vuole catturare Unabomber ad ogni costo) e familiare (sovrappensiero dimentica i figli in una sala cinematografica).
La serie ha inizio con Unabomber già assicurato alle patrie galere e 'Fitz' incaricato di provarne giuridicamente la colpevolezza per mezzo di interrogatorio. Da lì gli episodi si snodano tra regolari e didascalici flasbacks: La sequenza degli attentati, le reazioni delle autorità federali, la personalità dell'attentatore e quella di colui che maggiormente ne ha colto il fascino, l'idealismo, la logica ferrea, la precisione, la coerenza filosofica ed una quasi inconfessabile assenza di follia. Cioè 'Fitz' stesso.
Personalmente , ho trovato la visione di Manhunt: Unabomber avvincente, ardita, politicamente visionaria. La regia (affidata a Greg Yaitanes, già apprezzato per molti degli episodi più riusciti di House M.D.) è precisa, senza divagazioni o tentennamenti stucchevoli. Le concessioni allo splatter sono serie, misurate, mai gratuite. Per il resto è un trionfo di recitazione, di scrittura asciutta e deputata all'azione, di attori tutti sul pezzo, in particolar modo Paul Bettany - che da, in questa produzione, una prova di altissimo livello, specie sotto l'aspetto della caratterizzazione umana.
Ma l'episodio più bello e significativo è senza ombra di dubbio il n°6, integralmente occupato da un flashback sulla vita di Unabomber, dagli esordi scolastici all'esilio nei boschi del Montana. È la chiave di lettura con la quale gli autori sembrano fornire la loro visione di questa pagina di storia americana contemporanea. Le sofferenze dovute alla precocità di apprendimento; le prime delusioni relazionali; l'inconciliabilità tra crescita e superdotazione intellettuale; l'incontro epocale con Henry Murray; un'esistenza che sempre più va configurandosi come serie di tradimenti subiti o presunti, fino alla consegna di sé alle cure di madre natura, unica entità percepita come giusta in un mondo di cinici manipolatori. Il tutto in forma di lettera al fratello. Nel ricostruire questi ricordi, Unabomber, che nella piccola comunità di Lincoln è frequentatore discreto e conosciuto della locale biblioteca e mentore del figlio della curatrice, riflette su come avrebbe potuto essere la sua vita qualora avesse reagito diversamente alle tante difficoltà incontrate. E allora eccolo fantasticare una famiglia, un'esistenza ecologicamente rispettosa, un lascito etico e comportamentale, un ruolo da grande educatore – quale sarebbe sicuramente stato -, una sposa ideologicamente complice ed un figlio cui trasmettere il proprio patrimonio di conoscenza.
È un momento commovente, scritto benissimo, interpretato da Paul Bettany in maniera magistrale.

Sappiamo tutti – in particolar modo noi genitori – quanto del nostro personale, particolare sapere venga sperperato quotidianamente nell'affanno della vita urbanizzata, quella stessa che andiamo definendo civile senza più riflettere su quanto diciamo. A Ted Kaczynski mancò, probabilmente, la dedizione necessaria alla creazione di una vera famiglia. Ma a noi tutti manca da troppo tempo il coraggio di scelte radicali e di un impegno coerente con le nostre tante parole.
Quanto alle bombe...
Chi di noi sarebbe capace di nutrire ancora fede nel sistema dopo un trattamento come quello che l'ignobile professor Murray condusse su di un adolescente Ted Kaczynski ed altri 21 sventurati?
È notevole che sia una serie televisiva a stimolare questo tipo di riflessioni. Al termine della visione, ho spasmodicamente ricercato e letto La Società Industriale E Il Suo Futuro (Industrial Society And Its Future), il manifesto di Unabomber. Fino ad allora, devo ammetterlo, ne ignoravo persino l'esistenza. Mi limito a dire che vale sicuramente una lettura attenta: è di certo migliore di molti libroidi attualmente circolanti, così come di altrettanti best-sellers di vario genere.
Si potrebbe azzardare che vale per Ted Kaczynski quanto sostenuto per Charles Manson nei giorni seguiti alla scomparsa di quest'ultimo, quando una serie di improbabili personalità esaltarono il suo pensiero, ritenendolo slegato dalla sua condotta criminale. Dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano. Manson era un manipolatore semianalfabeta posseduto da visioni: Kaczynski un individuo intellettualmente superdotato che a 25 anni (!!) occupava la cattedra di matematica a Berkley.
L'intelligenza non è autosufficiente: va coltivata e indirizzata.
Può essere letale tanto quanto l'ignoranza.

sabato 9 dicembre 2017

TRATTORIA BONOLIS. Ovvero: quando il Paolo nazionale si convinse di essere Letterman.


Quel che mi chiedo è: come può, un personaggio della televisione celebre e apprezzato come Paolo Bonolis, venire abbandonato dai propri autori al punto da scivolare sulla buccia di banana presa con l'intervista a Marylin Manson?
C'è da credere vi sia dell'astio tra le parti, del non-detto, vecchi rancori... . Non si capisce come, altrimenti, si possa assistere ad un simile sfacelo senza sentirsi minimamente responsabili.
Per capirci: Quincy Jones non avrebbe mai permesso a Micheal Jackson di pubblicare un disco dimmerda.
Sorte – quella della discesa nella bassa qualità - toccata, invece, al Paolo nazionale.
Bonolis che fa una figura meschina a Canale 5 come quella dell'altra sera – perché di questo si è trattato -, è il Brasile che, in casa, prende sette pappine dalla Germania in mondovisione. Stessa cosa.
Tanto per cominciare, vorrei chiedere – rivolto agli autori – chi, nel bacino di pubblico di Bonolis, sia a conoscenza dell'opera di Terry Pratchett, citato testualmente in apertura. Quanti, tra gli stessi, siano in grado di trascriverne il nome. Ma soprattutto: CHI CAZZO È, Terry Pratchett?
(Primo errore.)
Gesticola, mima, produce onomatopee, Bonolis. Sembra tornato quello degli esordi a Bim Bum Bam, quando intratteneva i bambini.
Manson è già accomodato nello studio. Ha il piede immobilizzato in un tutore. Visibilmente ingrassato, è vestito, acconciato ed agghindato in maniera improbabile - per non dire ridicola - per un ultracinquantenne.
Bonolis lo presenta ad un gruppo di fans debitamente selezionato all'ingresso. Manson li definisce “the beautiful people”. È una battuta che tradisce come egli stesso stia intrappolato nel personaggio – riuscitissimo ed artisticamente rilevante - incarnato più di 20'anni fa, oltre che in una parte di repertorio altrettanto vetusta.
Supportato dall'interprete Mediaset, il conduttore cita – debitamente cassato - il servizio di Rolling Stone Italia curato da Liliana Colasanti.
(Secondo errore: l'intervista della collega è superiore a quella che egli sta conducendo in evidente affanno.)
“L'Italia è un paese di santi”, sentenzia Bonolis. Risposta di Manson: “È anche il paese di Fellini”.
(Terzo errore: l'intervista, chiaramente non concordata, sta sfuggendo di mano.)
Non conscio dell'inarrestabile discesa, Bonolis sconfina in terre a lui sconosciute, e trasforma il titolo del disco di Manson da Heaven Upside Down a Even Upside Down - errore di pronuncia da licenza media.
Ride, Bonolis. Le domande sono di così basso tenore che persino il suo inconscio se ne libera.
Gli da del subumano chiedendogli se “è vero” il suo apprezzamento per The Young Pope di Sorrentino.
(Quarto errore: sta ricalcando fedelmente l'intervista di Rolling Stone Italia.)
Ma intorno la metà, l'evidenza prende il sopravvento. Marylin Manson non è ospite di Bonolis: è Bonolis ad essere ospite di Manson – e con il buffetto sulla mano, l'intervista muove come per magia a Monte Mario, alla trattoria Bonolis.
Il quarto d'ora di passione ha quindi termine con l'esecuzione, dal vivo, di Sweet Dreams - pietosa – ed un imbarazzante selfie con Gianni Morandi.
Marylin Manson è un artista che, da tempo, ha perso la propria rilevanza – risalente agli esordi e protrattasi per circa un decennio. Era a quel tempo – al tempo di Portrait Of An American Family – che avrebbe dovuto ricevere questo invito e sentirsi porre – più o meno – queste domande. Ma a quel tempo i canali Mediaset erano tutti impiegati nella promozione di un'altra family: quella del padrone. Più comodo ospitarlo oggi: meno compromettente, più corretto, intruppato, milionario e contribuente esemplare. Occasione persa. Peccato.
Quanto a Bonolis... beh, sembra, semplicemente, che, da una parte, si sopravvaluti un poco (è convinto di essere all'altezza di intervistare un po' tutti); dall'altra, che non sappia rinunciare nemmeno per un quarto d'ora al ruolo di protagonista e mattatore incontrastato.
Bonolis è l'ospite che non se ne vuole andare.
Ricorda una persona che ricevette in mano le sorti del paese esattamente nell'anno in cui Marylin Manson pubblicava il suo disco più bello ed importante, Antichrist Superstar, splendida registrazione per resa sonora, produzione e testi contenuti.
Una persona che ha in comune con Manson l'incapacità di comprendere che il proprio tempo è passato. Che quanto va dicendo rientra nel già-sentito, in una formulazione svuotata di credibilità proprio dal suo abuso.
Indovinate chi è?!

giovedì 7 dicembre 2017

STAND BY ME. Perdere un amico.


