sabato 9 ottobre 2021

LE IDIOZIE DELLA PICCOLA AMBRA MARIE. La generazione dei senza-vergogna.

Sono passati 30'anni dalla pubblicazione di Nevermind, il disco che fece dei Nirvana un fenomeno planetario, così sottraendoli, loro malgrado, alla scena grunge dell'area di Seattle.

Eppure, per molti conduttori delle nostre miserrime emittenti-radio commerciali, sembra proprio che tre decenni non siano un tempo sufficiente per produrre, al riguardo, una riflessione, almeno per una volta, seria, profonda, in grado di restituire agli ascoltatori quello che fu il clima nel quale canzoni come Smells like Teen Spirit, In Bloom, Come as You are, Lithium, letteralmente esplosero in faccia agli ascoltatori, musicalmente imberbi quando non del tutto analfabeti.

La conseguenza principale di tale inettitudine riflessiva mi sembra oggigiorno ben rappresentata dall'anacronismo del fenomeno Måneskin, in Italia, e – giusto per pareggiare i conti e sentirci un po' meno soli nella miseria - da quello ancor più triste degli statunitensi Greta Van Fleet, altrove.

In uno spettacolo di qualche anno fa, lo stand-up comedian Jimmy Carr, colpito dall'espressione basita di uno degli spettatori delle prime file, chiosò sarcasticamente che esiste un livello di comprensione sotto il quale non è consentito assistere ad una serata di stand-up comedy, pena l'estromissione dalla sede dell'evento (“There's a level of minimum understanding, here. You know what I mean?”).

Contorto quanto volete, ma è a questo che ho pensato, giorni addietro, quando ho sentito tale Ambramarie, una delle conduttrici di Radio Freccia – l'emittente radiofonica con il più alto tasso di crescita negli ascolti del paese –, inanellare una serie di castronerie da stazione-radio locale.

Portata ad una strana forma di eccitazione sconosciuta ai più dall'ascolto di Ohio, di Crosby, Still, Nash & Young, la nostra ha prima affermato di sognare una vita negli anni '60 o '70, evidentemente ritenuti similari; o, in alternativa, nel 1991, anno nel quale, per l'appunto, i Nirvana pubblicavano Nevermind - periodo tra i più difformi, per quanto possibile, dai conflittuali, travagliati due decenni appena citati.

Il tempo di mandare in onda il brano e la nostra è già sulla difensiva.
- Non vorrei aver dato l'idea di una che vuole essere una 'hippy' o un figlio dei fiori, o roba così -, dice. - Io non so neanche cosa sono, gli 'hippy'. Sono degli stivali, forse? -.
A parte il mancato uso del congiuntivo e la finta modestia, sui quali si potrebbe aprire un post a sé stante, per tornare alla frecciata di Carr, c'è davvero un limite inferiore a ciò che ci si può permettere di non comprendere, pena l'inclusione nella sempre più affollata categoria dei subnormali.

Lungi da me il voler assumere qui o altrove la difesa di una categoria – quella degli hippy - sostanzialmente estinta, fatta eccezione per l'assurdo stoicismo di alcune sacche di disadattati ancora presenti sul territorio nazionale. È certa di essere estremamente simpatica, Ambramarie, o quantomeno di risultare tale all'attenzione del suo seguito.

Cito integralmente dal suo profilo, così come pubblicato sul sito di Radio Freccia (ortografia, lessico e tipografia a cura dell'autrice):

