venerdì 26 febbraio 2016

NO COMMENT! (The People vs. Me)

[…], in questa Nazione, non ti aggiungono centimetri al cazzo.
(The Departed, di Martin Scorsese)

Un uomo e una donna, dovrebbero raccontare di sé soltanto ciò che gli altri hanno diritto di sapere.
(Sergio Romano, Memorie di un Conservatore)

L'amico Alex B. - grazie di esistere, direbbe Eros -, ha colto nel segno anche questa volta: “Quello che mi colpisce del tuo blog è la quasi totale mancanza di commenti”. Touché.
L'osservazione è pertinente. Chi tiene un blog, lo fa essenzialmente per due motivi: la spesso malcelata convinzione di saperne un po' di più della media nazionale, e la ricerca di una gratificazione narcisistica al limite del patologico. Come Belen. Ma per mezzo di altri attributi.
Gli sta in culo che nessuno se lo caghi – no?.
Ecco allora un elenco sommario, non gerarchico, dei potenziali motivi per cui questo blog non stimola commenti (e che, paradossalmente, dovrebbe servire a stimolare la discussione [sì, buonanotte. . .]):

  • il blog fa cagare;
  • il paese è distratto dal voto sulla Cirinnà;
  • nel blog non c'è fica;
  • i contenuti del blog sovrastano la tenuta intellettuale dei suoi lettori;
  • mancano collegamenti a giochi del cazzo come Candy Crush Saga;
  • non rappresenta un'attrattiva per il mondo 'etero';
  • non rappresenta un'attrattiva per il mondo 'omo';
  • non rappresenta un'attrattiva per il mondo 'trans';
  • l'autore del blog vorrebbe sopprimere Emily Ratajkowski – e tutti i suoi followers;
  • l'autore del blog odia Checco Zalone e gli haters;
  • l'autore del blog pensa che il Papa dovrebbe scomunicare Jovanotti;
  • i lettori del blog sono tutti ex dell'autore, incazzati neri per il fatto che questo si è impegnato nella famiglia tradizionale;
  • un complotto dei Servizi nei confronti del blog mira ad escluderlo dal dibattito nazionale;
Nonostante questo, nonostante cioè vi sia carne al fuoco per un reggimento di pseudo polemizzatori e trolls , gli spazi per i commenti sono vuoti come le chiese nei centri urbani.
Vedendo, poi, quali infimi – ed infami – posts vengono commentati, beh: qualche sospetto sorge.
Invidia, assenza di senso critico, mancanza di un'opinione, paura di esporsi: non so davvero, esclusi i motivi in elenco, cosa determini tale insuccesso. Sta di fatto che nell'arte della creazione di muri di gomma, noi italiani siamo maestri. Perché questo è, il lasciar cadere nell'indifferenza ogni argomento, dal più caro al più detestabile: la risposta uguale e contraria di un muro di gomma.
Certo che chi scrive vuole essere letto e compreso! Non salvare il mondo, bensì accendere una discussione che partendo dal molto personale approdi al molto generale (generalista), e possa essere di contrasto alla tristezza e alla solitudine del quotidiano.

Continuerò, allora, a blaterare da solo, come sto facendo ora, e come quei senzatetto che hanno oltrepassato confini dell'esistenza sconosciuti ai più. Continuerò perché mi piace. È una forma efficace di igiene mentale. E forse scoprirò in persone e luoghi impensabili una sensibilità per l'ipermoderno davvero sorprendente.

