domenica 27 agosto 2017

HAPPY. La Ricerca Della Felicità rivisto a distanza di un decennio.


A distanza di oltre dieci anni, ho rivisto La Ricerca Della Felicità, il film che sancì l'ingresso di Gabriele Muccino nel circuito delle mega-produzioni statunitensi.
Molto acqua è passata sotto i ponti, da allora. Per il mondo (il film, che narra della risalita dalla rovina finanziaria, venne girato due anni prima del fallimento di Lehman Bros.). Per Muccino (il Gabriele nazionale è, in quel di Hollywood, un resident director apprezzato e premiato). Per chi scrive (sono padre di una bambina che ha, oggi, la stessa età del piccolo co-protagonista).
TRAMA
San Francisco, 1981. Chris Gardner è un uomo di colore, impiegato nel settore delle vendite. Gli affari non vanno bene, peggiorano a vista d'occhio. La sua precaria situazione sentimentale collassa, e ai problemi occupazionali si aggiunge la custodia del figlio. Per i due ha inizio un'inesorabile discesa verso l'indigenza, con tanto di sfratto, notti all'addiaccio, mense e dormitori pubblici. Chris non si arrende, però: oltre a chiudere con le pregresse situazioni debitorie, conquista a fatica (deve affrontare un lungo stage non retribuito) un impiego dignitoso dal quale ha inizio la personale riscossa. I titoli di coda raccontano allo spettatore che, nel 2006, il protagonista ha realizzato una fortuna milionaria vendendo una quota dell'azienda di investimenti da egli fondata 20 anni prima. Quella di Chris Gardner è una storia vera. The end.
SVOLGIMENTO
La rappresentazione che Gabriele Muccino fornisce di questa vicenda, sebbene apprezzabile da un punto di vista tecnico, non è di natura meramente cinematografica, bensì teatrale, un debole presente già allora nella sua produzione come in tantissimo altro cinema (si riveda, a suffragio di questa tesi, la bella sequenza di meta-arte in Ricordati di Me, che tanto deve a Magnolia di Paul T. Anderson, dove la narrazione trova svolgimento e risoluzione nel corso di una recita teatrale; e non si dimentichi che è proprio dopo avere visto questo film che Will Smith ha espresso il desiderio di essere diretto da Muccino). Questa del suo esordio americano è, a tutti gli effetti, una riuscita rappresentazione edificante e moraleggiante come piace agli Yankees, ma priva – si suppone per scelta - di quella visione che dovrebbe, invece, essere propria di un'opera cinematografica. Narrazioni. Racconti. Molto ben fatti. Ma nessuna visione spiccatamente cinematografica.
La felicità sbandierata nel titolo (fedele all'originale The Pursuit Of Happyness) è qui candidamente confusa con la dignità (ma va da sé che, quando accetti di farti produrre per 55 milioni di dollari da una major statunitense e sei all'esordio in quel contesto, certe debolezze vanno accettate acriticamente). I fantasmi dei padri fondatori distorcono la visione USA delle cose. Felicità è, per l'americano medio, il successo lavorativo conseguito attraverso l'adeguamento al sistema, esentando quest'ultimo da qualsivoglia critica. È questo il messaggio che trapela dalla pellicola: il sistema che abbandona padre e figlio all'indigenza, è lo stesso che permette al protagonista di ottenere un posto di lavoro degno di questo nome. Non v'è ricerca alcuna: solo un mettersi al riparo nelle pieghe subdolamente confortevoli del sistema. Sebbene il protagonista affermi, sul finale, che la difficilissima, sfiancante, conquista del posto di lavoro rappresenti per lui quello che realmente è la felicità (significativo il fatto che la battuta venga pronunciata su di una sequenza dove Chris Gardner, fresco di assunzione, scende fiero in strada per unirsi alla massa fino a scomparire quasi del tutto), quella cui si assiste è in realtà ben altro tipo di ricerca. Questo padre che, di fronte al figlio, lotta per essere un padre della legge e un padre capace di fornire una testimonianza (la definizione è di Massimo Recalcati), per fare sì che l'ultimo faro nella notte del suo piccolo non si spenga lasciandolo senza speranza; che sa offrirgli protezione; che sa preservare la sua innocenza; che non rinuncia allo studio e alla crescita personale persino nel più tragico dei frangenti – e grandiosamente interpretato da Will Smith, in primi piani di profonda disperazione umana ed immensa dignità genitoriale, capaci di fornire allo spettatore la vera misura morale di questa vicenda -; questo padre è, piuttosto, alla 'ricerca della dignità' - intento nobile ed umanissimo che consegue, prima ancora che con sé stesso, agli occhi imploranti del suo piccolo.
È impensabile che un'icona come Will Smith non abbia intravisto, nell'accettare questo ruolo, anche un'occasione per riaffermare il proprio orgoglio nero (Opportunismo, il suo, del tutto giustificato, comprensibile e condivisibile. Si ricordi, infatti, che il film venne girato un anno dopo l'attraversamento di New Orleans da parte dell'uragano Katrina, evento che, oltre al passare agli annali per la straordinaria scia di morte lasciata lungo il cammino, definitivamente chiarì al mondo intero quello che era al momento il peso specifico della comunità nera negli Stati Uniti d'America: nullo.).
La Ricerca Della Felicità sembra proprio un film il cui messaggio è sfuggito di mano ai suoi stessi autori.
La Ricerca Della Felicità è un film sul padre.

