martedì 19 maggio 2020

MEN IN BLACK. Quando Mike Bongiorno intervistò i Depeche Mode.


Mike Bongiorno ed alcuni ripetenti inglesi nel 1983.
Premesso che, di questi tempi, niente e nessuno può più vantare una status di sacralità, di intoccabilità, di esenzione dalla critica o dal giudizio - sempre, beninteso, che coloro che intendono violare queste condizioni, un tempo dettate dalla tradizione e oggi semplicemente decadute, se ne assumano la piena responsabilità (“Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.”, Giovanni 8,3).
L'emergenza per il Coronavirus ha definitivamente spento in me ogni traccia di quello che ero fino a non molto tempo fa: una persona che, cresciuta in una casa dove il capofamiglia ogni santo giorno leggeva il Corriere della Sera dalla prima all'ultima pagina necrologi inclusi, ha creduto a proprie spese negli pseudovalori della modernità quali l'informazione e la rassegna-stampa (che è come dire la serie e il suo spin-off). Oggi la quotidianità mi sembra così meschina, inutile, priva di stimoli, da permettermi serenamente di ignorarla. “Too much information”, cantavano i Duran Duran nel loro disco più bello (e lo era veramente).
E così eccomi a vagare tra libri già letti, dischi già ascoltati, film già visti. Tutto pregevole, sia chiaro. Ma tutto nel regno del déjà entendu. Con un'unica eccezione: i milioni di video di repertorio presenti su You Tube.
In passato, gli storici, dai più modesti ai più autorevoli, risiedevano più o meno stabilmente, per motivi professionali all'interno di biblioteche, archivi, fondazioni, istituti privati o di stato, uniche menti in grado di unire in maniera intrinsecamente coerente la mole spesso straordinaria dei documenti custoditi dalle istituzioni citate. La storia che è stata impartita alla mia generazione (1970) è, in parte, frutto di quel tipo di attività storiografica.
Oggi, come molti di noi ben sanno, la storia ha, nelle persone, un peso ed una prospettiva ben diversi: la storia di cui ci nutriamo è infatti una storia mediata (filtrata, cioè, dai media, televisione e rete, in primis).
Può risultare sconcertante, ma per ciò che riguarda il costume, per quanto inconsciamente, siamo molto più influenzati da quella che è stata l'opera – chiamiamola così – di un Mike Bongiorno che da quella di un Italo Calvino (giusto per citare un nome che si pensa culturalmente influente).
Un esempio? Ecco qui.
Nel lontano 1982, l'anchorman più celebre d'Italia era titolare di un gioco a premi prodotto e trasmesso da Canale 5, che molti forse ricorderanno per il titolo dalla grande presa emotiva: Superflash. Era il tentativo - riuscitissimo – di espropriare la RAI del monopolio trasmissivo e produttivo, offrendo agli italiani televisivamente imberbi - ma già preda di un insidioso analfabetismo di ritorno - un polpettone fatto di attualità, cultura generale e spettacolo. Nel 1983, gli autori del programma invitarono alla trasmissione i Depeche Mode, giovanissimi e ancora sconosciuti, in Italia. Ma già il quartetto che di lì al 1996, cioè tredici anni più tardi, non avrebbe sbagliato un disco. Dopo l'esibizione, rigorosamente in playback come era d'uso nella televisione italiana dell'epoca, i quattro, timidissimi ed ignari di quanto sta per accadere loro, vengono dati in pasto al Mike nazionale per l'intervista di rito. Dati l'evidente gap generazionale e la sostanziale mancanza di seguito nel paese, Mike opta per il trattamento 'bimbiminkia'. In sequenza: si prende gioco della parlata di Dave (“Dave. Davide. Lui lo dice con un po' di accento.”); libera la propria omofobia chiedendo a Martin se è un ragazzo o una ragazza (“Are you a boy or a girl?”), salvo ritrattare (“I was kidding.”); si prende gioco della pettinatura di Andy (“Sembra Stanlio.”); elegge Dave a portavoce del gruppo, dando degli ignoranti agli altri tre (“Questo deve essere il ragazzo più intelligente dei quattro.”); pone domande imbarazzanti (“Siete ragazzi moderni, ma vi vestite di nero – che è tanto triste. Why don't you wear red, yellow, green?”) ed arriva financo a toccare incuriosito i capelli di Dave, con fare da padre-padrone. Il tutto in un misto imprevedibile di Inglese ed italiano che spiazza completamente i quattro rendendoli impotenti di fronte a quello che, suppongo, doveva essere apparso loro un anormale, e non un presentatore. Gran finale: “Altre cose non hanno, da dire, perché sono dei bravi ragazzi.”.
Cioè: dei 20'enni che si presentano, negli anni '80, ad eseguire un brano dal contenuto e dal suono di Everything Counts, per Bongiorno, altre cose non avevano, da dire (al contrario, immaginiamo a questo punto, di Bandolero con il suo Paris Latino od Irene Cara con What A Feeling, fenomeni da baraccone probabilmente sottoterra già da tempo e che proprio in quei giorni dominavano la Top 10 italica).
Ma erano, appunto, gli anni '80, e simili atteggiamenti ancora non erano entrati nel raggio d'azione del radar del politicamente-corretto (e a giudicare da quel che si vede e si sente oggi su certe emittenti, forse non vi sono davvero mai entrati).
È tutto visionabile qui di seguito. Ognuno può farsi la propria opinione. Ma, a costo di sentirmi dare del fascista, svengo al pensiero che qualcuno possa radicalmente discostarsi dal giudizio appena espresso.

