lunedì 21 settembre 2015

CRIMINAL INTENT. L'inconscio criminale dell'italiano medio.


Non è esaltato dalla serie televisiva, ed anche nel film di Michele Placido – sebbene impersonato da Stefano Accorsi – non emerge. Solo nel suo parto originale, quello cartaceo, il commissario Nicola Scialoja è presentato per ciò che è: giovane, in gamba; coraggioso; affrancato da ogni protezione corporativa e politica; intelligente, testa calda e solo. Cioè arredato di tutti quegli orpelli che fanno di una persona un eroe.

Eppure nessuno, parlando del fenomeno Romanzo Criminale, ha mai citato Scialoja allo stesso modo e con la stessa frequenza del Freddo, del Nero, Dandi, “Libbano” o di altri personaggi similari. Mai sentito dire “che ganzo, Scialoja!”, come sovente avviene, invece, per i criminali del 'Romanzo'.

Anche nel film la caratterizzazione dei personaggi sembra conferire maggiore rilievo alla frangia criminale (si pensi al Nero, impersonato da Riccardo Scamarcio: bello, fascinoso, giovane, aitante e letale. Fino a quando non lo si vede prelevare una persona dalla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 - azione che lo riconsegna istantaneamente al giudizio sulla sua vera natura -, chi non si innamorerebbe di uno così?).

Nikita Nabokov diceva che la buona letteratura è quella che suscita in noi velleità letterarie. Ed è proprio questo che il meccanismo narrativo di Romanzo Criminale attiva nell'inconscio dell'italiano medio: la sua parte criminale (che non si concretizza, ma nemmeno gli consente un moto empatico nei confronti del commissario). Una giustizia disposta ad avvalersi di una persona come Scialoja, fa paura, all'italiano medio. Potrebbe, di fatto, restituire noi un paese nel quale le doppie vite, fatte di sotterfugi, appoggi non dichiarati ed apparente legalità, risulterebbero non più praticabili. Nel quale, per farsi strada, verrebbe finalmente richiesto, impegno, dedizione, coraggio e il rispetto delle regole del gioco. Ecco spiegate, forse, le ragioni di questa tendenza.

È stato Pulp Fiction di Quentin Tarantino il primo film che, in Italia, ha estetizzato i gangsters al punto da farne fonte di citazione per schiere di illetterati (Il Padrino di Francis Ford Coppola si limitò, al tempo, alla semplice loro rappresentazine). Con una differenza, però. Pulp Fiction è un film su criminali visti da criminali; in azione, cioè, nel loro habitat naturale. Mentre in Romanzo Criminale – il libro - lo scontro tre bene e male è presente, voluto: non vi si può sfuggire, ed obbliga ad una presa di posizione. (Quando parteggi per Julius o per Wolf, ritenendoli migliori di un Vincent che si fa ammazzare seduto sulla tazza, sei già compromesso: hai solo scelto il meno peggio. Ma c'è una via d'uscita: affrontare le brutalità pulp con cinica ironia – ridervi sopra, in tal modo esorcizzandola - e se non disponete di senso dell'umorismo siete semplicemente da compatire.

Nei tredici anni lungo i quali si dipana la vicenda del 'Romanzo' – dal sequestro Moro ai giorni che precedono Tangentopoli -, Nicola Scialoja intercetta, a pelle prima e con l'investigazione dopo, tutte le dinamiche che oggi sappiamo avere caratterizzato quel periodo travagliato. Il muro di gomma, l'eterodirezione, la squalifica, la carriera per volontà politica. dinamiche che noi tutti possiamo sperimentare nel nostro quotidiano da civili, e che Scialoja, da tutore dell'ordine, esperisce con uno sconcerto che girerà in cinismo.

Certo: è anche una bella testa calda, Scialoja. Ama fare di testa sua, in barba alle regole. Ma sempre alla ricerca appassionata della giustizia ad ogni costo – motivo che dovrebbe permetterci di amarlo ulteriormente, ma che ancora non basta per fare di lui un eroe nazional-popolare. Nella nostra sovente disperata vita nazionale, la risposta di Scialoja all'opportunista, irriconoscente Sandra Reynald - “Fregare quanti più bastardi possibile.” -, dovrebbe suonare come vero e proprio grido di battaglia cui dare supporto ogni qual volta avanzato dai più valorosi dei tutori dell'ordine; e da far risuonare al nostro interno quando di fronte a soprusi, prepotenze e sotterfugi del nostro quotidiano.

Nicola Scialoja. Commissario di Polizia tra il sequestro Moro e l'avvento di Tangentopoli; successivamente direttore dell'”Ufficio logistica e informazioni sulla criminalità del Ministero degli interni […]. Non si e mai sposato.”

