venerdì 27 settembre 2019

C'ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD. Il cinema nel cinema di Quentin Tarantino.

Brad Pitt nei panni di Cliff Booth.
Sarà perché da un po' non mi recavo al cinema. O perché vi sono andato con l'occhio pregiudizievole dell'ammiratore. O forse perché tenere a battesimo un minorenne che vede per la prima volta un film di Quentin Tarantino in sala rende orgogliosi al limite con l'esaltazione. O, ancora, perché – unico tratto in comune con il grande regista statunitense – sono cresciuto a pochi passi da un cinema del quale frequentavo più la cabina di proiezione che la sala. Non saprei.

Sta di fatto che, a metà della visione di C'era Una Volta A Hollywood, a stento mi sono trattenuto dall'alzarmi in piedi ad applaudire (per coloro che già hanno visionato la pellicola, l'applauso intendeva omaggiare la sequenza strepitosa dove Leo Di Caprio ricicla il proprio personaggio nel rifacimento della serie telvisiva Lancer, in un cortocircuito estetico incantevole e spassosissimo).

(A mia esclusiva tutela, e prima che qualcuno di coloro che frequentano questo blog decida di allertare Telefono Azzurro, mi sia concesso precisare che il minorenne in questione è un ragazzino di grande sensibilità cinematografica, figlio di un amico in trasferta all'estero per lavoro).

Perciò, essendo ormai incapace di vivere dignitosamente la mia solitudine di fuori-casta, ho subito raccontato ad una conoscente dello sforzo titanico messo in campo per sopprimere detto entusiasmo. E mai scelta fu più azzeccata, se inconsciamente desideravo sentirmi ancora più isolato:

A me non è piaciuto per niente. Mi sono rotta le palle dall'inizio alla fine. Due ore e mezza di una storia irreale... Volevo davvero uscire - sai?

Questa tesi, quella che scredita un soggetto cinematografico a seconda del grado di irrealtà, di finzione, impiegato, ha avuto, in passato, illustri detrattori, tra cui Alfred Hitchcock. Il maestro sosteneva che pretendere dal cinema una mera riproduzione della realtà è insensato. Se ciò che si vuole è vedere la vita di tutti i giorni, la realtà del quotidiano, non serve andare al cinema: basta sedere al tavolo di un bar e osservare i passanti. Pertanto accusare Tarantino di avere ammorbato la visione del suo stesso film con una storia troppo ricca di elementi di finzione (fiction: vi ricorda qualcosa?), denota scarsa fantasia ed altrettanto scarsa disposizione a farsi guidare lungo strade che non siano quelle abituali.

Anche perché la trovata geniale di C'era Una Volta sta proprio nel presentare una vicenda tragicamente vera (l'omicidio Tate, la fine della golden age e della summer of love) per mezzo di un soggetto di invenzione. Il tutto condito da un clima estetico (quello dei '60) reso da Tarantino in maniera straordinaria.

Sebbene i comparti costume e scenografia abbiano lavorato egregiamente (vedere per credere), non è nella riproposizione di un capo d'abbigliamento o di un'autovettura d'epoca che si situa la grandezza di quesito film - il cui unico difetto è, forse, quello di rivolgersi in totale buona fede ad un pubblico che si presume avere visto tanto, tanto cinema (più ne hai visto, più la sua visione è resa godibilissima e stimolante). È nel ricreare un clima, quello della Los Angeles fine '60, che si situa il suo maggior pregio estetico (impresa che Tarantino aveva già tentato, con pessimi risultati al botteghino, ma eccellenti sullo schermo, con il progetto Grindhouse). Si ha la sensazione di respirarlo, mentre si guarda. I silenzi dello Spahn Movie Ranch; l'universo parallelo della Playboy Mansion; il caldo della West Coast; il mondo ovattato e fittizio degli studios; le sale semivuote del matinée; le corse in macchina sulla Strip; il sottofondo dei drive-ins, e via dicendo. C'è tutto questo e molto più in C'era Una Volta (fra le tante sequenze memorabili del film, che non possono essere tutte citate, la menzione d'onore va sicuramente a quella dove Margot Robbie, nei panni di Sharon Tate, si reca al cinema a vedere Missione Compiuta, alla delicatezza con cui Tarantino tratta l'immagine di questa donna nel fiore degli anni ed inconsapevole dei motivi che la porteranno di lì a breve agli onori della cronaca nera, una sequenza di cinema nel cinema davvero meravigliosa).