mercoledì 17 febbraio 2016

Santuzzo

Spare me the bleeding-heart bullshit! Do you know what I'd do if I was in power again? I'd have two queues at airports: one for flights where we'd done no background checks, infringed on no one's civil bloody liberties, used no intelligence gained by torture. And on the other flight we'd do everything we'd possibly could to make it perfectly safe. And then we'd see which plane the Rycarts of this world would put their bloody kids on!
Mi risparmi tutta quella merda sentimentalista! Lo sa cosa farei se fossi ancora in carica? Farei due diverse file ai check-in degli aeroporti: una per voli per i quali non si prevedono controlli, non si calpestano le cazzo di libertà civili di nessuno, e non si utilizzano notizie ottenute sotto tortura. Mentre per gli altri voli faremmo tutto il possibile perché siano in perfetta sicurezza. Vorrei proprio vedere poi su quale aereo metterebbero I loro figli, i vari Rycart di questo mondo!
(The Ghost Writer, di Roman Polanski, 2010)
libera traduzione di Stefano Parenzan

La notizia del minuto di silenzio che l'università Bocconi ha tributato alla memoria di Giulio Regeni mi ha urtato profondamente. Santo subito. Aveva ragione Nietsche a dire che la Chiesa è una maledizione. E lo diceva un secolo e mezzo fa in Germania. Chissà quale reazione, fosse vissuto da noi oggi. Assuefatti fino al buco del culo dalla coabitazione con il Vaticano, siamo divenuti un paese di beatificatori istantanei. Abbiamo il calendario pieno di santi e beati, eppure ne creiamo di nuovi continuamente. Ma allora meglio i calciatori: quanto meno possiamo beatificarli a ragion veduta – un dribbling, un passaggio, un goal da teca RAI. Questi perfetti sconosciuti che assurgono – non si sa bene per volere di chi – a modelli morali e comportamentali dalla mattina alla sera, hanno stancato. Devono – dovrebbero – destare in noi i più legittimi sospetti, essere accolti dal più sano pregiudizio. Ed invece: commemorazioni e funerali di stato. M'è toccato pure sentire, per bocca di un povero essere verso il quale sono obbligato da un rapporto professionale: “Quella bravissima figliola che era la Valeria Solesin. . .”. Gravidanza isterica da mancanza di modelli di vita. Come la metteremo, dovessimo scoprire che San Giulio era, ne più ne meno, come il professor Emmet del film di Polanski? Le verità suffragate da prove incontrovertibili in sede di giudizio servono solo a quelli del mestiere. Noi comuni cittadini possiamo permetterci il lusso della cosiddetta verità pasoliniana, fornita dall'equilibrio di istinto, cultura ed intelligenza. Sappiamo benissimo come si svolge la vita del ricercatore universitario, non siamo nati ieri. Specie se ammesso a Cambridge. Queste prestigiosissime istituzioni non mettono il proprio timbro per soggiorni investigativi in paesi ritenuti a rischio dalle direzioni Esteri competenti – specialità, questa, che sembra essere divenuta la nuova passione italiana. Lo appone per far accedere i propri alumni a fonti documentali precluse ai più, ma la cui localizzazione è ben nota. Christopher Duggan, storico britannico recentemente scomparso ed esperto di storia dell'Italia moderna, era così descritto da Leonardo Sciascia, A.D. 1987: “[...] giovane ricercatore dell'università di Oxford”, il cui lavoro metteva “[...] in luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione […] è rivolta non tanto alla 'mafia in sé' quanto a quel che 'si pensava la mafia fosse e perché [...]”. Senza che l'Old Bailey ce ne dia conferma, sappiamo – pasolinianamente – che per pervenire a questa conoscenza egli non infiltrò personalmente le riunioni della cupola nel corleonese. L'avesse fatto, le conseguenze temo non sarebbero state per lui diverse da quelle subite dal Regeni. E sempre pasolinianamente possiamo dire quel che Sergio Romano, ospite a Radio Rai 3 l'altra mattina, ha lasciato intuire. Raggelanti, le sue parole: “Davvero Le dispiace se dico in tutta sincerità che a questa verità non arriveremo?”. Traduzione: il 'giovane ricercatore italiano' ha messo il naso in questioni che riguardano la sicurezza nazionale del paese del quale era ospite. Il paese ospitante ha reagito secondo le proprie direttive interne. Altro che ricerca della verità e cervelli in fuga e cittadini del mondo, programmi Erasmus, borse di studio e facce pulite. Romano non si è espresso come osservatore: si è espresso da ex diplomatico. Il minuto di silenzio così facilmente elargito dall'ateneo Bocconi è un'offesa a tutte quelle schiene curve e lenti a fondo di bottiglia che nel più appassionato anonimato ci hanno donato pagine di bella scrittura ed illuminanti osservazioni. Rabbrividisco al pensiero che un domani mia figlia possa sentirsi ordinare dal docente nel quale ha riposto la sua fiducia di studentessa universitaria di tacere – tacere! - e concentrare il proprio pensiero su di un presunto martire sconosciuto. Nuove giornate della memoria all'orizzonte, signore! L'università, specie in corso di dottorato, è il luogo principe dell'indagine, di quell'accortezza del sapere che appunto si oppone ad ogni sentenza emessa sommariamente. Come può piegarsi ad una sì stupida volontà politica? Come può un rettore concedere con tanta leggerezza un privilegio che dovrebbe essere di pochissimi? L'immiserimento mitico e culturale del nostro paese è purtroppo ben misurato da questa vicenda.

