lunedì 20 febbraio 2017

Eroi Dei Nostri Tempi


Premetto che non è mia intenzione discutere di Sully e Snowden da un punto di vista cinematografico – sebbene entrambe le pellicole offrano parecchia carne al fuoco.
È interessante che due grandi narratori di storie americane, quali Eastwood e Stone, nello stesso momento storico (le primarie, il tracollo del partito democratico, l'elezione di Trump), abbiano scelto, a soggetto delle rispettive produzioni, due vicende accomunate da aspetti che vanno dalla moralità al coraggio; dal confronto con la paura a quello con se stessi; dalla professionalità all'etica di questa; dal mito dell'eroe solitario alla sofferenza del gesto eroico. Ma soprattutto: dallo straordinario senso della responsabilità dei loro protagonisti.
La retrodatazione delle due vicende può anch'essa essere vista come tratto di comunanza. Del 2009 l'ammaraggio del volo US 1549; del 2013 le rivelazioni del Guardian. Gli estremi del primo mandato Obama.
In un moderno e politicamente connotato gioco delle parti, l'allora neo-eletto presidente riservò a Chesley 'Sully' Sullenberger un trattamento da eroe (la tribuna d'onore alla cerimonia di insediamento), proprio nel mentre l'agenzia statunitense per la sicurezza del volo (NTSB), in un'indagine dovuta, ne sottoponeva a verifica l'affidabilità in maniera a dir poco insinuante. A fine-mandato, e alla ricerca della rielezione, gli toccò invece dare della spia a tale Edward Snowden, caricarlo in toto di una responsabilità che la sua amministrazione, poco credibilmente, disconosceva (ricordate la battuta mi-sa-che-mi-sono-fidato-dele-persone-sbagliate, da Fahrenheit 911?), e con l'agenzia per la sicurezza nazionale (NSA) silente in quanto gabbata dal giovane – ed intelligentissimo – tecnico informatico.
Sully è una visione edificante, un film dove la tecnica cinematografica è integralmente al servizio dell'espressività, del dramma umano che Chesley Sullenberger si trova a vivere alla soglia della pensione, investito da un'emergenza ignota al settore; il dramma di un uomo sano, solido, responsabile, di fronte all'ignoto – appunto -, al non-conosciuto. Anche l'integrale dell'ammaraggio, magistralmente ricostruito in digitale, non indugia, temporalmente e personalmente, su aspetti sensazionali – quali potrebbero essere le reali, effettive reazioni dei passeggeri che, diversamente da 'Sully', non realizzarono quanto stava per accadere loro fino all'impatto con lo Hudson. Montata in tempo reale, è funzionale alla comprensione da parte dello spettatore dell'immensità di ogni dramma necessario alla comparsa di un eroe, e del prezzo da pagare per diventarlo. La narrazione non si incentra sul gesto - indiscutibilmente eroico - dell'optare per un ammaraggio e del realizzarlo. La storia di Sully è quella di un uomo che deve giustificare, nell'ansia che segue ogni tragedia attraversata, la propria scelta eroica. L'eroe conclamato è visto nella difficoltà, nudo. È seguito dalla telecamera nel mentre paga il prezzo dell'eroismo, come un uomo qualunque. Come tutti. Tom Hanks interpreta la sofferenza dell'eroe in maniera sempre equilibrata, davvero eccellente.
Il parallelo con Snowden - lontano dalla pensione, giovane, promettente, in carriera, dotatissimo, patriota ed innamorato – è il confronto con un ignoto del quale il protagonista scopre di essere non spettatore, bensì parte integrante, funzionale ad un sistema di schedatura che concresce autonomamente, svincolato da ogni controllo giurisdizionale. Avevo promesso di mantenermi a distanza dalla critica cinematografica, ma mi risulta impossibile non parlare di quel movimento di camera, nel finale, che, transitando dietro allo schermo del computer portatile fa scomparire Joseph Gordon-Levitt rivelando allo spettatore il volto di Edward Snowden in carne ed ossa. Vale l'intero film, e lo dico senza cattiveria. Un momento di grandissimo, commovente cinema civile americano in grado di donare una speranza ed una forza che, personalmente, avevo dimenticate.
