sabato 23 dicembre 2017

MANHUNT. La serie Netlix su Unabomber.


Dopo avere spalato merda per anni addosso a coloro che si imbevono ottusamente di serie televisive originali, ieri l'altro ho peccato di incoerenza portando a termine la mia prima visione da ossessivo: Manhunt: Unabomber. Otto puntate in quattro giorni.
Prodotto originale Netflix, è la storia di come i federali americani giunsero alla cattura e alla condanna di Ted Kaczynski, il famigerato Unabomber, killer responsabile di una lunga serie di pacchi-bomba che seminarono il terrore negli Stati Uniti tra il 1978 ed il 1995.
Conoscere i fatti narrati certo aiuta (si tratta di una storia vera), ma non è requisito indispensabile alla comprensione e al godimento della serie: l'apparato cronologico è chiaro, il ritmo costante.
Sebbene vanti una star del cinema del calibro di Paul Bettany nel ruolo dell'attentatore, e Chris 'Big' Noth nei panni del capo dell'unità speciale, protagonista della serie è Sam Worthington, ovvero 'Fitz', sottovalutato profiler federale il cui talento porterà alla cattura di colui che al tempo era il ricercato numero uno.
La vicenda è rivissuta attraverso i suoi occhi. 'Fitz' trasforma l'iniziale fascinazione per un caso che sente come proprio in una vera e propria ossessione. Un'ossessione che mette a repentaglio la sua vita professionale (vuole catturare Unabomber ad ogni costo) e familiare (sovrappensiero dimentica i figli in una sala cinematografica).
La serie ha inizio con Unabomber già assicurato alle patrie galere e 'Fitz' incaricato di provarne giuridicamente la colpevolezza per mezzo di interrogatorio. Da lì gli episodi si snodano tra regolari e didascalici flasbacks: La sequenza degli attentati, le reazioni delle autorità federali, la personalità dell'attentatore e quella di colui che maggiormente ne ha colto il fascino, l'idealismo, la logica ferrea, la precisione, la coerenza filosofica ed una quasi inconfessabile assenza di follia. Cioè 'Fitz' stesso.
Personalmente , ho trovato la visione di Manhunt: Unabomber avvincente, ardita, politicamente visionaria. La regia (affidata a Greg Yaitanes, già apprezzato per molti degli episodi più riusciti di House M.D.) è precisa, senza divagazioni o tentennamenti stucchevoli. Le concessioni allo splatter sono serie, misurate, mai gratuite. Per il resto è un trionfo di recitazione, di scrittura asciutta e deputata all'azione, di attori tutti sul pezzo, in particolar modo Paul Bettany - che da, in questa produzione, una prova di altissimo livello, specie sotto l'aspetto della caratterizzazione umana.
Ma l'episodio più bello e significativo è senza ombra di dubbio il n°6, integralmente occupato da un flashback sulla vita di Unabomber, dagli esordi scolastici all'esilio nei boschi del Montana. È la chiave di lettura con la quale gli autori sembrano fornire la loro visione di questa pagina di storia americana contemporanea. Le sofferenze dovute alla precocità di apprendimento; le prime delusioni relazionali; l'inconciliabilità tra crescita e superdotazione intellettuale; l'incontro epocale con Henry Murray; un'esistenza che sempre più va configurandosi come serie di tradimenti subiti o presunti, fino alla consegna di sé alle cure di madre natura, unica entità percepita come giusta in un mondo di cinici manipolatori. Il tutto in forma di lettera al fratello. Nel ricostruire questi ricordi, Unabomber, che nella piccola comunità di Lincoln è frequentatore discreto e conosciuto della locale biblioteca e mentore del figlio della curatrice, riflette su come avrebbe potuto essere la sua vita qualora avesse reagito diversamente alle tante difficoltà incontrate. E allora eccolo fantasticare una famiglia, un'esistenza ecologicamente rispettosa, un lascito etico e comportamentale, un ruolo da grande educatore – quale sarebbe sicuramente stato -, una sposa ideologicamente complice ed un figlio cui trasmettere il proprio patrimonio di conoscenza.
È un momento commovente, scritto benissimo, interpretato da Paul Bettany in maniera magistrale.