sabato 6 febbraio 2016

Zapping, Tarantino e l'Essenza dell'Opera d'Arte

Mi ero già espresso sul tema, parlando della radio. Ieri sera è capitato lo stesso con la televisione.
La mia modesta esperienza nel comparto della genitorialità ha condotto alle seguente conclusione: con l'arrivo di un figlio, ha inizio un rapporto tutto nuovo, ed obbligato, con la pratica nevrotica dello zapping. Può sorprendere, ma il salto del canale, tanto criticato dagli integralisti della 'tivù' (gente che il sabato attende di veder comparire Baudo in prima serata), presenta dei vantaggi come: l'affinamento del senso estetico di base (e considerando che il campione medio della popolazione non ne possiede affatto. . .).
È successo con Django Unchained di Tarantino. Inizialmente l'ho alternato a Peppa Pig, per i motivi sopra esposti. Poi, con frequenza disumana, a Che Bella Giornata, Conan Il Barbaro, Sette Anime e Le Tre Rose Di Eva. Ti accorgi subito – mi si perdoni l'ovvietà – della differenza nella fattura delle immagini quando passi dai vari Cesaroni e Zaloni a produzioni di livello cinematografico elevato. La qualità è superiore. Comprendi – ma solo se lo vuoi – che il digitale terrestre, sostanzialmente, nel menù ha merda mezzogiorno e sera. Non è una questione di budget: è proprio il senso del bello che risulta accentuato (mi torna in mente El Mariachi, dell'amico e compagno di strada [di Tarantino, n.d.r.] Robert Rodriguez: la forma rende e sorregge la narrazione). Persino un figo pazzesco come Jamie Foxx – devo ricordarvelo in Collateral, forse? - risulta qui trasformato, nella bellezza delle immagini, da nero a negro, con primi piani vintage in stile blackspoitation. Certo: la fotografia lussureggiante di certi formati (70mm), con i nostri apparati se ne va in fumo, esattamente come avviene per certe futuristiche incisioni. In entrambe, però, l'aspetto formale ne esce esaltato, subendo una compensazione simile a quella sensoriale. In questo deprecabile contesto, però, è il frammento e non la totalità dell'opera a risultare stimolante, il raffronto anziché il messaggio, il climax deprivato del petting. Quindi mi sono ricordato che questa settimana esce nelle sale The Hateful Eight. E mi ci sono fermato. Ritiro spirituale.
Non pretendo di fare, qui, della critica cinematografica. Voglio ricordare alla nutrita schiera dei miei lettori – quattro: grazie, ragazzi! – che questo è uno spazio personale, ed in quanto tale deputato ad ospitare non verità evangeliche, bensì soggettive riflessioni. Quelle che state leggendo sono pertanto da intendersi come, né più né meno, le opinioni di un innamorato del cinema, una persona che il giro del mondo lo ha fatto – prima ancora dell'avvento delle student fares - iscrivendosi a due indimenticabili cineforum. E questo per diversi anni. La domanda che viene qui posta è, pertanto, non perché-il-cinema-di-tarantino-è-grande, ma perché-il-cinema-di-tarantino-mi-incolla-alla-sedia. Il tutto analizzato con i limiti – e la sofferenza cinefila - di chi, da qualche tempo, i film li vede filtrati dal doppiaggio in diretta fornito dalla prole (un po' come la musica ai tempi del muto).
Anni fa mi capitò di sentire Silvano Agosti dichiarare: “Tarantino è un delinquente”. Non ricordo l'argomentazione con la quale Agosti sostenne la tesi, ma proviamo a riflettervi sopra. Sul fatto che i film di Tarantino siano violenti, penso non vi sia nulla dire. Sul fatto che produrre film violenti – meglio, film con una spiccata componente di violenza – sia strettamente connesso alla propria violenta natura, e quindi riconducibile all'essere un delinquente, è come dire che se tu, maschietto, fai sogni bagnati sei uno stupratore. E qui mi fermo, in quanto do per scontato a) che qualcuno a questo mondo vi sia, in grado di trarre giuste conclusioni in maniera autonoma; b) che determinati concetti basic di diversi comparti dello scibile, nell'anno di Trump 2016, siano ormai parte del corredo di cultura generale dei più (a] e b] sono inoltre ottime argomentazioni per svicolare ed uscirne sempre splendidi). Personalmente, trovo l'apparato violence di Tarantino parecchio appagante, specie quando funzionale alla sete di vendetta. Frustrated of the world, unite and take over!
Resto fermamente convinto che Quentin Tarantino meriti un posto nella storia del cinema non tanto per i titoli sulla bocca di tutti – compresi coloro che li hanno fraintesi per benino -, ma per quello che ritengo sia il suo Promessi Sposi (paragone azzardato, me ne rendo conto): il progetto Grindhouse come da lui originariamente concepito, vera e propria sinfonia incompiuta sul mondo di chi il cinema lo ha fatto, e di chi dentro le sale cinematografiche ha vissuto (Tarantino). Un pezzo di storia moderna messo su celluloide.