martedì 15 agosto 2017

THE BIRTHDAY PARTY. L'ipocrisia degli auguri su Facebook.


Larry Mullen Jr., cui, penso, le richieste di amicizia su FB - ed ogni altra piattaforma sulla quale gli U2 abbiano cacato - non manchino di certo, ha dichiarato: “Ho all'incirca un manipolo di amici e qualche conoscente.” (“I've got about one hand of friends (holding up five fingers) and a few acquaintances.” - Q Magazine, agosto 2001).
Detto questo, mi sono spesso chiesto cosa si celi dietro gli auguri di compleanno su FB. Cosa obblighi così tanti di noi, cioè, ad augurare i famosi “100” o “1000 di questi giorni” a soggetti dei quali nulla ci importa, nemmeno se morissero vaporizzati (salvo poi approfittarne per la composizione di tristissimi necrologi del tipo “Ciao, folletto”, “Se sei un vero amico, condividi”, “Se Tizio vive ancora nel tuo cuore, raggiungiamo un milione di 'like'”, “Condividi!”, necrofilia 2.0).
Un anno fa, circa, ho 'smanettato' a dovere sulla pagina privacy di FB, sostanzialmente inserendo ulteriori limitazioni all'accesso dei dati cosiddetti sensibili, e di fatto eliminando l'accesso al compleanno. Risultato: dei tanti-auguri-ste, auguroni, grande-ste-auguri, auguri-grande – e chi più ne ha più ne metta -, neanche uno. Nemmeno un tossico anni-'70 si è ricordato del mio natale.
Nulla di che. Il mondo proseguirà indisturbato il suo percorso entropico, così come io il mio costellato di cazzi miei. Proverò, però, a tentare una spiegazione per quella che è una vera e propria diserzione.
Nel mondo dell'amicizia virtuale, quale è FB a tutti gli effetti, stabilire una confidenzialità legata alla venuta alla luce di un qualsivoglia cretino che abiti la piattaforma, ricalcola di fatto il peso specifico del legame con questo, in base al livello di affettazione impiegato nella prosa di augurio (quasi sempre identica, a livello planetario: cioè, mai letto auguri del tipo hey-auguri-grande-maestro-del-fist-fucking - sia mai detto che noi si riconosca le qualità altrui, “oh no”).
Rispondere in maniera entusiastica ad un algoritmo (perché questo è, in soldoni, l'augurio di compleanno su FB) asseconda più il bisogno del mittente che quello del destinatario. E il bisogno è: non essere noi stessi dimenticati, la paura, del tutto inconscia, che, un giorno, magari molto presto, le cose andranno irrimediabilmente male, ed allora si avrà tutti davvero bisogno di un amico. Il migliore e più vero. Non si spiega altrimenti il 100% di amnesia da parte di coloro che solo un anno prima avevano intasato la tua 'bacheca' con auguri altisonanti. Non tanto ricordare, quindi, quanto essere ricordati. O, dal momento che te ne dimentichi per il solo fatto che il tuo account YouPorn non lo ha notificato, va da sé che il babbeo in questione (me, in questo caso) non è la persona che, in caso di avvento di profezie criogenetiche, vorresti avere accanto per gli abusati mille-di-quei-giorni.
E così ci siamo capiti.
Anton La Vey sosteneva che il vero satanista avrebbe dovuto celebrare il proprio compleanno come la più importante della festività annuali. Sono forse satanista, allora?
Dal momento che nessuno di noi possiede il dono della Verità, sbarazzarsi di tutto quanto si reputa ipocrita o poco sincero, è già da considerarsi un bel passo in avanti. La verità, l'unica verificabile, è che siamo soli. Siamo soli, ed in questo universo rappresentiamo qualcosa di importante per quattro, cinque esseri umani al massimo, come affermato con grande sincerità da Larry Mullen.
Forse proprio quegli auguri che ci sforziamo tutti insieme di inviare virtualmente a profusione – tutte quelle faccine sorridenti, i punti esclamativi, i riconoscimenti di grandezze non meglio specificate - non denunciano altro che la paura – sia chiaro, del tutto giustificata – che persino il festeggiato, un domani, possa dimenticarsi di noi come ci si dimentica di un ombrello o di una fusciacca. Senza darvi troppa importanza, cioè.
Io, quel tipo di augurio non lo volevo più. Per questo, come ho detto, ho eliminato il compleanno dal profilo pubblico di FB.
Ma non riceverne neanche uno, quest'anno, mi ha colpito e fatto sorridere.

mercoledì 2 agosto 2017

IL PROFESSORE. La difesa della cultura nell'era del relativismo.