Oggi ho perso un amico, coetaneo. Un amico di gioventù, di quelli che abitano silenziosamente i tuoi ricordi.
Ci sono figure che aiutano ad andare avanti nel duro percorso della vita impedendoti di cedere allo sconforto. Ti hanno voluto bene quando ancora eri tutto inadeguatezze ed imbarazzo. Vedevano di te la parte migliore, già allora. Rappresentano una certezza. Molte insicurezze che sorgono all'improvviso, nel quotidiano, vengono disattivate proprio da queste presenze interiori.
Fino a quando, un giorno, vengono a mancare.
Letteralmente.
Queste ore assomigliano molto, per me, a quelle di Ricordo Di Un'Estate, di Stephen King: Gordie, il sopravvissuto, e Chris, l'amico buono e promettente cui la vita riserva una morte tragica e prematura.
Il Buon Ghizza (questo il suo soprannome) è stato il compagno dell'adolescenza e del suo sfociare nell'età adulta. Degli anni più belli: dell'incanto e del tempo sterminato.
Anni di risate, di gesti goffi vissuti con ironia; di serate al cinema; di passeggiate, gite e colonie estive; di chitarre strimpellate a notte fonda e di sbronze simulate dopo mezzo dito di grappa. I primi seri discorsi sulla fede, sulla religione, sul da-farsi quando quegli anni – indimenticabili – sarebbero giunti al termine. Primi e secondi amori, solitudini indesiderate, ghiaccioli da 200 lire (!) e tanta, tanta felicità.
È stato questo per me, Roberto.
Se ne è andato seguendo, suo malgrado, un percorso di malattia comune a tante persone giovani: rapido e letale.
Siamo riusciti ad incontrarci, qualche volta, in compagnia della rispettiva prole. Occasionalmente. Ed anche in quei frangenti non ha mancato di rivolgere il suo sorriso aperto e pulito a tutti noi.
Vorrei davvero porgli – a lui che era uomo di grande fede cristiana – una domanda sul senso di tutto ciò. Sul fatto, cioè, che questa mattina mi sia toccato assistere alla chiusura di una bara dove lui - e non altri – vi stava contenuto. Perché?
Sosterrei con insistenza le mie ragioni di persona senza più fede, provando a spiegargli che sono proprio gli eventi come questi a dare ragione al mio abbandono, allo sconforto esistenziale.
Sono certo che mi ascolterebbe a lungo – come spesso ha fatto in gioventù, quando lo investivo con tematiche molto meno ultime -, serio e attento, per poi darmi una risposta pacata e sorprendentemente persuasiva.
Perché era così: con un cuore grande, e dotato di un'altrettanto grande tolleranza.
Ma è troppo tardi anche per questo.

mercoledì 29 novembre 2017

UNA COSA A TRE. Starring: Lilli Gruber, Alessandro Di Battista e Riccardo Scamarcio.


Quando ieri sera (27 novembre), come da rituale, Enrico Mentana ha annunciato gli ospiti di Lilli Gruber a Otto & Mezzo, ho prorotto in una risata isterica.
Alessandro Di Battista e Riccardo Scamarcio sono stati infatti accomodati nello studio di La7, nella fascia oraria dedicata all'approfondimento, per discutere di...
DI BATTISTA CHE ANNUNCIA  L'INTENZIONE - UFFICIALIZZATA DALL'USCITA DEL SUO LIBRO - A NON RICANDIDARSI ALLA PROSSIMA TORNATA ELETTORALE.
Autoerotismo.
Un po' propaganda (ma chi ci crede, oggi, senza vedere, come San Tommaso, alle dichiarazioni d'intenti di un politico?), un po' marchetta (difficile che un ospite della Gruber non abbia con sé qualcosa da promuovere).
In quale veste fosse presente Scamarcio, invece, non si è capito fino quasi al termine della trasmissione, quando l'annuncio della sua partecipazione al film di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi - dopo che si era prodotto per una decina di minuti buoni in analisi politiche vacue ed uno sproloquio su Alitalia - ha risolto ogni incomprensione.
Altra marchetta, quindi.
Ma non è nemmeno così.
Gruber, “pastore di suo fratello e […] ricercatore dei figli smarriti”, non era interessata né all'interpretazione di Scamarcio né al cinema di Sorrentino: intendeva scoprire come, in questa pellicola di prossima uscita, vi sia dipinto l'ex-premier. Punto. Indagine sotto copertura.
“Berlusconi come la prenderà? Gli piacerà o si arrabbierà?”.
(Domanda che vanta un sottotesto intimidatorio da grande cinema.)
Risposta di Scamarcio: “Secondo me gli piacerà. […] Io non posso dire molto: ho firmato una lettera di segretezza.”.
Agghiacciante.
Ma tutto torna.
Gruber non sembra proprio la signora alla quale ti puoi trovare seduto accanto, al cineforum. È la classica persona in carriera che al cinema – proprio - non ci va. La sua curiosita non è artistica. In nulla e per nulla. È l'ingaggio di Scamarcio nel ruolo di Gianpaolo Tarantini, il reclutatore di troie delle notti del bunga-bunga, ad averne attivato pavlovianamente l'istinto predatorio e famelico. 'Fanculo a tutto il resto, al cinema e al premio Oscar de La Grande Bellezza.
La conduttrice di Otto & Mezzo pretende di essere credibile anche quando, parlando sopra a Di Battista, che poco prima si era riferito ai politici “imbullonati alla poltrona”, prende le difese a tutto campo di sua santità Berlusconi – che invece, a 81'anni suonati, vuole correre alle prossime 'politiche', ma lui, no, non è di quelli imbullonati alla poltrona.
Berlusconi è una persona cui il seguito – più determinato persino dei papa boys - non consente la condanna alla condizione manzoniana di innominato. Quando Di Battista, parlando in studio, ne fa riferimento chiamandolo “il soggetto”, Gruber interviene con la prontezza di un cane pastore: “... che si chiama sempre Silvio Berlusconi...”. Berlusconi, per i suoi seguaci – e Gruber da la netta impressione di esserne parte -, è il nome del padre teorizzato da Massimo Recalcati. Non Ulisse, ma il padre autoritario senza la cui parola nulla può essere detto o fatto. Ed i suoi figli (l'elettorato, i sostenitori), ahinoi, non sono dei Telemaco.
Berlusconi, d'altronde, è un altro che al cinema sarà andato, l'ultima volta, per Gola Profonda. Da lì in avanti, i pompini non ha più voluto vederli su schermo: se li è fatti fare.
Dopo una siffatta puntata, in certe redazioni appartenenti a quel non meglio precisato estero che tanto sembra eccitare la nostra, otto e mezzo non sarebbe il titolo della trasmissione, ma il tempo massimo concesso a conduttore ed autore – coincidenti, nel caso in questione – per lasciare l'emittente senza più farvi ritorno.
L'impressione – lungi da quella dell'assistere ad un approfondimento giornalistico di prima serata - è stata quella di una triste assemblea condominiale, dove i condomini, dietro la facciata di cordialità e l'obbligo a parteciparvi, nutrono il più totale disprezzo: per l'amministratore e per gli intervenuti.
E poi: la smettano, quelli di Otto & Mezzo, di utilizzare i grandissimi Arcade Fire di Rebellion (Lies) come sigla d'apertura.
Era ora che qualcuno lo scrivesse – giusto?
Non ringraziatemi: lo faccio volentieri, per voi.

giovedì 16 novembre 2017

UN GRAN BEL PEZZO DI FIFA. Considerazione sull'esclusione della nazionale dai mondiali 2018.


Si sa che agl'italiani piace un sacco, la FIFA (Fédération Internationale de Football Association). Ne sono innamorati. Farebbero davvero di tutto, per un po' di FIFA.
Lo si è visto nella giornata di ieri (13 nov). Di tre radiogiornali nazionali, non uno ha relegato la notizia dell'imminente partita della nazionale di calcio nella fascia deputata allo sport. E cioè in fondo alla scaletta, a termine programma. Macché: prima notizia a reti unificate. Probabilmente neanche un nuovo terremoto in centro Italia avrebbe persuaso le loro redazioni ad una revisione delle notizie di apertura.
Se qualcuno, quindi, nutriva ancora dubbi sul fatto che radio e tele-giornali non facciano informazione, quanto riportato li fuga senza lasciarne traccia alcuna.
Non paghi, però, di aver dato ad una simile notizia la massima prominenza, quelli della RAI si sono persino vantati di una non meglio specificata “diretta streaming dalla sala di Via Asiago”. Ma certo: come se gli italiani, dopo piazza San Carlo, avessero ancora voglia di abbandonare il divano di casa per una fottuta telecronaca a la Pizzul. Rinunciare a tutto quell'apparato di costumi fantozziani – “calze, mutande, vestaglione [...], frittatona di cipolle [...], […] Peroni gelata [...] e rutto libero” - per fare la fila in questa via che è da quand'ero bambino che la sento nominare più del quirinale e della casa bianca. Sicuro.
Va da sé che la RAI, la pancia degli italiani, la conosce eccome. Ieri sera, tra amici e conoscenti, è stato infatti tutto un ostentare auricolari, tablets, connessioni pirata e quant'altro artifizio praticabile, pur di essere connessi con San Siro. Spettatori virtuali di una partita il cui risultato persino un incompetente in materia come me già sapeva essere scritto nelle stelle. D'altronde quando il tuo capitano fa Buffon di cognome, ed uno che ti aspetti corra un bel po' è Immobile, abbiate pazienza: nomen omen.
Mi sembra che il calcio sia un'attività sportiva ottima per costruirsi un fisico da aperitivo. La preparazione atletica cui è sottoposto un calciatore professionista conferisce infatti quella prestanza che tanto fa ben figurare quando ci si mette in ghingheri passate le 19:00. Ma quanto a rendimento, a performance, con molta probabilità verrebbe giudicata insufficiente persino da una squadra di curling. Personalmente ho vissuto qualche stagione ricca di aperitivi ai quali mi sono presentato in eccellente forma fisica. Un bella sensazione, credete. Da qui ad una qualificazione mondiale, però...
Certo: mi sono imbattuto anche in molta indignazione, in seguito a questa sconfitta, gran parte della quale provocata dalle lacrime di Gigi Buffon - diffuse a reti unificate dalla televisione e, il giorno dopo, sulle prime pagine di tutte le principali testate giornalistiche. Coloro che se ne sono lamentati, le hanno giudicate fuori luogo, inaccettabili da parte di uno sportivo con il suo curriculum di vittorie, con un ruolo da capitano di nazionale ed uno stipendio a sei zeri.
C'è un rapporto stretto tra la percezione di sé stessi come professionisti dello sport – percezione delle proprie eccellenze – ed il ruolo simbolico che viene assunto alla convocazione in nazionale. È una questione che riguarda non solo gli azzurri – ai quali, per inciso, va tutto il nostro legittimo disprezzo. Riguarda ogni sportivo ed ogni compagine nazionale. Mi spiego. Siamo da tempo nell'era della fine delle ideologie. Le ideologie hanno spesso fatto leva su primati nazionali frutto di mitomania, leggenda e contraffazione. L'idea del suprematismo nazionale è evaporata con le ideologie che la propalavano, ed oggi rimane l'illusione di frange fuori dal tempo, frange neofasciste, che – guarda un po' – abitano gli stadi esattamente come i topi le fogne. Di quale primato siano quindi portatori i 22 fenomeni della nazionale di calcio, è presto detto: il peggio dell'italianità.
Un altro problema è quello dell'incapacità di riconoscere - e riconoscersi in - figure realmente vincenti. Vincenti per prestazione, mentalità e dignità (qualità che nelle lacrime di Gianluigi Buffon trovano la loro antitesi).
Ora in molti piangono al pensiero che, data l'esclusione, l'estate prossima saranno privati del loro “rito collettivo”.
Ecco: forse solo di questo si tratta, in fondo. Il bisogno di un rito collettivo: la messa, le partite della nazionale di calcio, la festa del partito, la setta, la gang.
Bisogni aggregativi fondamentali.
Ma tutti mal riposti.

venerdì 10 novembre 2017

PANE E TULIPANI. Il mio panettiere chiude bottega prostrato dall'erario.