Un eroe dei nostri tempi.

martedì 8 settembre 2015

MONEY FOR NOTHING. La grande bufala dei megaconcerti.

Mi accorgo solo ora che gli U2 hanno suonato in Italia, ed io, per la prima volta in trentatré anni, ho prestato all'evento la stessa attenzione che do alle parole di un Renzi o di un Lupi. Nulla.

E dire che si trattava di un evento non da poco: doppia data con apertura del tour , tutto esaurito e prove in loco (Torino). E che canzoni come A Day Without Me, Gloria, Red Light, A Sort of Homecoming, Wire, Indian Summer Sky, hanno illuminato e reso accettabile la mia adolescenza. L'incontro con la bellezza e la profondità.

Nulla. La più totale indifferenza.

Settimane addietro, stavo seguendo il prime time di Radio Rai2, quando l'evento è stato oggetto di una promozione di quindici, venti minuti (marchettone), lungo i quali la conduttrice ha raccontato, in preda ad irrefrenabile entusiasmo, della corsa planetaria all'approvvigionamento dei biglietti. Ecco perché oggi me ne sono infine ricordato. Cifre da weekend lungo in Liguria per un solo ingresso. Intere famiglie in trasferta per assistere alla doppia data. Il recordman della stagione, ci informano senza vergogna, è un brasiliano, con circa milletrecento euri sborsati per tre ingressi – ai quali vanno aggiunti trasferta e soggiorno. E ce lo raccontano a sottolineare come questi che sanno il fatto loro! Pur di soddisfare il buon gusto che li caratterizza, non badano a spese. Non come noi.

Buon gusto? Ma se sono anni ed anni che questi ex rockers non fanno altro che sfornare dischi tutti uguali, deludenti, banali; e dare loro seguito con tours il cui unico fine è quello di fare cassa. “Ah, imperdibili!”, ti dicono.

Bene. Se questa gente per te è imperdibile – e parlo di U2, Springsteen, Rolling Stones, Madonna, Metallica, Ligabue, Vasco, Eros, Lorenzo e tutti coloro che non si fanno scrupoli a chiedere centoventi euri per un terzo anello -, il tuo profilo rientra di fisso tra i seguenti. Sei:

    a) John Fitzgerald Kennedy (come JFK, la ricchezza di famiglia ti protegge dalla crisi in corso, e come lui ne diverrai consapevole solo fra qualche anno [il presidente scoprì quella del '29 negli anni quaranta, studente ad Harvard]);
    b) Carlo Massarini (sei una leggenda vivente del tuo paese, e godi di accrediti per ogni evento, cioè entri gratis);
    c) Joe Kavanagh (sei così disperato che accetti il ruolo di piccolo corriere della droga pur di assistere al concerto);
    d) Pamela Des Barres (non ti accontenti di una data: vedi tutte quelle nel tuo paese ed un buon numero di quelle continentali, ma ,a differenza delle groupies, paghi tutto);

E questi del servizio pubblico che fanno? Ti raccontano dell'asta al rialzo illimitato per conquistare non uno, bensì più biglietti, al prezzo che per molte famiglie è il mensile – o neanche.

Segue ora un elenco random di artisti visti dal sottoscritto, con relativo tariffario:

  • Billy Cobham - € 16;
  • Mike Stern - € 20;
  • Anathema – gratis;
  • Paco De Lucia – L. 22.000;
  • Stefano Bollani ed Enrico Rava (ft. John Scofield) – € 18;
  • Steve Grossmann – gratis;
  • Brad Melhdau Trio – gratis;
  • Paolo Fresu – gratis;
  • Dave Kilminster e Guthrie Govan - € 16;
  • Bansky - £ 3;
  • Damien Rice - € 26;
  • Caparezza - € 15;
  • Marta Sui Tubi - € 14;
Capiamoci: nussun artista può chiedere le cifre che la conduttrice di Radio Rai2 ci ha somministrato come un farmaco generico. Nessuno di loro vale quelle cifre. Se è possibile – e lo è – sentire Daniel Baremboim in platea alla Scala per quaranta euri, e vedere Bansky per tre sterline – cifra calmierata dallo stesso artista: che genio -, va da sé che quando gli Stones te ne chiedono centoventi, è in corso un inganno – questo sì 'diabolico'.

Che il servizio pubblico impieghi una simile leggerezza in tempo di crisi, è piuttosto sconcertante.


Che nello specifico, a farlo, sia Radio Rai2, un canale che parla ai giovani, la categoria cioè più sfruttata e colpita da questa crisi, è – come cantava un altro grande nostro artista - 'Fuori dal Tempo'.

lunedì 7 settembre 2015

TUTTI I BAMBINI DEL MONDO. La tragica fine del piccolo Aylan Kurdi.

