venerdì 14 agosto 2020

THE IRON MAIDEN. L'arte incredibile di Charlotte De Witte.

Amo la buona musica. È una dichiarazione tanto generica ed ovvia da risultare disarmante: ne convengo. Un po'  come il 'comune senso del pudore' al tempo del fascismo. Bisognerebbe anzitutto accordarsi, e non poco, su cosa si intenda per 'buona musica' - impresa ciclicamente tentata in tempi moderni dagli sprovveduti di turno e filosoficamente destinata al più misero dei fallimenti. Ma è data per intendersi, appunto, con i diversi lettori di questo blog, il cui retroterra culturale, mi è stato dato di scoprire, è quanto di più variegato vi sia al di fuori del circuito delle gelaterie artigiane. Non sempre, detto retroterra, include la musica (peggio per voi: trista è la vita senza musica ed ironia). Da questa constatazione, il suo impiego in queste pagine. Limitatamente al mio punto di vista, quindi, la 'buona musica' è, né più né meno, l'insieme degli ascolti, fruiti tramite riproduzione o dal vivo, che hanno finito per assumere un'influenza ed un'importanza imprescindibili. Solo per fare un esempio: nulla è stato più come prima, per me, dopo che mio cugino Riccardo, nel 1983, mi regalò copia di October degli U2, ed ancora dopo avere sentito Brad Melhdau improvvisare, dal vivo, su un brano dei Massive Attack in un'estate di quasi 20'anni fa. Detto questo, nel corso della mia formazione musicale, ho fin da subito sviluppato un gusto che mi ha sempre tenuto lontano da tutto ciò che fosse elaborato elettronicamente. In parole povere, mi sono sempre tenuto lontano dalla musica elettronica, con anche una certa dose di disprezzo. Questo per quasi 30'anni. In particolar modo dal mondo dei DJs, che ho sempre reputato - non del tutto a torto - come un ammasso di ciarlatani. Poi un collega, ultrasnob ed appassionato proprio di musica elettronica, mi ha fatalmente introdotto al mondo del clubbing e, con esso, alla scena dell'ultima generazione di DJs che ne ha definito il suono. Da allora mi si è letteralmente aperto un mondo. Un universo parallelo che questi artisti dalla sensibilità cibernetica hanno creato proprio al fine di differenziarsi dalla massa cialtrona dei colleghi che, dagli anni '80 in poi, avevano fatto cassa sfruttandone ogni potenzialità commerciale. Così, ieri l'altro, dopo quasi una vita dedicata alla beatificazione della performance acustica, assuefatto dalle recenti modalità di ascolto post-lockdown, ho impattato violentemente - e piacevolmente - con il dj set di Charlotte De Witte.

Descrivere un dj set è quanto di più post-moderno e difficile vi sia per chiunque si cimenti nella scrittura con l'intento di rendersi almeno un minimo comprensibile. Aggirerò allora questa bestia partendo dal più semplice, ed accessibile, dato biografico. Charlotte De Witte è una giovane donna non ancora nei 30 orginaria delle Fiandre. Appena maggiorenne ha esordito nel mondo dell'elettronica, significativamente impiegando uno pseudonimo maschile che ha mantenuto fino a cinque anni fa, quando il suo stile, consolidato e molto femmineo, ha dato lei la sicurezza necessaria a presentarsi in piena coerenza con l'anagrafe, forte, inoltre, di un aspetto esteriore pregevole che la nostra da l'impressione di gestire in maniera schiva e parsimoniosa. Da allora la sua carriera, nel settore è svettata. Suona esclusivamente nei più importanti festivals e clubs del circuito. Ha pubblicato un numero abbastanza sorprendente di dischi e fondato una casa discografica dedicata al genere di appartenenza in piena controtendenza con i modelli attuali. L'emergenza pandemica ha naturalmente cancellato per intero la sua agenda di impegni fino a poche settimane fa, e, come molti altri artisti, anche lei ha contribuito a combattere la noia da reclusione attaverso la pubblicazione in rete di alcune sua performaces perticolarmente riuscite. Tra queste la partecipazione a Tomorrowland Winter 2019, l'esibizione che mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta e stimolato a scrivere questo post. Penso sia più utile, quindi, al fine di comprendere le ragioni di un entusiasmo che può sorprendere coloro che mi conoscono meglio, godersi il set per intero: coglierne i tratti minimali (consistenti nel dissezionare le tracce impigandone la sola ossatura); l'arte del saper togliere anziché sovrapporre parossisticamente; la creazione estemporanea di un flusso ossessivo e controllato; l'interpolazione di parlato e cantato; i vuoti improvvisi; il relativismo vertiginoso delle diverse combinazioni del missaggio e, non ultimo, il basso profilo mantenuto dall'artista belga nel corso di una serata da urlo - che noi maschietti avremmo certamente vissuto con ostentazione virile ed incontenibile egocentrismo (esattamente l'atteggiamento tenuto in apertura dal fottuto presentatore - mc, nel gergo del settore). 