Sappiamo tutti – in particolar modo noi genitori – quanto del nostro personale, particolare sapere venga sperperato quotidianamente nell'affanno della vita urbanizzata, quella stessa che andiamo definendo civile senza più riflettere su quanto diciamo. A Ted Kaczynski mancò, probabilmente, la dedizione necessaria alla creazione di una vera famiglia. Ma a noi tutti manca da troppo tempo il coraggio di scelte radicali e di un impegno coerente con le nostre tante parole.
Quanto alle bombe...
Chi di noi sarebbe capace di nutrire ancora fede nel sistema dopo un trattamento come quello che l'ignobile professor Murray condusse su di un adolescente Ted Kaczynski ed altri 21 sventurati?
È notevole che sia una serie televisiva a stimolare questo tipo di riflessioni. Al termine della visione, ho spasmodicamente ricercato e letto La Società Industriale E Il Suo Futuro (Industrial Society And Its Future), il manifesto di Unabomber. Fino ad allora, devo ammetterlo, ne ignoravo persino l'esistenza. Mi limito a dire che vale sicuramente una lettura attenta: è di certo migliore di molti libroidi attualmente circolanti, così come di altrettanti best-sellers di vario genere.
Si potrebbe azzardare che vale per Ted Kaczynski quanto sostenuto per Charles Manson nei giorni seguiti alla scomparsa di quest'ultimo, quando una serie di improbabili personalità esaltarono il suo pensiero, ritenendolo slegato dalla sua condotta criminale. Dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano. Manson era un manipolatore semianalfabeta posseduto da visioni: Kaczynski un individuo intellettualmente superdotato che a 25 anni (!!) occupava la cattedra di matematica a Berkley.
L'intelligenza non è autosufficiente: va coltivata e indirizzata.
Può essere letale tanto quanto l'ignoranza.

sabato 9 dicembre 2017

TRATTORIA BONOLIS. Ovvero: quando il Paolo nazionale si convinse di essere Letterman.


Quel che mi chiedo è: come può, un personaggio della televisione celebre e apprezzato come Paolo Bonolis, venire abbandonato dai propri autori al punto da scivolare sulla buccia di banana presa con l'intervista a Marylin Manson?
C'è da credere vi sia dell'astio tra le parti, del non-detto, vecchi rancori... . Non si capisce come, altrimenti, si possa assistere ad un simile sfacelo senza sentirsi minimamente responsabili.
Per capirci: Quincy Jones non avrebbe mai permesso a Micheal Jackson di pubblicare un disco dimmerda.
Sorte – quella della discesa nella bassa qualità - toccata, invece, al Paolo nazionale.
Bonolis che fa una figura meschina a Canale 5 come quella dell'altra sera – perché di questo si è trattato -, è il Brasile che, in casa, prende sette pappine dalla Germania in mondovisione. Stessa cosa.
Tanto per cominciare, vorrei chiedere – rivolto agli autori – chi, nel bacino di pubblico di Bonolis, sia a conoscenza dell'opera di Terry Pratchett, citato testualmente in apertura. Quanti, tra gli stessi, siano in grado di trascriverne il nome. Ma soprattutto: CHI CAZZO È, Terry Pratchett?
(Primo errore.)
Gesticola, mima, produce onomatopee, Bonolis. Sembra tornato quello degli esordi a Bim Bum Bam, quando intratteneva i bambini.
Manson è già accomodato nello studio. Ha il piede immobilizzato in un tutore. Visibilmente ingrassato, è vestito, acconciato ed agghindato in maniera improbabile - per non dire ridicola - per un ultracinquantenne.
Bonolis lo presenta ad un gruppo di fans debitamente selezionato all'ingresso. Manson li definisce “the beautiful people”. È una battuta che tradisce come egli stesso stia intrappolato nel personaggio – riuscitissimo ed artisticamente rilevante - incarnato più di 20'anni fa, oltre che in una parte di repertorio altrettanto vetusta.
Supportato dall'interprete Mediaset, il conduttore cita – debitamente cassato - il servizio di Rolling Stone Italia curato da Liliana Colasanti.
(Secondo errore: l'intervista della collega è superiore a quella che egli sta conducendo in evidente affanno.)
“L'Italia è un paese di santi”, sentenzia Bonolis. Risposta di Manson: “È anche il paese di Fellini”.
(Terzo errore: l'intervista, chiaramente non concordata, sta sfuggendo di mano.)
Non conscio dell'inarrestabile discesa, Bonolis sconfina in terre a lui sconosciute, e trasforma il titolo del disco di Manson da Heaven Upside Down a Even Upside Down - errore di pronuncia da licenza media.
Ride, Bonolis. Le domande sono di così basso tenore che persino il suo inconscio se ne libera.
Gli da del subumano chiedendogli se “è vero” il suo apprezzamento per The Young Pope di Sorrentino.
(Quarto errore: sta ricalcando fedelmente l'intervista di Rolling Stone Italia.)
Ma intorno la metà, l'evidenza prende il sopravvento. Marylin Manson non è ospite di Bonolis: è Bonolis ad essere ospite di Manson – e con il buffetto sulla mano, l'intervista muove come per magia a Monte Mario, alla trattoria Bonolis.
Il quarto d'ora di passione ha quindi termine con l'esecuzione, dal vivo, di Sweet Dreams - pietosa – ed un imbarazzante selfie con Gianni Morandi.
Marylin Manson è un artista che, da tempo, ha perso la propria rilevanza – risalente agli esordi e protrattasi per circa un decennio. Era a quel tempo – al tempo di Portrait Of An American Family – che avrebbe dovuto ricevere questo invito e sentirsi porre – più o meno – queste domande. Ma a quel tempo i canali Mediaset erano tutti impiegati nella promozione di un'altra family: quella del padrone. Più comodo ospitarlo oggi: meno compromettente, più corretto, intruppato, milionario e contribuente esemplare. Occasione persa. Peccato.
Quanto a Bonolis... beh, sembra, semplicemente, che, da una parte, si sopravvaluti un poco (è convinto di essere all'altezza di intervistare un po' tutti); dall'altra, che non sappia rinunciare nemmeno per un quarto d'ora al ruolo di protagonista e mattatore incontrastato.
Bonolis è l'ospite che non se ne vuole andare.
Ricorda una persona che ricevette in mano le sorti del paese esattamente nell'anno in cui Marylin Manson pubblicava il suo disco più bello ed importante, Antichrist Superstar, splendida registrazione per resa sonora, produzione e testi contenuti.
Una persona che ha in comune con Manson l'incapacità di comprendere che il proprio tempo è passato. Che quanto va dicendo rientra nel già-sentito, in una formulazione svuotata di credibilità proprio dal suo abuso.
Indovinate chi è?!