Ed è proprio grazie a tale riproduzione, quella cioè di una California con tutto il suo portato mitico, che Tarantino può inserire la vicenda del tutto verosimile dei suoi due protagonisti, Rick e Cliff (rispettivamente Di Caprio e Brad Pitt), un dramma che molti di coloro che vivevano dell'enorme indotto di Hollywood si trovarono a vivere in prima persona.

Nel cinema di Tarantino, insomma, ciò che è vero subisce l'invenzione (Sharon Tate, Jay Sebring e Voytek Frykowski si salvano dalla notte di Helter Skelter e consumano un brindisi con Rick), mentre quanto è frutto di invenzione risulta, alla fine, più vero che mai (le carriere di Rick e Cliff sono rovinate dell'esplosione delle serie televisive cui l'industria tutta si deve adeguare).

È quindi difficile, grazie a questo artificio narrativo, non commuoversi nella sequenza finale del film,di fronte all'immagine di Emile Hirsch nei panni di Jay Sebring che fa capolino dietro il cancello del 10050 di Cielo Drive. La realtà è spesso troppo dura da digerire. Ma il cinema, ed in particolar modo quello di Tarantino, può girarvi intorno e farci sognare come sarebbe stato se la notte dell'8 agosto 1969 le cose, per il mondo del cinema – che, non dimentichiamo, è il mondo di Tarantino -, fossero andate diversamente.

Jay è il vicino gentile, cordiale e discreto che tutti vorremmo avere.

Ma è la finzione a portarlo fino a noi.

È finto.

lunedì 23 settembre 2019

JOVA 'BITCH' PARTY. Lorenzo Jovanotti e l'assenza del limite.

Un clochard sulla spiaggia di Barletta
Mi siano concesse due parole su Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, in occasione del suo concerto all'aeroporto di Milano Linate.

Lorenzo (come ama spesso essere appellato, nome comune per una persona altrettanto comune) è fuor di dubbio un entertainer di grandissimo successo.

Si ponga però attenzione al termine impiegato. Lorenzo non è infatti un artista (come predicato dai più): è un intrattenitore - come Rosario Fiorello o Renzo Arbore, per intenderci. Non propone una visione del mondo (compito primario dell'artista), bensì un prodotto (il mega-evento o mega-concerto che dir si voglia) in grado di garantire uno svago non dissimile a quello di un pool party alle Baleari, ma con prezzi quadruplicati.

Detto questo, sembra che nulla, nemmeno l'appena citato ricarico, possa fermare il suo seguito dal desiderare e quindi acquistare detto prodotto: a riprova, il tutto-esaurito registrato dall'ultima serie di concerti del Lorenzo, svoltasi su alcune tra le spiagge più belle del paese (e coerentemente intitolato Jova Beach Party). Allo stesso modo, svalutarne pubblicamente la portata (ribadisco: non artista, ma intrattenitore) non impedisce agli stessi di sentirsi appieno rappresentati dalle sue parole, dalla musica, dai gesti e dalle prese di posizione (basta parlare con uno solo dei suoi fans per rendersi conto della distorsione con la quale ne percepisce la figura: qualcosa a metà strada tra Nelson Mandela e Gesù di Nazareth).

Evidentemente non pago del successo fin qui arrisogli, Lorenzo ha deciso di andare oltre e così conquistare luoghi quanto mai inusuali (almeno da noi) per concerti e mega-eventi (ed ecco spiegata l'origine della data di Linate).

Il suo desiderio (non dubitiamo, infatti, che sua e solo sua sia stata l'idea) di tenere concerti su spiagge ed aerodromi tradisce una volontà dittatoriale di appopriarsi, per mezzo della sua musica, di ogni spazio, ambito e luogo del paese, nel sogno malato di una nazione dove egli si immagina nei panni di Grande Fratello (quello di George Orwell, non quello di Alessia Marcuzzi), teso a declinare ogni ambito del vivere quotidiano alla pseudo-filosofia propalata dai testi delle sue canzoni.