Siamo sinceri. Senza voler giustificare chi si è reso artefice di momenti altrettanto imbarazzanti: non è questa la nefasta influenza che ha poi portato Adriano Celentano a trattare David Bowie da pari, Simona Ventura a saltare addosso a quest'ultimo, Fabio Fazio a farsi dare del Mr. Valium da Bono, Linus e Nicola Savino a rendersi ridicoli con i Duran Duran, Corrado Formigli a trattare Roger Waters da capo di stato e Daria Bignardi ad accogliere Marcello Dell'Utri come un premio Nobel, in una manifesta incapacità nazionale a condurre interviste davvero pregnanti, fatte di domande che pongano in vera luce i tanti artisti che pretendono il nostro ascolto più serio ed impegnato? Gli storici del costume e della televisione che in futuro affronteranno l'argomento di ciò che sono stati gli anni '80 in Italia - qualcosa mi dice -, dovranno obbligatoriamente visionare, su You Tube o presso le stesse emittenti, questa e molte altre figure barbine, e trarne le dovute conseguenze.
Agli storici, quindi, l'ardua sentenza.

domenica 10 maggio 2020

HEAVY METAL. Musica per la terza età.


Intorno ai quattordici/quindici anni, sono stato un metallaro. I tempi erano maturi: anagraficamente e cronologicamente. Eravamo giovani, e quelli erano gli anni dei Metallica, dei Mötley Crue, dei Judas Priest, di Ozzy Osborne, Skid Row, Scorpions, Anthrax, Slayer, Megadeth e molti altri. Per noi era un modo come un altro per differenziarsi ed apparire distanti il più possibile dall'incalzante buzzurrume pop, incarnato, allora, dai cosiddetti 'paninari', uno dei movimenti più tristi e deprimenti mai visti (noi metallari eravamo impresentabili, ignoranti, privi di uno stile codificato, una compagine di sfigati cronici, irrecuperabili e privi di scusanti, ma nulla al confronto di quello che erano i nostri nemici giurati, tutti vestiti uguali, visi color pantofola, sguardi da abuso sessuale skipass, macchina e moto carenate, atteggiamento rampante e genitore da avviso di garanzia).
Insomma, erano gli anni '80: “il peggior cazzo di decennio nella storia dell'uomo”. (Lo avete visionato, The Dirt? Fatelo.).
Ma oggi...
Essere un fan della musica heavy metal nell'anno 2020 significa tradire una vecchiaia interiore non solo di molto più deleteria rispetto a quella fisiologica, esteriore, ma anche, in omaggio all'attualità, del Coronavirus - del quale si parla oggi con la stessa frequenza che si impiegava per 'quelli di San Babila' al tempo di Drive-In -, oltre ad una condizione mentale compromessa in termini di sviluppo, irrecuperabile. Credere oggi in ostentazioni come il petto villoso, il bicipite tatuato, il sudore perenne, il capello lungo, le urla in falsetto, la chitarra come estensione del pene, l'assolo obbligatorio, la fidanzata formato playmate, il volume alto, il dito indice puntato in camera, le corna, il satanismo prêt-à-porter, la borchia e, insomma, tutto quell'apparato macho da fare invidia persino a Freddy Mercury – che quanto ad esteriorità non era certo a corto di espedienti –, significa davvero essere 'fuori dal tempo', come gli iscritti al Partito Comunista o a Comunione e Liberazione. Come chi celebra ogni anno la marcia su Roma e crede che se ci fosse ancora Mussolini tutto funzionerebbe. O come quegli incancreniti che periodicamente si sentono in dovere di ricordare noi che “i gruppi di una volta non ci sono più” (letteralmente, anche perché in alcuni casi specifici, decessi multipli sono stati registrati all'interno della formazione).
