domenica 1 ottobre 2017

LA VITA È CIÒ CHE NE FAI. Una vecchia 'hit' resuscitata dai Placebo.


Peccato che Brian Molko abbia ormai da tempo ceduto ad atteggiamenti da primadonna: egoici, presuntuosi, accentranti (forte, in questo, del fatto che la propria band, a 20'anni buoni dal debutto, sia ancora viva e vegeta).
Sarebbe bello parlare con lui, infatti, da persone normali, dei presupposti che lo hanno portato, insieme al suo gruppo, a realizzare una delle covers più belle, azzeccate e significative degli ultimi tempi.
Life's What You Make It, successo anni '80 degli ormai artisticamente defunti Talk Talk, è stata riproposta dai Placebo, nel giugno scorso, corredata da un video di notevole spessore autorale e politico, affidato dagli stessi a Sasha Rainbow, video artist già apprezzata per arditezze registiche in ambito musicale e pubblicitario (mi chiedo: Gabriele Muccino guarda mai i videoclips dei suoi colleghi prima di realizzare quelle cose terribili con Lorenzo Jovanotti?).
La coesione assolutamente perfetta creata da questa factory tutta britannica (arrendiamoci: quando si parla di rock il paese della Brexit è ancora il riferimento d'obbligo) è tale da costringere ad un'analisi congiunta del progetto – similmente, per citare un esempio, a quanto accadde quasi 40'anni fa con The Wall dei Pink Floyd, in seguito al film di Alan Parker.
Il set, in esterna, è ambientato ad Agbogbloshie, sobborgo di Accra, Ghana. Nella bellissima fotografia, e nel montaggio alla moviola, donne, uomini, ragazzini e bestiame sono ripresi nel corso di una surreale attività di differenziaggio in un'immensa discarica a cielo aperto. I titoli di coda spiegano che Agbogbloshie è stimata come la più grande discarica tecnologica del mondo. La devastazione ambientale, sociale ed urbana cui si assiste atterriti per i sei minuti scarsi del videoclip è l'indiretto risultato di ogni computer, televisore, cellulare, tablet, reader, cuffia, pad, auricolare, smartwatch e qualsivoglia gadget costantemente presente in tutti i negozi di tutte le nostre città, da noi rottamato a favore di un nuovo modello. A livello registico, escludendo l'iniziale zoom inverso di matrice kubrikiana (il Maestro è ormai una presenza inconscia in tutti coloro che siedono creativamente dietro una cinepresa), non assistiamo alle arditezze cui si è accennato in apertura (si veda, al proposito, l'ansiogeno video che Sasha Rainbow ha realizzato per il brano Electric Bones di Natalie Findlay). Va qui premiata l'intuizione di conferire alla cover una veste non iconografica (i membri della band non sono presenti nel filmato), bensì quella di una coraggiosa scelta politica e civile.
Fin qui, fattura delle immagini a parte, nulla che non sia già stato mostrato e denunciato dal più intransigente e militante giornalismo d'inchiesta.
Con questa versione di Life's What You Make It, però, il discorso prende una piega del tutto inaspettata.
A livello sonoro, rispetto all'originale, è assente ogni traccia di strumento acustico (il giro di pianoforte e la batteria). Armonicamente fedele alla versione dei suoi autori - con l'esclusione della voce, limpidissima - ogni strumento è proposto con una propria, sofisticata campionatura. Campionature – ed eccoci sul pezzo, come si suol dire – ottenute, magistralmente, proprio con quella componentistica che, nella ripresa aerea a chiusura del video, vediamo occupare una superficie nel mondo occidentale normalmente assegnata ad un centro urbano di media grandezza. La voce di Brian Molko (missata in maniera a dir poco magica), oltre a conferire un nuovo peso specifico al testo di Mark Hollis (visionario al tempo della stesura, distopico ad una lettura odierna), instilla un senso di pura bellezza su di un panorama umano apocalittico, con quel vocativo “Baby” alternativamente rivolto a noi ascoltatori – e fruitori di gadgets elettronici – e, per estensione, alle creature che popolano la discarica, in un inquietante affratellamento (avremmo potuto esserci noi tutti ad Agbogbloshie, in un altro corso storico). In altre parole, si è di fronte ad una estetizzazione, di notevole livello, del grottesco. Ciò che appaga il nostro ascolto è prodotto da quello stesso scarto che vediamo stazionare nel sobborgo ghanese. Ciò che può aiutarci a dare un senso al vivere è lo stesso oggetto che soffoca e toglie la vita. Anche qui va apprezzata l'intuizione del gruppo inglese: l'avere avvertito che ad una nuova veste sonora sarebbe corrisposto un nuovo, più attuale ed urgente messaggio.
La vita è ciò che ne fai. Life's What You Make It. Non è effettivamente così, ad ogni livello, in ogni ambito, per ogni singola esistenza? Pensiamoci. È un'asserzione le cui conseguenze, in determinati contesti, potrebbero rivelarsi devastanti. Ma tutti, con uno sforzo, possiamo verificarne l'attendibilità, almeno per ciò che riguarda le nostre singole esistenze.
In un'epoca di radicalizzazioni come la nostra è una riflessione che dovremmo compiere spesso.
E che sia una canzone a ricordarci questo, è solo il segno che l'arte è ancora viva.
Parla a noi.

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