Lorenzo Jovanotti, inconsciamente, attua nei confronti dell'aeroporto chiuso per ristrutturazione la stessa logica che la mala di periferia applica al primo locale che si svuota per più di un giorno: lo occupa. Ma soprattutto: Lorenzo Jovanotti non è in grado di concepire più l'idea di un luogo del paese dove la sua figura, la sua presenza, risulti assente.

Le immagini circolanti di Jovanotti galvanizzato  ai massimi livelli (chi non lo sarebbe, al posto suo?) e ripreso spalle al pubblico con il grandangolo, ci ristituiscono il ritratto sconcertante di una persona la cui festa prosegue ininterrotta da più di 30 anni; che probabilmente ha vissuto gli eventi più importanti del trentennio con l'indifferenza di chi è impegnato in bagordi all'interno di un locale; convinta che il successo venga elargito agli eletti a prescindere dal talento (che, unitamente alla mancanza di modestia, Jovanotti non ha nella maniera più assoluta); convinta (forse giustamente) che, in assenza totale di critica, di opposizione, si possa fare tranquillamente a meno del senso del limite.

Tutto questo grazie ad un pubblico arci-italiano disposto a farsi guidare da chiunque - sia esso l'imprenditore di successo, lo sborone con residenza all'estero o il cantante in testa alla classifica - prometta a gran voce di appianare ogni divergenza e risolvere ogni problema (esattamente ciò che Jovanotti, con il suo mix di bella vita, spiritualismo spiccio, ambiantalismo tanto-al-kilo, filosofia di invenzione e disprezzo per il talento propone nei suoi spettacoli, dove, ogni due canzoni, parte l'immancabile discorso dal balcone di Piazza Venezia).

Perché non bisogna mai dimenticare che l'italiano medio non vuole un governo per il paese: vuole essere governato.

Attendiamo quindi con ansia il giorno nel quale, in occasione della sua prossima data romana, magari in occasione del viaggio all'estero di Sua Santità Bergoglio, Lorenzo deciderà di suonare sull'altare di San Pietro e, dal momento che lì si trova, imbastire una bella predica tra un brano e l'altro, e la comunione a fine-concerto.

A fare simili riflessioni, viene davvero il sospetto che il tanto decantato ombelico del mondo non fosse altro che il suo. 

lunedì 2 settembre 2019

AI CONFINI DELLA REALTÀ. A 25 anni dalla trattativa stato-mafia.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Sette anni fa, nei giorni del ventesimo anniversario della strage di Capaci e di quella subito successiva di via D'Amelio, mi stavo preparando a diventare padre. Ruolo per il quale, lungi dalle dicerie, non si nasce predisposti in quanto maschi: lo si diventa con l'impegno, la dedizione e l'amore - tratti per i quali è richiesto un certo sforzo.

Da allora, per qualche anno, ho accantonato ogni passione civile per dedicarmi a questo nuovo compito.

Oggi, per mia fortuna, ho ritrovato la forza  e il coraggio per riprendere il discorso (similmente alla paternità senza dedizione, senza passione non vi può essere una vita civile) e così finalmente leggere, a ben cinque anni dalla sua pubblicazione, Ė Stato La Mafia, il libro di Marco Travaglio sulla trattativa tra uomini dello Stato ed esponenti mafiosi, intrapreso dai primi 25 anni fa, all'indomani dell'uccisione di Giovanni Falcone.

E, credete: ce ne vuole non poco, di coraggio, se si considera che una lettura attenta delle sue poche pagine (153) è in grado di minare alla base quella speranza in un domani migliore senza la quale la vita politica - e di conseguenza l'impegno civile - non può darsi.

Ne ho parlato, confidenzialmente, con un conoscente, il quale, vistomi immerso, giorni fa, nella lettura del libro al tavolo dell'aperitivo (cosa non farei, pur di sputtanare gli hipsters del 'telefonino'), aveva manifestato un insolito, sorprendente interesse per la materia (sia cartacea che contenutistica). Risultato: "Sai, a me, cosa mi rende felice? Fare le cose che mi piacciono. Andare in palestra, mettere a posto il giardino, uscire con gli amici... Queste cose qui - indica il libro -, mi mettono tristezza.".