giovedì 7 dicembre 2017

STAND BY ME. Perdere un amico.


Oggi ho perso un amico, coetaneo. Un amico di gioventù, di quelli che abitano silenziosamente i tuoi ricordi.
Ci sono figure che aiutano ad andare avanti nel duro percorso della vita impedendoti di cedere allo sconforto. Ti hanno voluto bene quando ancora eri tutto inadeguatezze ed imbarazzo. Vedevano di te la parte migliore, già allora. Rappresentano una certezza. Molte insicurezze che sorgono all'improvviso, nel quotidiano, vengono disattivate proprio da queste presenze interiori.
Fino a quando, un giorno, vengono a mancare.
Letteralmente.
Queste ore assomigliano molto, per me, a quelle di Ricordo Di Un'Estate, di Stephen King: Gordie, il sopravvissuto, e Chris, l'amico buono e promettente cui la vita riserva una morte tragica e prematura.
Il Buon Ghizza (questo il suo soprannome) è stato il compagno dell'adolescenza e del suo sfociare nell'età adulta. Degli anni più belli: dell'incanto e del tempo sterminato.
Anni di risate, di gesti goffi vissuti con ironia; di serate al cinema; di passeggiate, gite e colonie estive; di chitarre strimpellate a notte fonda e di sbronze simulate dopo mezzo dito di grappa. I primi seri discorsi sulla fede, sulla religione, sul da-farsi quando quegli anni – indimenticabili – sarebbero giunti al termine. Primi e secondi amori, solitudini indesiderate, ghiaccioli da 200 lire (!) e tanta, tanta felicità.
È stato questo per me, Roberto.
Se ne è andato seguendo, suo malgrado, un percorso di malattia comune a tante persone giovani: rapido e letale.
Siamo riusciti ad incontrarci, qualche volta, in compagnia della rispettiva prole. Occasionalmente. Ed anche in quei frangenti non ha mancato di rivolgere il suo sorriso aperto e pulito a tutti noi.
Vorrei davvero porgli – a lui che era uomo di grande fede cristiana – una domanda sul senso di tutto ciò. Sul fatto, cioè, che questa mattina mi sia toccato assistere alla chiusura di una bara dove lui - e non altri – vi stava contenuto. Perché?
Sosterrei con insistenza le mie ragioni di persona senza più fede, provando a spiegargli che sono proprio gli eventi come questi a dare ragione al mio abbandono, allo sconforto esistenziale.
Sono certo che mi ascolterebbe a lungo – come spesso ha fatto in gioventù, quando lo investivo con tematiche molto meno ultime -, serio e attento, per poi darmi una risposta pacata e sorprendentemente persuasiva.
Perché era così: con un cuore grande, e dotato di un'altrettanto grande tolleranza.
Ma è troppo tardi anche per questo.