Attilio Piovano è un fine musicologo, del tipo che ci si aspetta da chi, vantando natali sabaudi, sceglie professionalmente questa via: coltissimo, francofono, ottimo pianista, intelligenza pronta, snob come non può non essere un intellettuale di simile caratura. Del suo apporto si avvalgono puntualmente La Stampa ed il Teatro Regio di Torino, ed è voce ascoltata del panorama musicologico contemporaneo. 
25 anni fa è stato il mio docente di Storia della Musica.
Il professor Piovano, nonostante già a quel tempo vantasse tutte le caratteristiche sopra descritte, non riuscì a fare di me un allievo modello (detto per inciso: Attilio Piovano è esente da ogni colpa), ma le sue lezioni, molte delle quali indimenticabili e svolte dallo stesso al pianoforte, hanno aperto porte che ancora oggi attraverso, e dietro le quali sempre mi riesce di trovare stimoli intellettuali leggibili per mezzo delle sue osservazioni e dei suoi consigli. Da allora non ci siamo più rivisti.
Pagato questo tributo di soggezione ultraventennale, il perché di tutto questo amarcord è presto spiegato. Il professor Piovano si è di recente reso protagonista di un gesto dall'alto valore simbolico che ha subito suscitato tutta la mia simpatia e la mia approvazione. Ne sono venuto a conoscenza tramite un post dello stesso professore, commentato da un amico.
In attesa di imbarcarsi all'aeroporto di Caselle, ha avuto la malaugurata fortuna di imbattersi in uno dei musicisti che, in tempi recenti, sempre più spesso le società di gestione ingaggiano al fine di addolcire le attese sempre più lunghe del trasporto aereo. Ad orecchie 'non allenate', la sensazione che si prova può rasentare il paradisiaco. A padiglioni educati, però... È sofferenza allo stato puro. Mi immagino la scena (e Dio sa quanto avrei voluto assistervi):
- Buongiorno. Mi scusi: a nome di tutti i presenti la informo che la misura è colma. Si faccia da parte, per favore.

- ...

Estrae dalla zaino la partitura (azione documentata fotograficamente) ed attacca, ieratico, un brano di Claude Debussy.

Scrive, il professore, sul proprio profilo FB:
...ebbene sì, qualcuno doveva pur farlo lo sporco lavoro: dopo il solito ragazzino che massacrava Per Elisa e il tizio che si beava cincischiando Allevi e le sue cianfrusaglie... E fu così che a Caselle risuonò il Passepied dalla Suite bergamasque. Peccato sia arrivato l'annuncio che il gate era aperto. C'erano i Preludes...”
Ora, non mi permetterò, qui, di dissertare sulla musica francese a cavallo tra ottocento e novecento, specie dopo avere chiamato in causa un esperto come Attilio Piovano. Ciò che mi preme sottolineare è l'ironico “sporco lavoro” con il quale il professore tradisce la fatica quotidiana, da parte di tutti coloro che si occupano professionalmente di musica, del difendere un'arte sempre più bistrattata a livello educativo, manipolata a livello commerciale, e strumentalizzata, dal suo interno, dai residenti di quella zona grigia così ben rappresentata dal giustamente citato Allevi. Le persone, inebetite da un continuum musicale che non concede spazio più per riflessione ed approfondimento (l'Infinite Jest profetizzato da D. F. Wallace), non sono in grado di realizzare che il saper leggere uno spartito ed il muovere le dita con precisione su di una tastiera, per quanto apprezzabili, sono gesti insufficienti ad una lettura veramente estetica di molta della musica conosciuta. In un paese dove tutti, ormai, dichiarano di suonare, ma in cui solo una ristretta minoranza vanta un'educazione musicale di base, il gesto di Attilio Piovano è davvero uno “sporco lavoro” che qualcuno doveva pur fare. Riportare la pratica della musica ai suoi veri valori (la passione, la dedizione, lo studio approfondito, la cura del dettaglio), attraverso la propria, personale interpretazione.
Uno “sporco lavoro” del quale si avverte sempre di più l'urgenza. I competenti ed i talentuosi hanno oggi sempre di più il dovere morale di correre in soccorso di una nazione che, nell'insieme, ha perso ogni possibile concezione del bello. È il solo modo per arginare l'ondata inarrestabile dei ciarlatani della musica. In maniera spontanea. Come ha fatto – ribadisco – simpaticamente il professore.