Certo: come ho appena detto, gioia non ne provoca, una simile lettura, come lo stesso Travaglio afferma nell'introduzione al testo ("... mi domandai quanti cittadini avrebbero pagato ... per ascoltare una storia così terribile e disperante."). Come è vero che con cittadini capaci di simili risposte, la politica è ben lungi dal temere di vedersi giudicata per i propri atti.

Sebbene, al tempo, non diedi la giusta lettura ai fatti di Capaci, prima, e via D'Amelio, dopo (ero troppo giovane e inesperto delle cose della vita), ricordo con chiarezza l'impressione di tragica irreversibilità che ricevetti da quelle due tragedie. Impressione poi confermata dalle parole pronunciate da Antonino Caponnetto in seguito alla scomparsa del suo amico Paolo Borsellino: "Ė tutto finito.". Caponnetto, uomo dal cuore grande, si pentì, successivamente, del disfattismo convogliato da quelle parole. Ma gli riconosciamo che ne aveva ben donde, se si pensa che Borsellino, uomo dal fiuto investigativo raro (altro che CSI!), era stato ucciso proprio perché, venuto al corrente che lo stato (a questo punto con una meritatissima s minuscola), lungi dal mettersi sulle tracce di chi aveva ucciso il suo collega e amico Giovanni Falcone, era sceso a patti con l'organizzazione che di quell'uccisione era mandante, tentò di ostacolarla con il coraggio della disperazione.

Mi permetto qui di dire - con rispetto per i morti - che, ben più che sui corpi dilaniati dei loro obbiettivi, fu l'impatto che quelle bombe ebbero sulla condotta politica italiana, intesa nella sua accezione più pura come gestione del bene e della cosa pubblici e non di mercato della compravendita cui siamo stati invece abituati, a risultare maggiormente devastante. Un'onda d'urto che si esaurisce, con buona pace dei suoi tanti difensori, nel consenso del 100% (!) incassato da Forza Italia in Sicilia alla elezioni politiche del 2001.

Troppo facile, quindi, uscire dalla vicenda ricordando ai giovani, ancora una volta, che devono leggere ed apprendere la lezione dello scandalo stato-mafia. Siamo noi che, al ivello generazionale, seppur con diverse intenzioni, abbiamo avallato la classe politica resasi protagonista della trattativa. Per i nostri giovani sarà, né più né meno, un capitolo di storia moderna, come il Watergate o il caso Moro - per restare in casa nostra -, mentre per noi è - e sarà a lungo - un'onta da elaborare.

Ė Stato La Mafia racconta in maniera chiara, dati alla mano, come tutti i versanti politici, nessuno escluso, abbiano contribuito, negli anni seguiti agli infami accordi del '92, al loro puntuale rispetto.

Come cittadini, vi abbiamo concorso, più o meno inconsapevolmente, ogni qual volta abbiamo portato rispetto a nomi, cariche e divise la cui concezione dello Stato - come è emerso spudoratamente dalle intercettazioni richieste per l'indagine - è risultata essere, semplicemente, inesistente - e che in un mondo normale avrebbero conosciuto la pena capitale con l'accusa di alto tradimento.

In questo panorama di assoluto degrado etico ed istituzionale emerge, però, un fatto sorprendente, al quale chi ancora è dotato di coscienza, non può che aggraparsi come il naufrago al frammento di scafo (mi si perdoni la metafora dettata dalla scottante attualità). E cioè: se oggi possiamo ventilare il nostro legittimo scandalo, oltre a Travaglio che ne ha fornito l'unica narrazione attendibile - e che, come ho avuto modo di dire più volte, in questo blog, è per me il più grande giornalista italiano di sempre, à la Montanelli -, lo dobbiamo al coraggio esemplare dei magistrati di Palermo, di Caltanissetta e di Firenze, veri ed unici eredi di Falcone e Borsellino, che hanno anteposto il loro dovere alla convenienza, indagando a testa bassa, come arieti, tutti coloro che la Legge ha indicato come perseguibili, restando indifferenti alle minacce e ai tanti lei-non-sa-chi-sono-io sicuramente ricevuti.

Siamo sinceri: chi non vorrebbe avere come vicini di casa uomini così?