lunedì 25 gennaio 2016

Blackstar

David Bowie era un esibizionista di ciò che egli creava.
Questi sono esibizionisti e basta.
Sono degli imitatori.
Non mi sono mai piaciuti gli imitatori.
(David Zard)
Intro
A volte il vino volge in aceto. Similmente la musica può volgere in tributo. Eccoli lì. Pittati, sfigati, infreddoliti, illetteratissimi, a rompere i coglioni alla piccola borghesia lavoratrice di Brixton con le loro chitarre scordate e le voci disperate. “Ziggy plays guitar. . . Planet earth is blue. . . Major Tom”. Quanto credete che dovremo aspettare per veder intasato ogni locale con Spiders From Mars David Bowie Tribute Band? Il tempo di imparare gli accordi. O nemmeno: 'il Liga' e 'il Blasco' continueranno ad avere i loro imbarazzanti imitatori. D'altronde David Bowie non è il primo artista a conquistare la vetta della classifica una volta defunto – no?
Part 1
Penso non potessi scegliere momento più inopportuno per scrivere di David Bowie. Ricorda l'erronea scelta di tempo della sua casa discografica, quando pubblicò il disco d'esordio nello stesso giorno di Sgt. Pepper's – con la scusante che, in era pre-internet, non doveva essere così facile essere aggiornati sulle mosse commerciali della concorrenza, tanto più con quella di una band che sempre più mirava alla rottura dei canoni di produzione, e che in risposta ad un successo incessantemente crescente di pubblico era determinata a mutare anche la fruizione della propria immagine.
Part 2
Ho ricevuto la notizia della scomparsa in diretta, ancora assonnato, in pigiama. Sono stato colto dalla commozione e da una immediata tristezza. Hai un bel dire, quando persone così non ci sono più, che basta seguire l'esempio, ora che tocca a noi andare al supermercato con il tascabile che spunta dalla tasca ed il fulmine pittato in volto.. Tutti a timbrare il cartellino - altroché. Più che duca bianco, colletto blu. Sono venuto al mondo, e David Bowie era già li. Ho tirato altri quarantacinque anni. Ancora li. Fino a ieri mattina. David Bowie is. David Bowie was.
Part 3
Mi sono rinchiuso in una stanza – segreta –, ed ho posto fine al chiacchiericcio post mortem ascoltandone l'ultimo disco, Blackstar, stella nera di oscuri presagi, e forse destinata a mutare in buco ancor più nero. Insegna il suo connazionale Stephen Hawking che il buco nero cessa di emettere luce, trattenendo però in sé tutta l'energia del collasso. Ed è così anche per la 'stella nera' di Bowie: densa di idee e spunti; piccola (40 min., la durata), ma dalla massa infinita. Blackstar è davvero un disco eccellente. È il prodotto di un fine artigiano (Tony Visconti) che di cesello va a realizzare l'idea proposta dal cliente (David Bowie), avvalendosi in questo dell'aiuto di maestranze esperte e qualificatissime (il quartetto jazz di Donnie McCaslin) – cui va il plauso per la strepitosa esecuzione in Sue (Or In A Season Of Crime). Lo ritengo un disco genuinamente fusion, con un tiro rock, e quella ambiguità armonica – serie d'accordi già sperimentate in passato e sostituzioni estreme - perfettamente calzante con un artista che da tempo era diventato un'icona di stile e sofisticatezza (fusione, quindi, in senso letterale, differente da quella proposta da un certo jazz bianco e stanco, che con il termine ha solo disposto di un alibi per elettrificare i discorsi musicali aperti - e sovente chiusi - dal blues e dal jazz di tradizione). Sfornare un disco così a sessantanove anni non è da tutti. In più, stando alle notizie ufficiali, un lavoro che Bowie ha realizzato in malattia (mi astengo, qui, dal dissertare sui benefici di una esistenza realmente creativa). Si pensi ad un gruppo come gli AC/DC, che, azzeccata la formula negli anni '70, continua a sfornare dischi dalle sonorità identiche, dove le uniche differenze, ad un orecchio vergine, sono rappresentate dalla trasparenza via via crescente nella qualità dell'incisione. O agli Stones, che – come dice l'amico Alessandro B. - “hanno smesso di fare musica vent'anni fa. O trenta”. Blackstar è pertanto un disco destinato a rimanere, come lo sono tutti quelli seguiti ad un decesso illustre (l'elenco è nutrito). Il canto del brutto anatroccolo dei Konrads divenuto bellissimo cigno.
Interlude
Quando la tua vita è tutt'uno con le tue creazioni, sei un artista. Quando sai suonare benissimo e fra una data e l'altra spaccare la legna, sei un musicista.
Part 4
Come tanti della sua generazione, anche David Bowie ha vissuto la squalifica, ottusamente giustificata dai cosiddetti fans, di gran parte della discografia seguita alla triologia di Berlino – similmente a quanto vissuto dai Floyd dopo Dark Side, agli U2 dopo Rattle 'n Hum, e ai Radiohead da Kid A in avanti. Cito a memoria. Mi sembra la prima di queste sia giunta in occasione del progetto Tin Machine (ho lasciato sul campo delle sinapsi, per quel gruppo), e proseguita con il concept Outside ed il successivo Earthlings. È difficile produrre musica. Difficilissimo produrne di bella, di soddisfacente per chi la fa, in primis. Certo: non sono stati anticipatori come le incisioni anni '70. Ma per sfornare tre dischi così – credetemi! - come nel Faust, si può davvero vendere l'anima al diavolo. È il massimalismo di un pubblico frustrato, quello che pretende gli artisti sempre all'avanguardia.
Reprise
Santo subito. È così che ormai reagiamo alla morte di chi ci viene consegnato dai media come un grande artista. Pier Paolo Pasolini diceva che la morte getta sempre una luce retroattiva sull'esistenza del caro estinto. Vero. Altra grande osservazione da parte dell'altrettanto grande Pier Paolo. Non dimentichiamolo: David Bowie era uno stronzo, esattamente come possiamo esserlo noi. Si guardi al proposito lo struggente documentario di George Hickenlooper, Mayor Of The Sunset Strip, dove è possibile vedere un Bowie, preoccupato dagli effetti del jet-lag, prestare scarsa attenzione al festeggiato Rodney Bingenheimer - il leggendario DJ losangelino che per primo passò le musiche di Bowie quando nessun altro sembrava riconoscerne la portata.
Finale