Dopo una crisi iniziale, ho riguardato le due foto di Aylan Kurdi con un po' più di distacco.
Mi sono così tornate alla mente le lezioni di Pier Paolo Pasolini ad un immaginario 'ragazzo di vita'. Quelle sull'estetica. Quando spiegava al giovane Gennariello di come le cose ci parlino.
Eccomi allora tornato sui banchi di scuola, a scrivere il tema: cosa ci dicono le foto del piccolo Aylan?

Nella prima, il piccolo Aylan è riverso sul bagnasciuga. La spiaggia dove giace il suo corpo, almeno nella porzione delle scatto, è deserta. È solo. Solo nella morte, con i suoi tre anni.
Il suo corpicino esangue, con ancora l'abbigliamento estivo fatto di scarpine, pantaloni corti e maglietta rossa, sembra quello di un bimbo esausto dopo una giornata ininterrotta di giochi. Ma non è così. È riverso in discesa, le braccia allineate lungo il corpicino, il viso mezzo affondato nella battigia. È la postura più innaturale che un bimbo possa assumere. Innaturale come la sua morte.
La magliettina rossa ci ricorda la bimba ebrea di Schindler's List e, paradossalmente, la bandiera del divieto di balneazione; ma sopratutto l'inadeguatezza dell'abbigliamento per una traversata notturna, il freddo terribile che Aylan avrà provato nelle sue ultime ore, nonostante l'abbraccio caldo e disperato della sua mamma.
La sabbia ha di sicuro invaso gli occhietti, le narici, la bocca ed ogni altro orifizio madre natura ha voluto rendere accessibile, luoghi nei quali, con i nostri figli, non permetteremmo la presenza di una singola briciola.
Sullo sfondo, la presenza di pattume ed altri detriti equiparano la restituzione del corpo di Aylan a quella di un tronco, di un pezzo di legno. La par condicio della natura.

Nello scatto successivo, un agente della guardia costiera turca, realizzato il compito che dovrà affrontare nella giornata di servizio, raccoglie le spoglie del povero Aylan.
Quanto può pesare un bimbo di tre anni in fuga dalla guerra e ramingo da giorni o settimane? Non più di tredici chili, il peso medio di un essere umano della sua età in salute. Il peso medio del bagaglio a mano che tutti noi portiamo senza fatica quando ci apprestiamo ad un viaggio aereo. Eppure il corpo del guardacoste è ricurvo come sotto il peso di decine di chili. Grava su questo uomo il peso morale, politico ed umano di un'intera comunità continentale. Non lo tiene saldo al petto – come faremmo tutti noi con un carico innocuo -: lo tiene a distanza. Come un collo radioattivo.
Nella versione video di questa tragedia, l'agente viene visto, però, condurre le spoglie di Aylan dietro uno scoglio poco distante, a dare cioè riparo ai resti di una creatura violata troppo presto nel diritto all'innocenza, alla felicità, alla sicurezza di una famiglia. Alla vita. Lo occulta alla vista, dietro a quello che diviene una camera mortuaria open air, ma dietro al quale sparisce anch'egli – e dove sono certo avrà praticato quei riti di decenza e pulizia che, sul corpo di un bambino, precedono la notifica all'autorità competente e l'arrivo del coroner. Un angelo, forse.


Non so se il fotografo dell'Associated Press abbia scattato queste foto d'stinto o razionalmente. Ma è certo che, come ha sottolineato Mario Calabresi, sono destinate a fare storia allo stesso modo di altre ormai abitanti il nostro immaginario collettivo. Risvegliano le coscienze assopite dal sapere che Aylan non è il primo a perire in simili circostanze e non sarà l'ultimo. Ci ricordano che in una comunità che si dice civile ed avanzata non si può morire a tre anni, solo, affamato, infreddolito, orfano, negli occhi l'orrore di una tragedia civile – la guerra - ed epica – il naufragio con la famiglia -, rinvenuti da un bagnino o da un turista, trasportati dalla corrente.
Quando la politica avrà trovato una soluzione “all'altezza della storia”, a noi tutti toccherà un compito di identica levatura: realizzare che, proprio per l'amore nei confronti dei nostri figli, a fronte di identica tragedia adotteremmo identica soluzione – certi che i nostri bimbi non meritino la fine toccata al piccolo siriano.
Sempre Calabresi, ha ricordato come la morte di Aylan Kurdi, tre anni, in fuga dalla guerra insieme alla sua famiglia, possa essere per ognuno “l'occasione per fare i conti sul senso ultimo dell'esistenza”.

Buona fortuna a tutti noi.