Ambramarie, classe 1987, inquieta e curiosa per indole (miei coglioni!, n.d.r.), si avvicina al rock dall’infanzia, quando tra le mani e le orecchie le capita il greatest hits 'Cross Road' di Bon Jovi (caspita, davvero un disco seminale, n.d.r.). Più avanti, nell’adolescenza, con 'Post Orgasmic Chill' degli Skunk Anansie (mai senza, n.d.r.) si rende conto che è proprio quello che vuole fare nella vita: la cantante ruuuuoookkk (Wow!, n.d.r.). Forma la sua prima e attuale band a 17 anni, vivendo tra un furgone sgangherato e la sua amata mansarda, dove si rinchiude a macinare dischi e film, sdraiata con la pizza sul letto (e questa è la stessa che non vuole essere scambiata per una hippy, n.d.r.). Si appassiona follemente al mondo della radio dopo aver visto il film I love Radio Rock (parallelo tra la radio pirata del film e Radio Freccia, davvero senza vergogna, n.d.r.), perché libertà e ribellione sono l’unica via per essere felici e cambiare veramente Qualcosa (scritto con la maiuscola, ma se ne ignora il perché, n.d.r.).”

Curioso ed illuminante che la nostra ometta elegantemente la partecipazione ad X Factor come il suo essere stata tra le prime 'grandi promesse' del programma.

All'uscita di Nevermind avevo 21'anni, e la sua forza d'urto mi colpì come una vergine al primo rapporto. Impiegai del tempo a realizzare che questo disco per me straordinario era invece considerato da Kurt Cobain una sorta di sottoprodotto, un disco estremamente commerciale il cui fine era compiacere quella gioventù – il 'teen spirit' - già allora senza arte né parte della quale io pure ero parte integrante ed attiva; una registrazione dal cui suono Cobain diceva di non sentirsi rappresentato.

Oggi davvero si può dire tutto e, minuti dopo, il contrario di tutto, senza nemmeno l'ansia derivante dalla possibilità, divenuta assai remota, di venire scoperti. I personaggi a la Ambramarie sono ormai la normalità, e non c'è morale o cultura - checché ne dicano gli intellettualoni del paese - che possa arginarne la deriva. Indignarsi, come io faccio spesso, serve a poco o a niente. Questi fenomeni vanno affrontati e sconfitti sul loro terreno di gioco, lì dove si sentono maggiormente protetti, al sicuro – un po' come quando si riesce nell'impresa di umiliare la squadra più forte del torneo nella partita che questa gioca in casa. Scendere in campo, sporcarsi le mani, accettare la sfida secondo regole altrui, ironizzare senza pietà e in maniera pungente, senza rimorso, contro questa generazione di senza-scrupoli, di senza-vergogna. Con il fare messo in campo sistematicamente nel corso dello spazio tributatole settimanalmente da Radio Freccia, Ambramarie sarebbe stata schifata dai suoi tanto decantati idoli pop sia come hippy che come nativa di Olympia WA. George Harrison, che visse con il massimo candore possibile la grande illusione dell''estate dell'amore' 1968, scappò letteralmente a gambe levate quando, in visita al quartiere di Haight-Ashbury, in quel di San Francisco, vide con i propri occhi in cosa realmente consisteva la cosiddetta cultura hippy. Quanto a Cobain - che la nostra vorrebbe vicino a sé per mezzo di reincarnazione nell'anno 1991 - che dire? Forse che anche per fuggire dalla stupidità e dall'ipocrisia di persone come lei Cobain si tolse la vita. È sufficiente leggere con calma i suoi diari, per capirlo.

Ma per sentire, al riguardo, cazzate firmate Ambramarie, abbiamo tempo fino all'aprile 2024.

lunedì 4 ottobre 2021

LA PROFEZIA DI 'AMERICAN BEAUTY'. Il fenomeno delle dimissioni volontarie.

Sono certo che molti ricorderanno la sequenza spassosissima di American Beauty – una delle tante inserite nella pellicola – dove Kevin Spacey, astutamente ed in maniera del tutto spregiudicata, estorce 60.000 dollari di liquidazione al proprio capufficio, con la minaccia di rendere note alcune molestie sessuali del tutto fasulle nei suoi confronti (“Puoi provare che non ti sei offerto di salvarmi il posto se io ti lasciavo spompinarmi?”).