Claudio, il mio panettiere da oltre 20'anni, sta per chiudere.
Sono cresciuto al tempo delle botteghe, e il profumo del pane fresco, nella mia vita, non è mai mancato. Questo ha fatto di me un consumatore compulsivo di prodotti da forno.
All'idea che presto non potrò più godere del suo buonissimo pane, mi sento come il tossico che perde lo spacciatore di fiducia.
Colpa della tassazione troppo alta, insostenibile - dice. Parola di un'artigiano che emette lo scontrino anche per un seme di sesamo, che con tre euri ti consegna un bel sacchettone pieno di pane caldo, e che con la consorte costituisce l'intera forza-lavoro di questa impresa.
Consideriamo alcuni dati.
Ieri l'altro, alla radio si discuteva dei risultati delle elezioni regionali in Sicilia. Molto calore era prodotto dalla sottolineatura di una particolarità riguardante il suo status di regione autonoma, ovvero la possibilità di trattenere, senza versarne allo stato, il 100% delle tasse esatte. Nonostante tale straordinario privilegio, la Sicilia è prossima al default finanziario, con un debito ammontante a ben otto miliardi di euri (!). Una cifra da manovra finanziaria.
Sul drenaggio delle finanze pubbliche da parte delle regioni del sud si è detto fin troppo. Quando ho avuto il coraggio di parlarne, esponendomi in prima persona anche con amici e conoscenti siciliani, non ho mai avuto l'onore di un'argomentazione che mi vedesse vittorioso. La crisi occupazionale, la fortissima pressione da parte della criminalità, l'abbandono storico dell'isola da parte dello stato, il dovere morale del contribuire al risanamento delle aree del paese maggiormente arretrate, il debito morale dello sfruttamento dei lavoratori del sud al tempo del boom economico, insomma: argomenti molto persuasivi, ma nessuno spazio per una critica della gestione.
Aggiungiamo un altro frammento di attualità sul tema tassazione.
I colossi del web godono, in questo paese, di un regime fiscale da era del feudo, una tassazione così bassa da risultare inverosimile - ma agli effetti vera e reale. Una pressione fiscale che, esercitata nel giusto periodo e nei giusti settori, porterebbe ad una rinascita quasi immediata di tante piccole imprese. L'erario giustifica il tutto con l'alibi dell'immenso benessere generato (?), senza muovere un dito in direzione dei necessari adeguamenti.
Nonostante ciò, domattina queste imprese dagli utili miliardari e la generosa Sicilia proseguiranno indisturbate lungo la strada percorsa. Non se ne ha dubbio.
L'amico Claudio, invece, battuto l'ultimo scontrino da 50 centesimi per un grissino allo studente diretto in stazione, chiuderà baracca rifiutando persino di vendere la licenza (“Non sai mai chi trovi, oggi”), e sincerandosi di avere debitamente trascritto la transazione sul libro contabile, ond'evitare che un controllo lo privi degli ultimi soldi guadagnati con fatica.
Se andrà bene, venderà i macchinari che in questi 25 anni hanno diffuso nel quartiere quella irresistibile fragranza di pane fresco. Con il ricavato si concederà una bella vacanza con la famiglia, durante la quale ripercorrerà l'esperienza di “imprenditore di se stesso”, realizzando che questo davvero è un paese di merda.
Se andrà male, invece, il suo investimento risulterà a perdere; la partita IVA verrà chiusa nell'indifferenza delle strutture che attraverso essa ne hanno provocato la crisi; la politica non si occuperà di lui per il semplice fatto di non essersene mai occupata; gli amici siciliani - suppongo, forti del debito - si diranno impossibilitati a contribuire al risanamento di un'impresa in difficoltà; i soliti social networks decuplicheranno anche quest'anno il loro giro d'affari grazie a trattenute fiscali che, garantite ad un prestinaio come lui, avrebbero permesso l'acquisto di un attico in contanti.
Quanto a me, non saprò a chi rivolgermi, per un po' di pane fresco. Finirò nella rete dei grandi inculatori dell'imbustato e del trancio di pizza appesantito dall'olio, per il quale mi sentirò chiedere cinque euri e 60 – come è già successo. Litigherò con la commessa incolpevole e sottopagata; abbandonerò il trancio bisunto sul bancone e me ne tornerò a casa incarognito dalla fame.
Aprirò una birra seduto in poltrona. Guarderò annoiato uno dei nostri, tanti, vergognosi telegiornali e sentirò questa notizia:
I COLOSSI DEL WEB SBARCANO IN SICILIA. UN MILIONE DI POSTI DI LAVORO E SGRAVI FISCALI PER IMPRESE E NEO-ASSUNTI. IL PREMIER: UN SUCCESSO. IL GOVERNATORE DELL'ISOLA: ORA MAGGIORI AIUTI PER NOI.
Ma vaffanculo, vah...

"Giusto un piccolo ricordo di te, Claudio."

lunedì 6 novembre 2017

FUCK CHECKING. La mia esperienza delle 'fake news'.


Chi ha parlato?!
Chi cazzo ha parlato?!
(Full Metal Jacket, 1987)
Oggi, tutti hanno diritto di parola.
In conseguenza di ciò, in tempi recenti, mi è toccato sentire alcune delle seguenti asserzioni:
  • La terra è piatta;
  • Ci troviamo in una Matrix;
  • Viviamo all'interno di una calotta;
  • Siamo in un immenso Truman Show;
  • L'Airbus A380 ha 900 posti;
  • Hitler è vivo;
  • Lo sbarco sulla luna fu girato da Kubrick a Hollywood;
  • Si può vivere senza mangiare;
  • Si può bere la propria urina;
  • La polenta è cancerogena;
  • Il Grande Lebowski è un film sul bowling;
  • I Pink Floyd si drogavano sempre prima di suonare;
  • Flight è una storia vera;
  • I Nine Inch Nails agli esordi incidevano negli obitori;
  • Marylin Manson sacrificava bambini prima di ogni concerto;
  • Daniele Luttazzi copia le battute dai comici americani;
  • Montanelli era fascista, poi è diventato comunista;
  • Un aereo costa 400 miliardi di dollari;
  • Lagos è la capitale della Nigeria;
  • A Dubai non c'è il mare;
  • New York è la capitale dell'America;

E via di questo passo.

“La filosofia non è competente di qualcosa... non insegna la verità, che è propria del religioso. La filosofia è la messa in discussione dell'opinione comune, la non accettazione dell'ovvio, perché se accettiamo quello che c'è siamo gregge, pecore.”
Sono parole del professor Umberto Galimberti, pronunciate proprio settimane addietro in apertura di un incontro al quale ho avuto l'onore di partecipare.
Forse questo non sarà il più brillante blog sul mercato, ma certo, all'”opinione comune”, non soggiace - o almeno non interamente.
Detto questo, un po' di tempo fa, a sparate come quelle in elenco avrei risposto con un tentativo di confutazione acido ed incontrollato.
Oggi mi ripeto che, se credi a quello che dici, e quello che dici è quanto sopra riportato, non meriti che vivere la tua misera esistenza a quattro zampe, senza alcuna correzione. E quindi va da sé che chi propala simili affermazioni altri non è che un debole, perduto nella valle delle tenebre, “ed io la tirannia degli uomini malvagi”. Ma sono stato educato ad essere il buon pastore che conduce il gregge attraverso la valle delle tenebre, e giuro: ci sto provando con tutte le mie forze ad essere un buon pastore.
Si parla molto, ultimamente, di fact checking, ennesimo assurdo anglismo, nell'era della Brexit, che pigramente – o forse servilmente – ci si rifiuta di tradurre con il più chiaro ed accessibile 'verifica'. Pensateci: oggi il livello di contraffazione delle notizie, delle affermazioni e delle dichiarazioni è tale da avere obbligato molte testate, anche prestigiose, ad istituire un reparto di fact checking all'interno delle redazioni. Si tengono corsi sul tema persino all'interno delle scuole, dove, nel luogo deputato a quell'educazione che proprio dal male della menzogna dovrebbe tutelare, si registrano casi di credulità, superiori per gravità al bigottismo dell'Italia pre-scolarizzazione.
Il fatto è che, checché ne dicano i sedicenti esperti, non c'è corso di fact checking che possa salvarti dall'inevitabile destino all'interno del gregge, se ad esso non ci si oppone strenuamente per mezzo della cultura. Senza cultura non si va da nessuna parte. L'uomo è un essere culturale. Nasce, anche quando concepito da ignoranti cronici, predisposto per una gestione dei propri istinti (compreso il parlare senza pensare a ciò che si dice), gestione che è sempre e solo di matrice culturale. Si tende a far credere che noi non si sia bestie perché con queste non abbiamo somiglianza (ma vedendo certe facce in circolazione, nemmeno questo è vero), subdolamente cioè, per una ragione esclusivamente morfologica. Ed infatti abbiamo schiere di elegantissimi laureati che spesso si rendono protagonisti delle sparate di cui sopra.
Ieri l'altro, terminato questo scritto, ho deciso che era il momento di festeggiare. Ho affittato una camera d'albergo e vi ho invitato mia moglie. Quando, all'ora stabilita, ha bussato alla porta, sono subito andato ad aprire. In solo accappatoio. In mano, un tubetto di olio all'arnica. Ho chiesto: “Ti va di farmi un massaggio?”.
Vero, falso o verosimile?

mercoledì 1 novembre 2017

GENERE 'OLDIES'. Le nuove frontiere della terza età.


