lunedì 5 dicembre 2016

Un Amore Al Rallentatore

Konrad Lorenz sosteneva che, qualità distintiva dell'essere umano, è la riflessione.
A questo ho pensato, sere fa, rincoglionito da uno zapping di fine-giornata, bello spaparanzato sul divano di casa. Mi becco questa pubblicità interna all'emittente su non so quale nuova proposta serale. Arriva diretta come lo Shinkansen Tokyo-Osaka, montata visivamente e testualmente ad una velocità strabiliante, roba al cui confronto David Fincher sembra Ingmar Bergman. Termina, ed io non ho minimamente afferrato il “consiglio per gli acquisti”, essendomi perso nello sforzo inatteso, dettato dal super editing. Beh, certo che qui, di spazio per riflettere, non ne hanno destinato molto. Errore o strategia? Eppure la generazione cui mi è toccato appartenere è quella di Blob – Di Tutto Di Più, la prima, dopo la grande rivoluzione televisiva degli anni '50 e '60, ad avere spontaneamente appreso il linguaggio del 'montato', similmente a come oggi i giovani si appropriano in identica maniera dei linguaggi informatici e cibernetici, postumi alla ultra-veloce rivoluzione digitale. Vero anche che, per gli odierni criteri di valutazione, quelli come me son considerati 'matusa' da un po', e quindi deputati, per anagrafe, a non capire più un cazzo. Di inetti che non sanno quel che fanno, è pieno il mondo. Ma se così non fosse, e si trattasse, invece, di una scelta comunicativa? A quale specie – o subspecie – di persona è primariamente indirizzato un simile messaggio? La mia tesi, semplicistica, è che una massa non istruita a riflettere si assoggetta meglio al subliminale, stile videoclip.
Ma ecco le mie accucciate, fedeli sinapsi condurre, con altrettanta velocità, ad un'altra figura: P.T. Anderson. Mi viene facile, e spontaneo, parlare del cinema di Paul Thomas Anderson. È facile quando sei completamente all'asciutto da ogni bagno ideologico intellettual-sovrastrutturale (non ho mai studiato cinema). È facile se ti senti appassionato dalle sue realizzazioni per il grande – e piccolo - schermo. È facile quando, autodidatta, ti trovi a parlare di figure con identico tuo retroterra. Lungi da me il voler anche solo alludere a comunanze di qualsivoglia specie con il regista californiano. Al posto della scuola di cinema, il giovane Paul Thomas scelse di imbucarsi negli innumerevoli sets che, negli anni '80, impiegavano quasi ogni abitazione libera della nativa Studio City. Il vostro umile estensore fece lo stesso con la musica, imbucandosi similmente, e proprio negli stessi anni del suo paladino cinematografico, nelle sale-prova che sorgevano ovunque vi si trovasse un locale sfitto. È un po' come avere svolto insieme il servizio di leva. Questo, in parole povere, il comune retroterra.
Sono reduce dalla visione dei due ultimi videoclips che Anderson ha girato per la band Radiohead, Present Tense e The Numbers. Una visione minimale non solo per la formazione ridotta (si tratta di esecuzioni dal vivo per chitarre, voce e drum-machine con i soli Thom Yorke e Johnny Greenwood – quest'ultimo, autore, per il regista californiano, di due colonne sonore): minimale per concedere a queste intensissime esecuzioni il giusto spazio ed il giusto respiro. Tecnicamente si tratta di gesti cinematografici che tutti potremmo compiere, a patto di metterci dell'impegno. Ambientazione in esterna; piano-sequenza; qualche stretta in primo piano. Nulla di trascendentale. Non è Magnolia, okey? Perché, allora, cotanto regista minimalizza il proprio intervento fino al confine della sparizione (tra l'altro, tema, quest'ultimo, non indifferente agli artisti in questione)? Si dice spesso – la tesi è interessante – che i poeti, più di ogni altro, sono in grado di sentire, leggere la realtà, il 'presente'. Personalmente sono convinto che i grandi registi, tutti, muovano inconsapevolmente da questa qualità. Lettura ed intravisione. Che le loro opere, cioè, abbiano, fra i tanti aspetti, la capacità di fornire al fruitore un punto della situazione ove risulta possibile relazionarsi all'opera e al suo messaggio. Non mi sembra per nulla utile, a questo punto, tentare una risposta. Molto più interessante la domanda: il 'perché' un gigante del cinema come Anderson rinunci al virtuosismo, proprio nella forma che maggiormente lo induce – cioè il videoclip. L'opera intera di Paul Thomas Anderson, fino a The Master (Inherent Vice, Vizio di Forma, non fa testo, in quanto tipica commedia brillante e leggera che segue ad un capolavoro), presenta un graduale rallentamento del montaggio, funzionale ad una narrazione cinematografica più profonda e dettagliata. Morale? Il cerchio si è chiuso. In un mondo che ha fatto della velocità uno status symbol, se ci si vuole differenziare, e così preservare una propria dignità, è necessario adottare un parlato che esso stesso sia diverso (mai sentito Low e The XX?).

A chiudere, una scoreggia trattenuta per troppo tempo. La band perfetta per David Bowie – la band ideale – sono stati i Nine Inch Nails (vedi, Dissonance 1995/96).
Meditate, gente. Meditate.