In comune vi è sicuramente l'aspetto della responsabilità, intesa nelle due pellicole nelle sua accezione più nobile: non tanto il portare a compimento un impegno assunto quanto l'accettazione delle sue conseguenze. L'indagine ministeriale per 'Sully', l'esilio forzato per Snowden.
Qui non si tratta di raccontare come va a finire. Si tratta di provare a capire perché due grandi, affermati registi, connazionali, abbiano simultaneamente avvertito l'esigenza di narrare vicende solo apparentemente diverse e distanti. Il bisogno dell'eroe – da non confondersi con il nostrano, ciclico bisogno dell''uomo forte' – denota l'assenza, nelle sfere decisionali, di persone capaci di assumersi responsabilità vere. Capaci di scegliere (impossibile, qui, non citare quello scrittore dal cuore grande come l'America che è stato David Foster Wallace, con le sue bellissime riflessioni sulle “[..] cause che travalicano l'interesse personale [...]”, quando ebbe a scrivere sulla campagna di John McCain). La critica è sicuramente rivolta alle facce che popolano un certo stabile di Pensylvania Avenue, a Washington DC. E a casa nostra? Riuscite davvero, in questo contesto, a non pensare a Virginia Raggi? Io no. Ho sostenuto, moralmente, la sua candidatura. Una donna, giovane, a capo della città più problematica e grande d'Italia. L'opportunità di finalmente mostrare la forza di decisioni controcorrente, prese con cognizione di causa (quanto Snowden e Sully hanno fatto rispettivamente). E se funziona a Roma è probabile che l'esempio sia replicabile altrove. Ebbene, mi sento, oggi, come chi ha acquistato un'auto rotta pagandola come nuova. Non dubito del carico gravosissimo che questa persona si è trovata sulle spalle, e che curverebbe chiunque al suo posto. Ma questo è l'impegno che lei e i Cinque Stelle hanno scientemente voluto assumersi. Questa responsabilità è stata chiesta a gran voce da lei e dalla compagine che l'ha sostenuta. Forse Virginia Raggi dovrebbe andare un po' più al cinema e un po' meno in riunione con Beppe Grillo. Scoprirebbe di persone in grado di prendere decisioni vitali in 208 secondi (!), e dell'esistenza di giovani brillanti e promettenti, esattamente come lei, disposti a rinunciare ad “una vita normale, un buono stipendio, carriera, famiglia”, semplicemente per fare 'la cosa giusta'. E che tutta quella merda trovata a Roma, insomma, è roba risolvibile, consente una reazione - senza, tra l'altro, il rischio di finire nel Tevere con l'intera giunta al seguito, o sottoposto a waterboarding in uno scantinato a Il Cairo. Questo immobilismo, ormai lungo un semestre, non consente giustificazioni. Con la sua gestione capitolina, incessantemente sbandierata – e qui mi rivolgo al movimento, più che alla persona -, non si è riusciti nemmeno nel fare 'la cosa sbagliata'. Siamo all'inazione, alla paralisi decisionale. L'esatto opposto di Chesley Sullenberger ed Edward Snowden.
È di queste ore la notizia della piena disponibilità della giunta Raggi alla costruzione di un nuovo stadio. È come se Chesley Sullenberger avesse optato per un rientro al più vicino aeroporto, replicando ottusamente quanto praticato in simulazione. E Edward Snowden avesse proseguito indifferente nell'attività comandatagli, perché, dopotutto, per citare il connazionale medio, “io faccio solo quello che mi dicono di fare”: vivremmo in un mondo totalmente privo di fiducia nel prossimo, e senza alcuna speranza.
Grazie a questi eroi, il farsi di tale apocalittica prospettiva è rimandato ancora per un po'.