Non ho rispetto per gli anziani.
Non ne ho di default, voglio dire.
Penso se lo debbano guadagnare, questo atteggiamento che esigono quasi fosse una tassa, esattamente come tutti gli altri.
Stamane mi sono apprestato a prendere la macchina, lì dove l'avevo regolarmente ed accuratamente parcheggiata. La trovo ostruita da un'altra vettura lasciata accesa accanto ad essa nel bel mezzo della carreggiata – l'unica di una strada a senso unico. Capisco subito che si tratta o di un sequestro di persona o di un anziano ormai fuori dallo spazio-tempo. Il tempo di stoccare della spesa nel bagagliaio ed eccola uscire dalla ricevitoria di fronte, la proprietaria della macchina. Nella settantina, abbigliamento dimesso e pesante, sguardo apparentemente normale dietro ad occhiali neanche troppo spessi, passo sicuro. Okey, mi dico: è lei. Mi è risparmiata la ricerca e la polemica sul rispetto e sul codice stradale. Meglio. Le tengo istintivamente lo sguardo addosso. Non la voglio intimorire: voglio solo studiare le fattezze di un essere umano che nel 2017 ritiene naturale fare quello che ha appena fatto. Sto per salire in macchina quando, sentendo addosso i miei occhi, la vecchia spara a bruciapelo:
“ALLORA? LEI PARCHEGGIA DOVE VUOLE: IO PARCHEGGIO DOVE VOGLIO.”.
Parte, noncurante del fatto di avere intasato a tappo l'intera viabilità carraia. Tenta un'altro parcheggio abusivo pochi metri più avanti, ma il veicolo che la segue le impedisce la manovra. Il male è sconfitto.
Nel '700, probabilmente, mi sarei comportato come Barry Lyndon: ne avrei individuato il consorte chiedendogli soddisfazione in una sfida con la pistola. Nell'anno 2017 il senso civico prescrive rispetto.
Ho avuto la fortuna di avere due nonni: uno mancato quando ero molto piccolo, lasciandomi quasi all'asciutto di ricordi, l'altro molto più longevo, e quindi mio unico influencer quanto a testimonianze endogame. Campagna d'Albania, volontario nella leggendaria bonifica dell'Agro Pontino, dodici figli, una vita passata curvo sui campi, spina dorsale di ebano e scorza di roccia. Sebbene un padre padrone, sono certo parte della resistenza che mi riesce di mettere in campo nei momenti difficili la debba alla sua dotazione genetica e al suo esempio. Mai un gemito, mai una lamentela (e la sua fu una vita durissima), dignità estrema. Un Clint Eastwood ante litteram: se bussavi alla sua porta e chiedevi accoglienza, un pasto caldo - per bontà anche della dolcissima nonna - lo rimediavi, ma se violavi con prepotenza la proprietà, affrontavi la falce (non è leggenda: gliela vidi tirare).
Ora, so che è troppo facile santificare i propri congiunti: è un esercizio disgustoso, primariamente responsabile di quel familismo italico che ancora non ci è riuscito di debellare. Ma nonostante gli errori commessi (sfido chiunque a non commetterne con un curriculum vitae come fu il suo), molti dei quali imputabili a cause generazionali, in mio nonno posso ancora vedere un esempio, e con sforzo trarvi una testimonianza. Soprattutto rimane il ricordo di una persona per la quale non si provava imbarazzo. La sua condotta fu quella di un uomo classe 1911, delle cui scelte egli pagò sempre in prima persona (ed in alcuni frangenti, il conto fu salato).
Sebbene post mortem gli abbia riservato non poche critiche, penso però non sarebbe mai stato capace dell'aggressività, dell'arroganza e della prepotenza messa in campo dalla carampana che oggi mi ha chiuso in parcheggio.
David Foster Wallace, esprimendosi sulla visione degli anziani che bloccano le casse al supermercato, diceva che dovrebbe essere proprio la cultura ad aiutarci a capire che questo impedimento non è un complotto nei nostri confronti, bensì un gesto dovuto ad una serie di ragioni le quali tutte esulano dalla questione personale, quella che ci riguarda in prima persona.
Amo Foster Wallace, ma questo non basta a persuadermi del tutto. Ho la brutta impressione che noi si sia di fronte ad una nuova leva di anziani, potenzialmente arroganti e stronzi in gioventù, che con l'età hanno ulteriormente accentuato questi tratti. Per diventare un grande anziano serve una vita intera, ed il risultato ha a che fare con la modalità – lo stile – con la quale la si è condotta.
Questa generazione di anziani, la prima che rifiuti rabbiosamente di abdicare ad ogni ruolo assegnato loro dalla vita, non ha speranza di alcun lascito.

giovedì 26 ottobre 2017

PAURA E DELIRIO AD HADDONFIELD. Il 'remake' di una colonna sonora.


Come spiego a mia figlia che la festa per la quale scalpita da settimane non ha nulla a che fare con la nostra cultura, che è frutto di importazione, di becera sudditanza agli Yankees? Che noi importiamo festività rendendole nazionali seduta stante, ma gli esportatori di queste si guardano bene dal fare altrettanto con i santi e i beati di casa nostra? Che in questo momento suo padre parla come Salvini, ma è ben lungi da assumerlo a modello di condotta politica? Forse, semplicemente, non le devo spiegare un bel niente. Anche quel vecchio babbione di Santa Klaus, alla fine, non sta domiciliato a Grosseto, eppure nessuno, me compreso, si preoccupa di fornire spiegazioni di alcun tipo. Quanto a Salvini... La Lega è già morta e sepolta: quando mia figlia sarà grande, tra le maschere di Halloween ci sarà sicuro anche quella del leader leghista, rievocazione di uno spirito da regno dei morti, e allora capirà da sé.
Personalmente, l'unica ragione per la quale provo eccitazione all'avvicinarsi della festa di Halloween è il rito della visione del film omonimo di John Carpenter, giunto oggi al suo trentanovesimo compleanno ed ormai stabilmente nella top ten delle pellicole-culto di tutti i tempi.
Quest'anno, in particolare, la sua visione si annuncia ancora più eccitante del solito grazie al valore aggiunto conferitogli dalla rivisitazione della colonna sonora da parte di Trent Reznor e Atticus Ross, duo attivo nel comparto del commento sonoro dal 2010, quando firmarono le musiche per The Social Network di David Fincher, vincitrici di un premio Oscar nella categoria Colonna Sonora Originale.
In questo ultimo decennio, lo sconfinamento dell'immagine in ogni comparto del vivere umano ha radicalmente modificato il processo creativo. La stragrande maggioranza delle immagini in circolazione è frutto di occhi inesperti, per nulla talentuosi, incapaci di cogliere l'essenza delle cose, privi di qualsivoglia cultura (i selfies, le pietanze, i panorami marini, i particolari feticistici, l'amatoriale come genere, il porno). Per dirla con Sebastião Salgado: se non hai studiato e non conosci ciò che fotografi, il risultato è nullo. Non è perciò facile trarre ispirazione, da una simile massa informe. Non c'è commento, né sonoro né verbale, che possa scaturire da una quasi totale assenza di contenuti.
Penso per questo motivo Reznor e Ross abbiano attinto ad un cinema risalente a tempi non sospetti, quando la creazione dell'immagine ancora era finalizzata, molto più di oggi, a convogliare, oltre ad una visione, dei contenuti narrativi. E dove anche la materia sonora, vuoi per questioni di budget vuoi per tradizionalismo, era ancora trattata in maniera convenzionale (l'orchestra sinfonica). Più di una buona ragione, quindi, per rivisitarne la colonna sonora, composta ed eseguita, al tempo, dallo stesso John Carpenter.
Se è vero – e lo è – quanto asserito nel principio di indeterminazione, il regista statunitense non fu quindi nella possibilità di cogliere le molte implicazioni insite nella sua creatura. Il suo sguardo di compositore era troppo prossimo a quello registico per non informare la colonna sonora in direzione di un'approssimazione – per quanto efficace. Ed è in questo scarto che si inserisce l'operazione di remake in oggetto.
Questo rifacimento cela un doppio omaggio. Il primo è quello che svincola il progetto dall'ennesimo remake cinematografico, eliminando così ogni logica commerciale. Il secondo, consequenziale, è il riconoscere, da parte del duo, la validità un'opera che sembra parlare al pubblico molto più oggi di quando esordì nelle sale cinematografiche, e che quindi necessita di qualche ritocco estetico solo nel comparto musicale – ambiente dove le due schegge dei mitici Nine Inch Nails (il gruppo dove militano Reznor e Ross) figurano come inquietanti ed esoterici manipolatori.
La scioccante definizione sonora - che, rispetto all'originale, rende maggiormente la bipolarità del male incarnato nel protagonista maschile, per mezzo di sovraincisioni nettissime e diversificate nel missaggio; la forma - divisa tra il prologo rumoristico ed accordale (associabile alle sequenze di stalking), una parte centrale ripetitiva ed in crescendo (i primi omicidi), ed il finale, dove il tema è ripreso e trattato sullo sfondo di un beat elettronico (il climax della violenza omicida con l'assunzione della protagonista femminile a vittima predestinata)...
Insomma, più di un buon motivo, a mio parere, contribuisce a fare di Halloween, Trent Reznor & Atticus Ross Version l'ascolto maggiormente adatto a questi giorni indecifrabili.

martedì 17 ottobre 2017

MERAVIGLIOSE CREATURE. Il video di 'Creature Comfort' degli Arcade Fire.