Ebbene, a più di 20'anni di distanza da quel film, davvero strepitoso sotto ogni punto di vista, il tema della qualità del lavoro torna oggi prepotentemente alla ribalta.

Nel paese si registra un fenomeno mai conosciuto prima - se non, appunto, attraverso il cinema -, del quale, tanto per cambiare, non si parla, essendo il dibattito risaputamente monopolizzato dalle crisi di mezza età piccole e grandi dei partiti politici: le dimissioni volontarie – scelta, quest'ultima, imputabile con quasi assoluta certezza al periodo di lockdown recentemente vissuto, dove molti, pur nella difficoltà a volte estrema, hanno chi scoperto chi riscoperto una vita non più fatta di ritmi disumani, di competizione, di assenza di limiti, bensì di affettività, di cose semplici come poterebbe essere il preparare un pasto, leggere un libro in tranquillità o riposare il necessario. Ma, soprattutto, una vita dove è possibile ritrovare l'ascolto del proprio sentire interiore, profondo, l'aspetto che maggiormente ci caratterizza in quanto persone.

Gli aziendalisti sono coloro che meglio di altri hanno vissuto – ed in alcune sacche ancora vivono – la grande illusione del lavoro come soluzione al male di vivere (quasi sempre, il proprio).
Alla pari di certi partner gelosi, per i quali l'amore è vissuto come un sentimento esclusivo, l'aziendalista tende a vedere il proprio rapporto con il datore di lavoro in identica maniera, escludendo, in un misto di gelosia e competizione, tutti coloro - eccellenze incluse - che, praticando un diverso atteggiamento, li mettono indirettamente in discussione.
Va da sé, però, che, da parte di molte realtà lavorative, l'aziendalismo è tacitamente incentivato, con le conseguenze che è possibile leggere nell'articolo di Francesca Coin 'La nuova Economia delle Dimissioni', apparso stamane su Il Fatto Quotidiano.

Provate a chiedere ad amici e conoscenti, possibilmente attivando il vostro personale rilevatore di sincerità, quanti di loro si sentono veramente gratificati dall'attività lavorativa svolta, quanti, cioè, trovano nel lavoro quell'ambiente professionale ed umano definito da Primo Levi – che sul tema del 'lavoro inutile' ha scritto pagine destinate a restare nei secoli – come “la più grande approssimazione alla felicità sulla terra”.

Io, l'ho fatto. E vi posso assicurare che quel che riceverete in risposta, nella stragrande maggioranza dei casi, sarà la denuncia, da appartenenti alle più disparate e – a volte – insospettabili categorie, di una condizione mista di frustrazione e disincanto. Nessuno più, per tornare al film di Sam Mendes, è disposto a tollerare un mondo del lavoro dove la principale attività, troppo spesso, dice il protagonista, Lester, “... consiste fondamentalmente nel mascherare il mio disprezzo per quegli stronzi dei miei capi e, almeno una volta al giorno, nel ritirarmi nel bagno degli uomini per farmi una sega, mentre fantastico su una vita che non somigli per filo e per segno all'inferno”.

Non mi permetterò, qui, di affermare che il lavoro da casa (il fottuto smart working) è identico in tutto a e per tutto a quello d'ufficio. Ma è chiaro che l'inaspettato successo di questa modalità denuncia, essenzialmente, il disagio grande di molti lavoratori sia per la logistica dei trasferimenti, mai realmente implementati, sia per il rapporto umano devastante - disruptive, direbbe uno psicologo - con i colleghi della specie aziendalista – artefice, in passato, grazie alla fede cieca che la caratterizza, dello sviluppo industriale del paese, ed oggi, nel globalizzato mondo dell'anno 2021, vero e proprio cancro sociale.

Se in 30'anni siamo passati della ricerca del lavoro alla dimissione volontaria, ciò sta a significare che negli ultimi 20 la profezia di American Beauty è divenuta realtà.