La musica di Charlotte De Witte, a mio parere, è una delle colonne sonore più rappresentative di questi tempi dove prestazione ed informazione sembrano essersi fuse in un unicum distruttivo e a volte letale. Il suo dj set sembra inserirsi, anziché rifuggervi, nel flusso initerrotto di queste due entità astratte che, almeno fino alla recente pandemia, hanno scandito impietosamente il ritmo di tante, forse troppe, delle nostre giornate. Lo penetra e lo modella in una forma che, come insegna l'estetica, è l'essenza del bello. 

Mi piace pensare vi sia in circolazione un'artista come lei: donna, giovane, non volgare, di grande personalità e dotata di un'energia vitale che è sempre più rara da scorgere nel prossimo (segno, per me, di un processo di estinzione in corso ormai da tempo).

P.S. Qualche anno fa, all'apice del successo, Lady Gaga, in un'intervista condotta da Rolling Stone - che è come dire 'Matteo Renzi intervistato da Repubblica' -, ha avuto la faccia tosta di dichiarare che lei, no, non è, come sostenuto dall'intervistatore, la nuova Madonna, bensì la nuova Iron Maiden. Errore di sopravalutazione. La nuova Iron Maiden è Charlotte De Witte.

domenica 2 agosto 2020

IMMUNITÀ DI GREGGE. Le donne in difesa di Irene Pivetti.

Giorni fa, nel corso di una pausa dal lavoro, ho sparato a zero contro Irene Pivetti, indagata da ben tre procure e dalla Corte dei Conti per riciclaggio e frode. Normalmente ad un personaggio come il suo presto l'identica attenzione tributata al contatore del gas. Ma il fatto di averne sentito parlare da una collega ha fatto sì che la mia socialità, tarpata da mesi di lockdown, avesse la meglio sulla riservatezza, e così mi sono fatto avanti per dire la mia. In tempo zero, quello che consideravo un attacco del tutto giustificato nei confronti di una persona che spudoratamente compensa il proprio declino politico con intrallazzi di ogni sorta, mi si è ritorta contro con l'accusa di sessismo. Secondo la collega il mio livore non è dettato da una condivisibile indignazione civile per chiunque abusi della propria posizione di privilegio, bensì dal fastidio provocatomi nel vedere assurta agli onori della cronaca una donna con un curriculum che farebbe impallidire molti maschietti, me compreso. In più, ha aggiunto, Irene Pivetti è una donna che, lasciata la politica, non è rimasta sugli allori: ha saputo reinventarsi come giornalista, affrontando tutte le difficoltà che un simile cambio di ruolo comporta. Insomma: torna alla tua caverna, troglodita, e fatti rivedere quando ad un uomo verranno mosse identiche accuse.