Un critico di Time Magazine ha una volta definito gli Arcade Fire un incrocio tra i Clash e il Cirque Du Soleil. Centro perfetto.
Per Terry Gilliam, che ne ha curato la regia dal vivo in occasione di un concerto, si tratta di “ musicisti giovani e talentuosi”. E detto dall'ex Monthy Python...
E poi c'è Tarik Minou, visual artist con collaborazioni al fianco di Moment Factory, i geniali super-nerds ideatori di allestimenti di metafisica bellezza come Lights In The Sky e Tension 2013, creazioni al cui confronto le megalomanie di bands come U2 e Coldplay si riducono a giocattoli per bambini.
Ma cosa accomuna questi nomi: Arcade Fire, Tarik Minou, Moment Factory? È presto svelato: tutti loro sono canadesi dell'area di Montreal.
Dalla notte dei tempi, i circoli intellettuali ed artistici sono risultati essere frutto di germinazioni che, originanti dalla figura del cosiddetto padre fondatore, sono concresciute in loco, conferendo loro una precisa connotazione e collocazione geografiche. Classicismo, romanticismo, impressionismo, circolo di Vienna, gruppo dei sei, dadaismo, modernismo, jazz. Salisburgo, Vienna, Parigi, Zurigo, Trieste, Chicago.
Ed oggi, anno 2017, Montreal, Québec.
Questa comunanza, per tornare ai protagonisti del post, non può essere un caso. Siamo di fronte ad un movimento di arte video-grafica senza – o con pochi – precedenti. I nomi che ruotano intorno a quest'area, e quelli che ad essi si affiliano, producono da anni vere e proprie opere che, ibridando musica, immagine e danza moderna, si pongono come e veri e propri fulcri di influenza ed avanguardie di comunicazione.
Esattamente le caratteristiche di Creature Comfort, il bellissimo videoclip degli Arcade Fire per la regia di Tarik Minou.
La location è al chiuso, un non luogo dove i nostri appaiono in tenuta da concerto. Siamo in assenza di pubblico, ma l'illuminazione (rigorosamente luce bianca a rompere un buio altrimenti totale) è quella tipicamente stroboscopica impiegata negli spettacoli dal vivo. Quattro di loro stanno ordinatamente disposti in campo, li vediamo cioè impegnati a suonare. Il cantante, in primo piano, impalla invece sistematicamente la visuale per l'intero brano, camminando dentro e fuori campo. In mano non ha un microfono, bensì una torcia led, accesa, impiegata a guisa. Giungono i primi versi, e con essi i sottotitoli a scorrimento, stile Times Square, con il testo della canzone. Si va avanti così per cinque minuti scarsi, fino a quando il brano non termina in quello stesso buio totale rotto agli inizi dal martellare del sintetizzatore. Fine.
Il testo di Creature Comfort - titolo di difficilissima traduzione - si incentra sul tema del narcisismo dell'apparire (Stand in the mirror and wait for the feedback). E dell'apparire non per come ognuno di noi è o sente di voler essere, ma per come entità terze ci vogliono vedere (il web, la televisione, i conoscenti, la famiglia, a volte persino la scuola). La sofferenza, da parte della protagonista del brano, nell'apparire corrispondente alla visione altrui (God make me famous / if you can't just make it painless), è qui accentuata dall'incapacità, dalla mancanza di sensibilità, di coloro a lei più vicini, a comprenderne i segnali (She told me she came so close): il grido disperato, il bisogno di trovare l'alternativa a questa eterodirezione della propria persona ed il 'conforto' di una presenza amica (it's not painless / She was a friend of mine), di una persona in carne ed ossa.
Rancori, suicidio, conformismo, cecità ai valori che ci circondano (Born in a diamond mine); ma anche speranza, ricerca della propria identità. Sono temi di rilevanza assoluta. Tutti.
La camminata nevrotica ed incessante di Win Butler, cantante degli Arcade Fire, è la chiave di lettura di questo videoclip. Trasmette un'urgenza comunicativa di assoluta efficacia e genialità. Trascende ogni forma proprio di quel doloroso apparire narrato nel testo (osservate:i primi versi sono cantati fuori inquadratura). I sottotitoli evidenziano nello spettatore l'incapacità di noi moderni ad ascoltare e comprendere le parole che ci sono rivolte. Come in molta dell'odierna informazione, lo scorrere della notizia nella notizia sembra l'unico modo per attivare la nostra attenzione e la nostra sopita sensibilità.
Ma in questo video – prestate attenzione – i due messaggi, il testo ed il sottotitolo, coincidono.
Penso non si possa pretendere, da un'opera d'arte, maggiore speranza – e bellezza - di questa.

domenica 8 ottobre 2017

MERDA 100% (LAVARE CON CURA). L'ultimo singolo degli U2.


Qualcuno di voi ricorda la battuta di Cochi Ponzoni, quella che fa: “Ma lo sa che lei è un mio grande ammiratore?”?
Se è così, ciò significa che siete vecchi quanto me, e quindi in grado di ricordare che, quando il comico milanese andava pronunciandola all'apice della carriera, in quel di Dublino gli U2 non erano ancora nati.

Questo fa capire quanta influenza egli abbia avuto sul gruppo irlandese, se questo, 40'anni dopo, va ad intitolare il suo ultimo singolo You're The Best Thing About Me, sei la miglior cosa di me, titolatura ponzoniana al 100%, ma portatrice, diversamente dall'originale, di infinita tristezza.
Perché messe da parte tutte quelle baggianate romantiche (l'innamorato che vive nell'altro e via dicendo), la fuffa sui riferimenti alla Motown (!) e le supposte tragedie personali (il peggiore di tutti i ricatti: la pietà), qui si sta parlando di persone prossime alla sessantina, stelle conclamate del rock (o di quel che vi resta), egocentrici di primo livello, a partire dal loro leader indiscusso, Bono, che tanto hanno coltivato il proprio ego in questi decenni dall'essersi ridotti a non vedere altro che se stessi e a convincere di ciò un po' tutti coloro che vi lavorano insieme. Non ultimo il regista (!) svedese Jonas Åkerlund, responsabile dello spaventoso videoclip.
Partiamo da qui.
L'arte del video musicale è un'arte complicata. Richiede, oltre che sensibilità, una bella dose di inconfessabile videodipendenza (per capirci: guardi incantato tutta l'opera di Stanley Kubrik, ma anche le repliche di Uomini & Donne, in entrambi i casi traendone ispirazione). Questo non è un videoclip: è, a tutti gli effetti, una marchetta, un video promozionale. Va bene se sei appena uscito da X Factor. Non va bene per nulla se sei un pluripremiato ed affermato gruppo musicale in attività. E poi: basta con gli irlandesi a New York. È storia risaputa, come quella degli italiani del Bronx. Sono storie da bandire, se l'unico utilizzo deve essere quello strumentale del luogo comune. La firma degli autografi, i selfies con i fans, l'ennesimo concerto sul rimorchio lungo la quinta strada, la skyline sullo sfondo, ammiccamenti e saluti alla folla che neanche papa Francesco. Decisamente, non ci troviamo nel territorio del non-visto, del visionario.
Musicalmente siamo davvero ai quattro soliti accordi, al punto da dubitare che quelli impiegati siano frutto di una scelta artistica. Suono la chitarra da quando ero ragazzo, e come loro sono stato un autodidatta. È tipico di questa categoria arenarsi sui famosi, soliti quattro accordi, fatte salve le eccezioni costituite dai talenti (cinque, sei, non di più, e i quattro irlandesi ne sono esclusi). Negli anni ho allargato di molto la mia concezione armonica, non per grazia ricevuta (non sono Bono), bensì attraverso la fatica dello studio. In altre parole: non c'è oratorio dove lo strimpellatore ufficiale non sia in grado di riprodurre qualsivoglia successo recente del quartetto irlandese nel giro di un pomeriggio. Pensate sia possibile con ogni altro celebre artista? Certo che no. Provate con dei brani del fu Michael Jackson – giusto per citare uno che non era propriamente di nicchia -: impazzirete molto prima di quanto pensiate.
Quanto all'analisi del testo, più che risparmiarvela, non ci penso proprio, a farla. Ci sono legioni di mentecatti cui compete questo compito. Perché a questi si rivolgono, ormai, gli U2.
Il colpo di grazia è assestato dalla foto di copertina, dove la figlia di Edge - espressione vacua, capigliatura da ospite di casa circondariale pre-Basaglia - è ritratta da Anton Corbjin in uno scatto sorprendentemente privo di ogni significato, se non quello di un'autoreferenzialità che coinvolge persino la prole. (Alla faccia della libertà di espressione, signor Corbjin! E per fortuna che che i grandi familisti, i nepotisti d'Europa siamo noi italiani, signor Evans!).
Visionarietà, profondità, sperimentazione, sensibilità. Caratteristiche una volta appartenute alla band irlandese e che oggi sono appalto di ben altre, diverse formazioni.
Come quella che ha visto coinvolti Arcade Fire ed il regista Tarik Minou, per lo strepitoso videoclip di Creature Comforts, che sarà l'oggetto del prossimo post.
Sempre che i fans degli U2 non si rivelino permalosi e mi attendano sotto casa.

domenica 1 ottobre 2017

LA VITA È CIÒ CHE NE FAI. Una vecchia 'hit' resuscitata dai Placebo.