Ciò che di sicuro è destinato a rimanere, è l'esempio di come, nato David Robert Jones in un quartiere malfamato e periferico; in una città che solo pochi anni prima era sotto il bombardamento aereo di una paese nemico, un uomo comune, un absolute beginner, abbia reagito al tradimento di una condizione imposta (vedi alla voce: nascita) facendo appello alla propria creatività - e di conseguenza al proprio coraggio - al solo fine di diventare: sé stesso. E per questo accettando in sé tutte le contraddittorie trasformazioni che separano (forse, i famosi 'sei gradi') ogni essere umano da tale, legittima meta.

sabato 9 gennaio 2016

Bile

Quando ti cerco per le vie della città
A volte il cuore mi batte forte.
Se ti intravedo fra la gente
Vorrei dirti che sei
Almeno una piccola, forse una grande,
Parte di me.
(Il Teatro Degli Orrori, Mai Dire Mai)



Il Teatro Degli Orrori, nel panorama italiano, è tra i gruppi indie più interessanti e stimolanti. Riflettiamo. Cosa si vuole da un gruppo rock indipendente? Iperstimolazione sonora e presa di posizione politica – che è esattamente quanto il prodotto Teatro Degli Orrori fornisce all'acquirente, garanzia inclusa (molte dei loro brani sono di quelli che rimangono, credetemi). Mai Dire Mai viene dal loro secondo disco, un'incisione dalle sonorità lucidissime, artigianalmente prodotte nei laboratori milanesi del suono di Mauro Pagani, ed in netto contrasto con le sonorità volutamente grezze e cupe del disco d'esordio (capolavoro). Mi è sempre sembrata una salubre canzone noise dal piglio brutale, dove il parlato di Pierpaolo Capovilla trascina lo sprovveduto ascoltatore per il bavero, nel mentre gli viene somministrata una bella lezione di vita. Intro, strofa, strofa, ritornello, strofa, ritornello, chiusa. Ed è in quest'ultima che la canzone si trasforma in ballata, con il testo che vira dalla prepotenza del parlato al cantato dei versi citati in apertura. Dove capiamo che l'aggressività del protagonista è solo il paravento di una ricerca ossessiva della persona amata - prova di come noi si cerchi, ami, apprezzi e comprenda solo ciò che già conosciamo.
Passeggiavo “per le vie della città”, quindi, con mia figlia (tre anni e mezzo), in bicicletta, quando ho incrociato dei parenti (tre, in due differenti locations) i quali, non riconoscendoci (!), hanno tirato dritto. Ho realizzato, allora, quanto veritiere siano certe canzoni che da sempre mi ronzano nella testa. E quanto psicologicamente sia illuminante che proprio quelle – e non altre – abbiano scelto di abitare in me.
Cerchiamo chi già vive dentro di noi.
Riconosciamo solo chi già sentiamo di conoscere.
Ricordate Ask, degli Smiths? Meglio. Ricordate gli immensi Smiths di Morrisey e Johnny Marr? Ask fu, nel lontano '85 e quanto meno in Italia, il loro maggior successo commerciale. La rabbia fa sragionare. Ed è facile in simili momenti strumentalizzare delle parole, specie se profonde – come spesso sono quelle del Moz. “Se non è l'amore, allora sarà la bomba a metterci insieme” (If it's not love, then it's the bomb that will bring us together). Suona minaccioso, ma non lo è. Non ho intenzione di muovere un solo dito per riavvicinare persone di questa taglia, tantomeno di fare del male a chicchessia. Le parole di Morrisey servono solo a ricordare noi quanto sia estrema, a volte, la realizzazione di un'unione. Cazzi vostri.
Ciò che maggiormente mi disgusta della 'cultura' social dei giovani è la quasi assoluta inconsapevolezza delle conseguenze social – appunto - di tutto quanto viene, 'postato', 'tweettato', pubblicato, condiviso, 'taggato' e commentato (se mi state dando del vecchio che se la prende con i giovani, siete avvisati: è proprio così). Di queste merdine non so che farmene. Non accetto lezioni da gente così. Accetto di essere giudicato solo dai miei pari. Ed ecco allora, a riparazione dei danni di guerra, la definizione di cuginanza direttamente dal Sabatini-Colletti: vincolo di parentela esistente fra cugini. Ed ora la chiosa dal Parenzan-Camisa: è estendibile alle cugine di tre anni.
John Lennon, il grande, che aveva nei Beatles la sua famiglia, palesò ripetutamente come la gelosia e l'invidia di Harrison e McCartney – Ringo Starr fu l'unico a non mostrare ostilità – furono per lui e Yoko Ono fonte di imperdonabile dolore. Ma anche che tutto ciò non gli impediva di volergli bene – con grande coerenza per chi,a quel tempo, ci ricordava che “l'amore è la risposta”.

Non pretendo di scrivere, in futuro, canzoni del livello del grande John.
Spero solo di avere – qui sì come lui – la capacità di continuare a voler bene a quei tre bastardi che, con il loro atteggiamento, mi hanno fatto davvero male.