Giusto oggi, Oliviero Toscani, personaggio burbero e piacevolmente diretto, spiegava ai microfoni di Radio Rai 1 – la generalissima – come, nella fotografia, il senso estetico fine a se stesso semplicemente privi l'arte di una sua componente essenziale: la provocazione. Componente che viene attivata quando – e solo quando – l'opera d'arte convogli in sé un messaggio politico – e quindi una sua rilevanza. Attenzione – sono sempre parole di Toscani -: i tramonti, le modelle insignificanti, gli scatti tutti concentrati sull'aspetto tecnico del gesto, non dicono niente, sono vuoti. Per tornare a noi: si può dire forse che l'arte di Tarantino manchi di un messaggio politico? I criminali che abitano i suoi suoi film, non rappresentano una società dove la legalità non è più percepita? La scaltrezza vertiginosa delle menti criminali non denuncia forse uno slittamento pericoloso dell'intelligenza? Le uccisioni di bianchi per mano di neri, non si inseriscono politicamente nelle tante, tristi questioni 'nere' che da Katrina a Ferguson hanno caratterizzato il dibattito statunitense nell'ultimo decennio (sugli ebrei che sterminano i nazisti, rifiuto di pronunciarmi: non ho titolo per operare come insegnante di supporto)? La vendetta al femminile, il metacinema, sono temi a forte caratterizzazione politica, rendono i film di Tarantino opere d'arte a tutti gli effetti, e un piacere per gli occhi.