Peccato che Brian Molko abbia ormai da tempo ceduto ad atteggiamenti da primadonna: egoici, presuntuosi, accentranti (forte, in questo, del fatto che la propria band, a 20'anni buoni dal debutto, sia ancora viva e vegeta).
Sarebbe bello parlare con lui, infatti, da persone normali, dei presupposti che lo hanno portato, insieme al suo gruppo, a realizzare una delle covers più belle, azzeccate e significative degli ultimi tempi.
Life's What You Make It, successo anni '80 degli ormai artisticamente defunti Talk Talk, è stata riproposta dai Placebo, nel giugno scorso, corredata da un video di notevole spessore autorale e politico, affidato dagli stessi a Sasha Rainbow, video artist già apprezzata per arditezze registiche in ambito musicale e pubblicitario (mi chiedo: Gabriele Muccino guarda mai i videoclips dei suoi colleghi prima di realizzare quelle cose terribili con Lorenzo Jovanotti?).
La coesione assolutamente perfetta creata da questa factory tutta britannica (arrendiamoci: quando si parla di rock il paese della Brexit è ancora il riferimento d'obbligo) è tale da costringere ad un'analisi congiunta del progetto – similmente, per citare un esempio, a quanto accadde quasi 40'anni fa con The Wall dei Pink Floyd, in seguito al film di Alan Parker.
Il set, in esterna, è ambientato ad Agbogbloshie, sobborgo di Accra, Ghana. Nella bellissima fotografia, e nel montaggio alla moviola, donne, uomini, ragazzini e bestiame sono ripresi nel corso di una surreale attività di differenziaggio in un'immensa discarica a cielo aperto. I titoli di coda spiegano che Agbogbloshie è stimata come la più grande discarica tecnologica del mondo. La devastazione ambientale, sociale ed urbana cui si assiste atterriti per i sei minuti scarsi del videoclip è l'indiretto risultato di ogni computer, televisore, cellulare, tablet, reader, cuffia, pad, auricolare, smartwatch e qualsivoglia gadget costantemente presente in tutti i negozi di tutte le nostre città, da noi rottamato a favore di un nuovo modello. A livello registico, escludendo l'iniziale zoom inverso di matrice kubrikiana (il Maestro è ormai una presenza inconscia in tutti coloro che siedono creativamente dietro una cinepresa), non assistiamo alle arditezze cui si è accennato in apertura (si veda, al proposito, l'ansiogeno video che Sasha Rainbow ha realizzato per il brano Electric Bones di Natalie Findlay). Va qui premiata l'intuizione di conferire alla cover una veste non iconografica (i membri della band non sono presenti nel filmato), bensì quella di una coraggiosa scelta politica e civile.
Fin qui, fattura delle immagini a parte, nulla che non sia già stato mostrato e denunciato dal più intransigente e militante giornalismo d'inchiesta.
Con questa versione di Life's What You Make It, però, il discorso prende una piega del tutto inaspettata.
A livello sonoro, rispetto all'originale, è assente ogni traccia di strumento acustico (il giro di pianoforte e la batteria). Armonicamente fedele alla versione dei suoi autori - con l'esclusione della voce, limpidissima - ogni strumento è proposto con una propria, sofisticata campionatura. Campionature – ed eccoci sul pezzo, come si suol dire – ottenute, magistralmente, proprio con quella componentistica che, nella ripresa aerea a chiusura del video, vediamo occupare una superficie nel mondo occidentale normalmente assegnata ad un centro urbano di media grandezza. La voce di Brian Molko (missata in maniera a dir poco magica), oltre a conferire un nuovo peso specifico al testo di Mark Hollis (visionario al tempo della stesura, distopico ad una lettura odierna), instilla un senso di pura bellezza su di un panorama umano apocalittico, con quel vocativo “Baby” alternativamente rivolto a noi ascoltatori – e fruitori di gadgets elettronici – e, per estensione, alle creature che popolano la discarica, in un inquietante affratellamento (avremmo potuto esserci noi tutti ad Agbogbloshie, in un altro corso storico). In altre parole, si è di fronte ad una estetizzazione, di notevole livello, del grottesco. Ciò che appaga il nostro ascolto è prodotto da quello stesso scarto che vediamo stazionare nel sobborgo ghanese. Ciò che può aiutarci a dare un senso al vivere è lo stesso oggetto che soffoca e toglie la vita. Anche qui va apprezzata l'intuizione del gruppo inglese: l'avere avvertito che ad una nuova veste sonora sarebbe corrisposto un nuovo, più attuale ed urgente messaggio.
La vita è ciò che ne fai. Life's What You Make It. Non è effettivamente così, ad ogni livello, in ogni ambito, per ogni singola esistenza? Pensiamoci. È un'asserzione le cui conseguenze, in determinati contesti, potrebbero rivelarsi devastanti. Ma tutti, con uno sforzo, possiamo verificarne l'attendibilità, almeno per ciò che riguarda le nostre singole esistenze.
In un'epoca di radicalizzazioni come la nostra è una riflessione che dovremmo compiere spesso.
E che sia una canzone a ricordarci questo, è solo il segno che l'arte è ancora viva.
Parla a noi.

mercoledì 27 settembre 2017

RIDERE IN FACCIA A 'STO CAZZO. La comicità da bar di Giorgio Panariello.


Satira è quando prendi in giro chi è più ricco di te.
Parodia è quando prendi in giro chi è più intelligente di te.
Avanspettacolo è quando fai entrambe le cose calandoti le brache.

(Daniele Luttazzi)
L'odio che provo per Giorgio Panariello non ha precedenti, in me. Può essere che ciò mi classifichi come essere moralmente riprovevole (metto cioè i campo la massima intolleranza per un comico tralasciando soggetti maggiormente meritevoli – guerrafondai, politici, capitani coraggiosi, furbetti del quartierino, demagoghi, faccendieri , preti pedofili, banchieri e chi più ne ha più ne metta, l'elenco è lungo).
Sta di fatto che vedere la sua faccia sui manifesti affissi ovunque a promuovere il suo prossimo spettacolo – e senza inserire nel computo l'onnipresenza televisiva di portata berlusconiana, dovuta a quella merda di spot per la telefonia -, ha di colpo rinnovato in me tutto il disgusto per questo personaggio (perché tale è, Panariello) e per lo straordinario successo che da anni gli viene stagionalmente tributato.
Mi irrita perché vedo in lui, nel suo volto, nelle sue espressioni, quell'Italia che ne ride stupidamente divertita (cosa aspettano a consegnarci l'autore della battuta questo Fabri mi sfibra?). Un'Italia con la quale non mi sento fratello, in sintonia, sempre più ottusamente lanciata in direzione del modello conformistico corrente.
L'umorismo di Giorgio Panariello è un umorismo paraculo, privo di qualsivoglia giudizio critico, piglio, reattività. È il simpaticone del bar assurto a star, ad indiscussa celebrità nazional-popolare (caratterizzazioni tute presenti in Bagnomaria, lo spaventoso film del '99 che il nostro ebbe persino la sfrontatezza di dirigere), sorta di Tognella del Centro-Italia. Nel migliore dei casi, la battuta, o la parvenza di questa, si riduce ad un accenno, ad un sottinteso (considerato poi il suo pubblico, frainteso), soffocato sul nascere dalla risata isterica indotta dall'aver pure pagato per un simile, triste spettacolo. Gli spots realizzati per Wind (che Dio la stramaledica) rappresentano i contesti dove meglio viene esercitata la sua arte da avanspettacolo, di questo comico ritenuto indispensabile, dove si palesa tutta l'invidia che non può non caratterizzare intimamente ogni commediante non schierato (il Giorgio nazionale avrebbe ucciso per essere Jack Sparrow).
Se poi si pensa che l'antidoto a questa comicità corporea (la stessa che porta allo sfottò del compagno di classe sovrappeso, cari genitori) è considerato Maurizio Crozza, viene meno ogni speranza. Di quanto inerte sia il nostro 'antidoto' ne è misura quella stessa, identica onnipresenza con la quale anche il comico di La7 abita il martellamento pubblicitario televisivo. La7 lo ha assunto in tacita sostituzione di Daniele Luttazzi – scelta indegna di una direzione artistica o di rete che sia, caso meritevole non solo di un post, ma financo di una tesi di laurea. Un comico che, ignaro di stagioni di Bagaglino, esercita ancora la sua (?) critica attraverso l'imitazione caricaturale.
E qui dovrei passare all'attacco di un altro, insopportabile toscanaccio, Leonardo Pieraccioni. E Ceccherini, e Benigni, e le nuove leve di Zelig, Colorado Café, l'orrore di Made In Sud, tutte manifestazioni di come - checché se ne dica - gli italiani sono sempre meno capaci di ridere, di autoironia.
A proposito: avete mai fatto caso alla somiglianza espressiva e somatica di Maurizio Crozza con Pierluigi Bersani?

giovedì 21 settembre 2017

PROVA D'ORCHESTRA. Al Settembre Musicale con mia figlia.


Ieri l'altro, mia figlia ha ricevuto quello che si può definire un vero e proprio battesimo musicale. Invitata ufficialmente dal Maestro ed amico Alessandro Carnelli, ha potuto assistere – ospite unico ed indisturbato - alle prove dell'Orchestra del Settembre Musicale, diretta dal Maestro stesso. In programma, il grande sinfonismo tedesco: Ouverture, Scherzo e Finale di Schumann, e la bellissima sinfonia n°5 detta La Riforma di Mendelssohn. Pagine che mettono alla prova musicisti ed ascoltatori. Figuriamoci un putto.
Piccola ha retto bene per un'ora e mezza. Ha avuto un picco positivo nel Finale Schumanniano, quando si è alzata in piedi a dirigere, ed uno negativo all'attacco – da groppo alla gola – della Riforma, quando ha invece assunto una difensiva postura fetale. Nell'insieme si è trattato, per lei, di un frontale, un urto improvviso, senza preparazione, con il bello nella sua forma ed accezione più alte. Le istruzioni che il Maestro Carnelli ha dato agli orchestrali nei punti più critici delle due partiture, sono state seguite con stupore ed una sequela di domande a mamma e papà – che questi gireranno umilmente al Maestro, quando ne avranno occasione.
Vi chiederete – domanda legittima – perché io metta in bella mostra quelli che sono, a tutti gli effetti, affari di famiglia, 'cosa nostra'. Crescere un essere umano non è cosa semplice. Non sono certo il primo ad averlo scoperto né l'unico ad averlo detto. Il fatto, semplicemente, è che, come padre, mi trovo proprio in questa fase: la semina di quelli che – si spera – un domani saranno i suoi riferimenti sentimentali, emozionali, valoriali ed estetici. Uno sforzo immane finalizzato ad evitare che una sera, nell'età più critica, essa aspetti papino, tra il chiaro e lo scuro, per un regolamento di conti alla Harry Callahan (chissà se sono poi davvero questi i motivi dietro ai parenticidi?). Il tentativo di lasciare alla tua creatura un'eredità che le permetta di soprassedere al giudizio su tutta quella meschinità e quella bassezza di cui ti sei reso protagonista, e venuta inevitabilmente alla luce nel corso degli anni. Quindi, per tornare a noi, la risposta è: per dare un suggerimento, parlarne e condividere un momento bello.
Detto ciò, penso che, da questo punto di vista, l'alfabetizzazione musicale sia propedeutica, quando non fondamentale, alla crescita intellettuale di un individuo. Non ci si rende spesso conto di quanto materiale sonoro venga incessantemente sottoposto alla nostra attenzione, nella stragrande maggioranza dei casi con finalità del tutto distanti da quelle artistico-espressive. Non essere in grado di interpretare adeguatamente questo tipo di veicolazione significa abbandonarsi di fatto ad un lavaggio del cervello non difforme da quello cui viene sottoposto il giovane Alex in Arancia Meccanica (guarda caso, tramite l'ascolto forzato dello Scherzo dalla 'nona' di Beethoven).
Certo: non tutti hanno la fortuna di poter godere di un'amicizia come quella nostra con Alessandro Carnelli (quanti di voi, me compreso, da piccoli hanno mai sentito parlare del classico amico di mamma e papà come di quel signore che fa il direttore d'orchestra? L'istruzione pubblica dovrebbe consentire un'educazione ad armi pari anche in ambito musicale). Alessandro, oltre ad essere un amico di gioventù, è stato un compagno di studi, sodale di diverse avventure musicali, non ultima – sono certo concorderà – la missione di ben 24 anni fa in quel di Torino proprio per assistere alle prove del grande Claudio Abbado con i Berliner Philarmoniker. Ho la presunzione di affermare, con quasi assoluta certezza, di essere stato, quel giorno, testimone unico del momento nel quale ad Alessandro risultò finalmente chiara la vocazione alla carriera direttoriale. Vederlo oggi sul podio offrire alla mia piccola l'opportunità meravigliosa che a suo padre toccò solo in età adulta, è un privilegio e un gioia. Grazie a lui, un cerchio si chiude, in coerente continuità con l'attitudine culturale e formativa che fu del suo (nostro) amato Claudio Abbado.
L'educazione sentimentale dei giovani – in questo caso giovanissimi – ha un solo percorso praticabile, ed è quello che passa attraverso i genitori. Se questi sono incapaci non dico di spiegare (non v'è nulla che un essere di cinque anni sia in grado di comprendere razionalmente, per non dire di quanto sono insopportabili i genitori che spiegano tutto), bensì di vivere con serenità l'insorgere dei propri sentimenti, il rischio è quello dell'anaffettività. Ricordo ancora con orrore il famigerato test psico-attitudinale per l'idoneità al servizio di leva. “Ti viene spesso da piangere?”. Certo che no! Mammolette e froci tutti, se si piange. La messa al bando statale di ogni sentimento. Parte delle conseguenze di questa educazione è consultabile quotidianamente sulle pagine di 'cronaca' e di 'nera'.
L'altra sera, per tornare al discorso iniziale, mi è stato difficile trattenere le lacrime quando il Maestro e l'orchestra hanno attaccato il bellissimo primo movimento della sinfonia di Mendelssohn, e sono giunti quei tre accordi finiti poi nel Parsifal (straordinario caso di citazione al contrario: la prima volta li ho sentiti, infatti, nell'opera di Wagner, e solo successivamente nell'originale de La Riforma). Penso due cose, al riguardo. La prima: quando tiri le cuoia in pace con te stesso (se ti sarai potuto concedere questo lusso), quello che senti sono proprio gli accordi del Graal. Secondo: se una musica così divina non muove nulla in te, hai un problema. Proprio grazie alla musica, mi è stato possibile, negli anni, liberarmi di un'ingiusta vergogna.
Mentre scrivo, piccola ha perso il suo primo dente.