Povero femminismo: oltre un secolo di lotte, e tutto ciò cui si è giunti è la consegna della causa nelle mani di persone convinte che la donna sia
sempre e comunque  vittima. D'altronde non ci si poteva aspettare altro da un movimento nato con esponenti del calibro di Emily Pankhurst e Margaret Sanger ed oggi rappresentato da Asia Argento e le donne di Me Too. Il declino era scritto nelle stelle: prima del cielo, ora del cinema. (Da appassionato della settima arte, poi, sono colpito dal silenzio con il quale i difensori dei diritti delle donne hanno accolto il fatto che il film più straordinariamente femminista mai realizzato sia stato scritto e diretto da un uomo. Sto parlando di Kill Bill di Quentin Tarantino).

Per tornare a noi. Ho voluto concedere alla collega il beneficio del dubbio (non sul mio sessismo: sul curriculum di Irene Pivetti). Ho pertanto svolto alcune modeste ricerche, scoprendo: a) che la nostra si è sempre guaradata bene dall'abbandonare la politica (si è candidata ancora lo scorso anno, ma ormai non la votano più neanche i parenti stretti, e difatti non è stata eletta); b) che la sua carriera giornalistica  ammonta ad occasionali collaborazioni a testate partitiche, tutte puntualmente finite in rovina, qualche rivista patinata e nulla più (ad oggi non risulta  nemmeno iscritta all'albo professionale). Quanto alle indagini in corso, anche volendo applicare ad Irene Pivetti lo stigma della persecuzione giudiziaria, c'è da chiedersi: cui prodest? Il peso politico della ex presidente della Camera è pari al mio, cioè nullo. Di conseguenza, se ricevo l'avviso di garanzia da tre procure e financo la Corte dei Conti, è davvero improbabile che l'opinione pubblica sia disponibile ad accettare la tesi della persecuzione (sebbene debba riconoscere che, nel nostro spaventoso paese, si possono contare un certo numero di casi illustri dove ciò è accaduto).

Detto questo, l'episodio tradisce, da parte di una schiera abbastanza nutrita di persone, una visione del giornalismo, del ruolo di questo, che ne spiega esaurientemente la crisi irreversibile. Molto generalizzando, il giornalismo moderno nasce come strumento di controllo del potere, la cui efficacia dipende essenzialmente dal suo grado di indipendenza. In parole povere, chi esercita il controllo non può essere, nel contempo, il controllato. Andrebbe quindi spiegato, quanto meno ai sessisti come me, quale tipo di contributo, Irene Pivetti, per oltre 20'anni giornalista e parlamentare, abbia dato alla stampa nostrana, quale miracolosa indipendenza essa sia riuscita a mettere in campo nei suoi articoli - al momento introvabili ovunque, compreso il suo sito web, "fuori servizio per manutenzione" (ma guarda il caso, a volte...). Non mi sembra sia necessaria una laurea per comprendere che, se fai affari con il governo e con la pubblica amministrazione (è il caso di Irene Pivetti e delle sue società controllate), è un po' difficile che tu, l'indomani, esca con un articolo a tuo nome dove avanzi critiche ed accuse all'uno e all'altra. Non scherziamo: questo fulgido esempio di femminismo rampante - perché questo è, agli occhi dei suoi fedeli, Irene Pivetti -, il tirocinio, lo ha svolto nella scuderia di Lele Mora, non nella redazione del New York Times, come invece sembra suggerire la narrazione dei suoi più accaniti difensori. Questo atteggiamento, inoltre, è inconsapevolmente irrispettoso del sacrificio di donne straordinarie quali furono Veronica Guerin ed Anna Politkovskaja, giornaliste che con il loro lavoro contribuirono fortemente alle tante verità che noi, oggi, possiamo sfoggiare senza rischio alcuno.

Chiudo. In una delle intercettazioni operate nel filone milanese delle indagini, Irene Pivetti è stata sentita descriversi a Lele Mora (suo maestro di giornalismo, immagino) come una dalla faccia come il didietro. A riprova, Maurizio Crozza la sta ridicolizzando da quasi due mesi senza che alcuna diffida sia giunta a porre fine ad uno stillicidio meritatissimo. Ecco: che per esprimere liberamente un giudizio su una simile donna, io ne debba prima ventilare uno identico su di un uomo, è un ricatto al quale non intendo sottostare.