martedì 12 settembre 2017

MAMMA MIA! Quando tua madre prevarica.


Mi sia concessa qualche parola su mamma Anna, quella che, scritta una lettera aperta a Lorenzo Jovanotti, imputandogli ironicamente – dice lei – la sterilità della figlia (Caro Lorenzo Jovanotti, sappi che ti ritengo in parte responsabile del fatto che io non sia ancora diventata nonna.”), sta godendo del suo momento di celebrità web, con tanto di apprezzamenti e attacchi all'insegna della cattiveria gratuita – o cyberbullying.
A parte la morbosità di una madre che, ironicamente o no, si occupa della vita sessual-riproduttiva, sessual-godereccia o sessual-sentimentale della figlia, è chiaro che pargoletta, in casa, non deve aver trovato molte alternative discografiche al Jovanotti. Un mio professore delle superiori – stronzo, ma sempre sul pezzo, colto e competente – disse, a riguardo dell'allora nascente fenomeno Cherubini: “Se ascolti Jovanotti, te lo meriti.”. È l'equivalente musicale del fenomeno Volo, sebbene quest'ultimo sia di più recente fabbricazione: se è questo che mamma e papà ti fanno trovare sugli scaffali della libreria, hai voglia risalire.
I miei gusti musicali, in famiglia, non sono mai stati oggetto di condivisione (troppo estremi, troppo sofisticati per un contesto musicalmente analfabeta). Me la immagino proprio, mia madre, che scrive una lettera a, che ne so, Tom Araya (“Sa, signor Araya, penso sia colpa sua se la fedina penale di mio figlio, che ascolta incessantemente la Sua musica, è lunga come uno scontrino dell'Ikea”, ecc., ecc.). Ma è questo il punto di forza psicologico dei gusti musicali di gioventù: ti differenziano da mamma e papà. Ti offrono una prima opportunità in quella direzione. Qui siamo di fronte, invece, ad una coppia di genitori che lungi dal deprecare i gusti della figlia, si sostituiscono a questa scrivendo al suo idolo, e se ne vanno a celebrare l'anniversario di matrimonio a Cortona (paese di residenza del Cherubini). Non posso, in questo frangente, esimermi dal citare che questo tipo di dinamica è stato tecnicamente descritto da Massimo Recalcati ne Le Mani Della Madre, al capitolo La Madre Narcisitica. Buona lettura, quindi.
Mamma Anna si lamenta - sempre ironicamente, dice lei – dell'eccessiva idealizzazione del partner maschile riscontrabile in ogni santo disco di Jovanotti. Intanto, per fare l'ironica, ha in tal modo affermato che i dischi dell'idolo di sua figlia sono tutti uguali, profetizzando persino che tale sarà il prossimo (Tu, caro il mio Lorenzo, che fai? Pubblichi un altro cd….e allora dillo che vuoi rovinarci!”). E difatti, per scongiurare questa gufata, il sito web di Radio DeeJay - l'emittente che, lanciato il Cherubini 30'anni or sono, ne detiene da allora una considerevole quota azionaria - è corsa a comunicarci che questo disco sarà prodotto da niente meno che Rick Rubin, re Mida della produzione, l'eminenza grigia dietro molti tra i più importanti dischi degli ultimi 35 anni. Insomma: una serie di porte viene spalancata con sconsiderata irruenza.
Dal momento che Rick Rubin ha effettivamente prodotto alcuni tra i miei dischi preferiti di sempre, mi sembra proprio che noi si sia di fronte alla conclamata fine dell'innocenza. Se un personaggio come lui, dopo avere firmato registrazioni eccellenti per Run DMC, Slayer, Damien Rice, Metallica, Red Hot Chili Peppers, The Cult, Johnny Cash, God Lives Underwater e quanto altro di meglio vi sia in circolazione; se un personaggio così, dicevo, finisce col produrre l'ultimo disco di Lorenzo (non il personaggio di Guzzanti: Cherubini), significa che, una volta staccato l'assegno secondo le istruzioni impartite, il signor Rubin è disposto a produrre anche il complesso dell'oratorio e vaffanculo a tutto.
A chi la pensa come me, mamma Anna ha dato del “leone da tastiera”, definizione - questa sì – ironica, ma non in grado di metterla a sufficiente riparo da critiche fondate.
Dopo attenta valutazione, invece, di concerto con il proprio ufficio-stampa a camere riunite, è giunta, immancabile, la risposta di Jovanotti, a sostegno – figuriamoci – dell'incompresa mamma Anna. Entrambi a sottolineare che si trattava di uno scherzo, naturalmente non compreso da tutti quelli come me.
Ma non è quello che faceva, a giorni alterni, Silvio Berlusconi quando ci amministrava? Non era sempre il fraintendimento a caratterizzare la nostra disapprovazione alle sua 'barzellette' – ricordate? -?
Dov'erano, a quel tempo, Jovanotti e mamma Anna? Occupati, forse, a contattare il signor Rubin?

sabato 9 settembre 2017

THE BEST. Ovvero: come incappai nell'arte meravigliosa di Brad Mehldau.


Sono anni che, sapendo del mio amore per la musica, mi sento chiedere: “Stefano: qual è, secondo te,  il più bravo musicista del mondo?”. Quesito irritante quanto stupido, al quale però, oggi, fornirò risposta, nella speranza di chiudere definitivamente con l'argomento. Il più bravo musicista che abbia mai sentito è Brad Mehldau.
Una sera di molti anni fa (era il 2003), nel mentre provvedevo al lavaggio-piatti, ero sintonizzato con la radio sul terzo canale della RAI. Era in onda l'esibizione di un pianista che, da solo, stava suonando su di un ritmo ostinato. Non conoscevo il brano in esecuzione. Sembrava vagamente un pezzo pianistico di Paul Hindemith. Rimasi incantato. I piatti cominciarono a puzzare, ma dovevo scoprire chi fosse l'autore di quella musica, e chi l'esecutore che, con taglio netto e suono definitissimo, ne stava dando interpretazione. Per una decina di minuti questo misterioso pianista suonò tutto sincopato, per accordi, preciso come una lama di rasoio. Raramente, prima di allora, avevo sentito eseguire della musica con così tanta convinzione, con un pathos che filtrava persino dalla radio, in una maniera così viva. Terminata l'esecuzione, il conduttore rammentò agli ascoltatori che si stava trasmettendo in diretta il concerto del trio jazz del pianista americano Brad Mehldau.
Il figlio di puttana, quindi, stava improvvisando.
Mesi dopo, sui muri della mia città apparvero, puntuali, i manifesti di Lago Maggiore Jazz (magnifica manifestazione, oggi defunta per mancanza di fondi). Lessi: Brad Mehldau Trio, ingresso gratuito.
Non dovevamo essere più di 60, quella sera. Una ventina di aficionados, qualche ficcanaso ed altra gente che passava di lì per caso. Il concerto fu in tutto e per tutto all'altezza delle aspettative in me generate da quel primo, sconvolgente incontro radiofonico. Grazie al clamore-zero, mia moglie ed io riuscimmo senza fatica ad aggirare il palco per una stretta di mano e i complimenti di prammatica. Ci trovammo di fronte ad un nerd sul metro e 90, soporifero ed ipermagnetico. Aveva quello scazzo controllato tipico di chi sa fare bene il proprio lavoro senza esserne consapevole più di troppo.

(ESTRATTO, IN VERSIONE ITALIANA, DAL COLLOQUIO TRA LO SPETTATORE STEFANO PARENZAN DI ARONA, PIEMONTE, E L'ARTISTA BRAD MEHLDAU DI HARTFORD, CONNECTICUT)

- Complimenti, signor Mehldau. Un concerto davvero splendido.

 - Grazie. Mi fa molto piacere.

- Signor Mehldau, io ho una formazione classica alle spalle, proprio come Lei. Ho studiato chitarra classica. Ma amo molto anche il jazz. Mi farebbe piacere se Volesse essere così gentile da elargirmi un consiglio al riguardo.
- Ehm... beh... suona sempre ciò che ti piace, ciò che ami di più. Io faccio così. In questo periodo sto studiando molto Paul Hindemith, e nelle mie improvvisazioni cerco di impiegare il suo stile. Ecco.
- Grazie, signor Mehldau.
- Prego.
- A presto.
- Riguardati.

(FINE DELL' ESTRATTO DI CUI SOPRA)
Hai capito? Paul Hindemith. Beccato. Certo: più facile a dirsi che a farsi.
Sono passati quasi quindici anni. Brad Mehldau non è più solo un talentuosissimo pianista di nicchia: è una superstar del jazz, contesa dai più importanti festivals del mondo.
Da allora non ho più smesso di ascoltarlo e seguirlo.
Ascoltarlo. Le registrazioni, alcune delle quali davvero splendide (i volumi di The Art Of The Trio ed Elegiac Cycle, il suo capolavoro, dischi obbligatori per chiunque ami realmente la musica), sono quelle che, meglio di ogni parola, lo descrivono. Esiste inoltre un bellissimo documentario, dalla serie Portraits, realizzato dal canale europeo ARTE, che consiglio a tutti di vedere, e che è un vero documento di militanza musicale. Vi è ritratto un Brad Mehldau giovanissimo in azione con il suo trio. Le performances sono strepitose, e le interviste che le inframmezzano un vero e proprio sguardo su di un talento raro e vulnerabile, colto allo svanire dell'innocenza. Scoprirete, in entrambi i casi, che è difficile non commuoversi di fronte a così tanta bellezza.
Seguirlo. Sul proprio sito web, dove, episodicamente, esterna il proprio pensiero per iscritto – e che è esattamente ciò che ha fatto qualche settimana fa, alla luce della tragica marcia dei suprematisti bianchi a Charlottesville VA. Perché questo artista straordinario, oltre a talento e pensiero, vanta anche una coscienza alquanto reattiva. Americana. Artistica. Etica. Politica. È perfettamente consapevole, cioè, che i ceffi che hanno sfilato in Virginia palesando anacronisticamente il desiderio di eliminare la presenza nera dal territorio statunitense, attentano proprio alle differenze che hanno generato quell'arte meravigliosa della quale egli è, al momento, uno dei massimi esponenti. Scrive: “Per ciò che riguarda Charlottesville, mi schiero con le tante persone sconcertate dalle parole poco chiare di Trump nei confronti dei neonazisti, e con coloro che protestano contro i neonazisti. Non accetto questo relativismo morale. Alla fine, tutti abbiamo visto la reale violenza che proviene dal campo neonazista. L'amoralità di Trump è un aspetto della sua facciata sostanzialmente narcisistica e della sua stupidità. Non ha la capacità per generare empatia, e di conseguenza nulla di buono farà per il paese o per il mondo. Ciò può cambiare solo con una radicale trasformazione del suo carattere. Penso sia possibile. Nel frattempo, teniamoci impegnati fino a quando verrà indagato o costretto alle dimissioni.”
Non riesco a non pensare all'irruzione dei militanti di Forza Nuova nella chiesa del Pistoiese. Vi vedo un parallelo inquietante.
Brad Mehldau è un romantico che suona jazz.
Imbattendosi in una sua foto recente, e ricordandosi di quel breve incontro dopo il concerto aronese, mia moglie è rimasta colpita dal rivedere in essa l'immagine di un uomo visibilmente invecchiato. E qui sta il nocciolo della riflessione.
Contrariamente a quanto asserito dal luogo comune, quello della musica è un mestiere duro. Richiede impegno, fatica, studio continuo, ed una dose di sofferenza in diretta proporzione con la sensibilità in gioco. Non sorprende, quindi, che il giovane incontrato in quel luglio di tanti anni fa sia stato sostituito da una figura più sciupata, incanutita, invecchiata, sebbene con dignità. Qui non stiamo parlando di musicisti che, azzeccata una formula, hanno poi optato per una carriera di rendita. Parliamo di un musicista vero, come ve ne sono pochi, che realmente ricrea e dona la propria arte, giorno dopo giorno, concerto dopo concerto, disco dopo disco. E quando c'è sincerità c'è anche, ogni volta, un piccola parte di sé destinata a perdersi nell'atto del donare. Per questa ragione i musicisti invecchiano e gli istrioni rimangono congelati nell'età e nei costumi.
La grandezza di Brad Mehldau consiste nell'avere portato la propria tecnica ad un punto dove il gesto - la mano che corre sulla tastiera - non è più avvertito, e la musica scaturisce dai soli cuore e mente.
Un vero e proprio balsamo per le nostre anime, sempre più minacciate dall'aridità di un mondo insensibile.

domenica 27 agosto 2017

HAPPY. La Ricerca Della Felicità rivisto a distanza di un decennio.


A distanza di oltre dieci anni, ho rivisto La Ricerca Della Felicità, il film che sancì l'ingresso di Gabriele Muccino nel circuito delle mega-produzioni statunitensi.
Molto acqua è passata sotto i ponti, da allora. Per il mondo (il film, che narra della risalita dalla rovina finanziaria, venne girato due anni prima del fallimento di Lehman Bros.). Per Muccino (il Gabriele nazionale è, in quel di Hollywood, un resident director apprezzato e premiato). Per chi scrive (sono padre di una bambina che ha, oggi, la stessa età del piccolo co-protagonista).
TRAMA
San Francisco, 1981. Chris Gardner è un uomo di colore, impiegato nel settore delle vendite. Gli affari non vanno bene, peggiorano a vista d'occhio. La sua precaria situazione sentimentale collassa, e ai problemi occupazionali si aggiunge la custodia del figlio. Per i due ha inizio un'inesorabile discesa verso l'indigenza, con tanto di sfratto, notti all'addiaccio, mense e dormitori pubblici. Chris non si arrende, però: oltre a chiudere con le pregresse situazioni debitorie, conquista a fatica (deve affrontare un lungo stage non retribuito) un impiego dignitoso dal quale ha inizio la personale riscossa. I titoli di coda raccontano allo spettatore che, nel 2006, il protagonista ha realizzato una fortuna milionaria vendendo una quota dell'azienda di investimenti da egli fondata 20 anni prima. Quella di Chris Gardner è una storia vera. The end.
SVOLGIMENTO
La rappresentazione che Gabriele Muccino fornisce di questa vicenda, sebbene apprezzabile da un punto di vista tecnico, non è di natura meramente cinematografica, bensì teatrale, un debole presente già allora nella sua produzione come in tantissimo altro cinema (si riveda, a suffragio di questa tesi, la bella sequenza di meta-arte in Ricordati di Me, che tanto deve a Magnolia di Paul T. Anderson, dove la narrazione trova svolgimento e risoluzione nel corso di una recita teatrale; e non si dimentichi che è proprio dopo avere visto questo film che Will Smith ha espresso il desiderio di essere diretto da Muccino). Questa del suo esordio americano è, a tutti gli effetti, una riuscita rappresentazione edificante e moraleggiante come piace agli Yankees, ma priva – si suppone per scelta - di quella visione che dovrebbe, invece, essere propria di un'opera cinematografica. Narrazioni. Racconti. Molto ben fatti. Ma nessuna visione spiccatamente cinematografica.
La felicità sbandierata nel titolo (fedele all'originale The Pursuit Of Happyness) è qui candidamente confusa con la dignità (ma va da sé che, quando accetti di farti produrre per 55 milioni di dollari da una major statunitense e sei all'esordio in quel contesto, certe debolezze vanno accettate acriticamente). I fantasmi dei padri fondatori distorcono la visione USA delle cose. Felicità è, per l'americano medio, il successo lavorativo conseguito attraverso l'adeguamento al sistema, esentando quest'ultimo da qualsivoglia critica. È questo il messaggio che trapela dalla pellicola: il sistema che abbandona padre e figlio all'indigenza, è lo stesso che permette al protagonista di ottenere un posto di lavoro degno di questo nome. Non v'è ricerca alcuna: solo un mettersi al riparo nelle pieghe subdolamente confortevoli del sistema. Sebbene il protagonista affermi, sul finale, che la difficilissima, sfiancante, conquista del posto di lavoro rappresenti per lui quello che realmente è la felicità (significativo il fatto che la battuta venga pronunciata su di una sequenza dove Chris Gardner, fresco di assunzione, scende fiero in strada per unirsi alla massa fino a scomparire quasi del tutto), quella cui si assiste è in realtà ben altro tipo di ricerca. Questo padre che, di fronte al figlio, lotta per essere un padre della legge e un padre capace di fornire una testimonianza (la definizione è di Massimo Recalcati), per fare sì che l'ultimo faro nella notte del suo piccolo non si spenga lasciandolo senza speranza; che sa offrirgli protezione; che sa preservare la sua innocenza; che non rinuncia allo studio e alla crescita personale persino nel più tragico dei frangenti – e grandiosamente interpretato da Will Smith, in primi piani di profonda disperazione umana ed immensa dignità genitoriale, capaci di fornire allo spettatore la vera misura morale di questa vicenda -; questo padre è, piuttosto, alla 'ricerca della dignità' - intento nobile ed umanissimo che consegue, prima ancora che con sé stesso, agli occhi imploranti del suo piccolo.
È impensabile che un'icona come Will Smith non abbia intravisto, nell'accettare questo ruolo, anche un'occasione per riaffermare il proprio orgoglio nero (Opportunismo, il suo, del tutto giustificato, comprensibile e condivisibile. Si ricordi, infatti, che il film venne girato un anno dopo l'attraversamento di New Orleans da parte dell'uragano Katrina, evento che, oltre al passare agli annali per la straordinaria scia di morte lasciata lungo il cammino, definitivamente chiarì al mondo intero quello che era al momento il peso specifico della comunità nera negli Stati Uniti d'America: nullo.).
La Ricerca Della Felicità sembra proprio un film il cui messaggio è sfuggito di mano ai suoi stessi autori.
La Ricerca Della Felicità è un film sul padre.