La musica heavy metal - ed il fenomeno di costume che ne fece da corollario - ebbe in effetti questa specifica funzione: opporsi strenuamente a tutto quel proliferare di sintetizzatori, leggins, giacche con spalline, spolverini, mosse aerobiche, atteggiamenti pseudoeccentrici e monopolio della fica che, sì, portò al successo su scala planetaria intrattenitori vacui come Pet Shop Boys, Culture Club, Spandau Ballet, Duran Duran, Spin Doctors, Visage e compagnia bella, gruppi il cui ricordo suscita ancora un imbarazzo a volte isterico; ma anche Depeche Mode, U2, The Cure, P.I.L., The Smiths, formazioni che, proprio negli anni '80 produssero dischi dallo stile e dal suono arditi e innovativi, lavori che avrebbero avuto un'influenza forte su alcune delle migliori formazioni del decennio successivo (si pensi, solo per citarne alcuni, a Nine Inch Nails, Radiohead e Blur), e che proprio i metallari bellamente ignoravano, quando non addirittura disprezzavano, sebbene non ne avessero ascoltato, in realtà, una sola nota (era una dinamica da scontro tribale: non aveva importanza, la sostanza delle cose, ma la loro provenienza, se da una determinata compagine o da un'altra).
(Consiglio a tutti coloro che intendano davvero dotarsi di una visione di quello che fu effettivamente il movimento heavy metal, il film Lords Of Chaos di Jonas Åkerlund, che, sebbene ambientato nei primi anni '90, ben rappresenta le aberrazioni prodotte dagli abusi del decennio precedente.).


Rivendicare oggi lo heavy metal per quello che sarebbe tutto il suo portato galvanizzante, sia in termini estetici che testuali – diciamo così: filosofici -, denota una sordità, da parte di coloro che ne assumono l'azione, che non interessa solo l'apparato uditivo, ma anche, per estensione, il cuore e l'anima. Essere sordi, per i motivi appena citati, a brani quali A Day Without Me, Shake Dog Shake, Never Let Me Down Again, How Soon Is Now, Rise, solo per citarne alcuni, significa privarsi di alcuni tra prodotti artistici più interessanti e profondi di quel decennio da tutti conteso e rivendicato che fu la decade '80-'90. I brani appena elencati, vennero prodotti con grande sprezzo per industria discografica, cioè contro il parere di quei produttori che proprio allora vedevano nello heavy metal una nuova, ricca miniera d'oro da sfruttare fino all'ultima pepita, e che allo stile di quelle canzoni avrebbero sicuro preferito un prodotto più vicino a quelli di Madonna o, per convenienza commerciale, Iron Maiden (ufficialmente, gli sdoganatori del genere).
Non è sufficientemente galvanizzante, l'esempio di chi ebbe il coraggio di “dire quei 'No!' che, oggi più che ieri, sono imprescindibili”?
Fu quando compresi tutto ciò che smisi di essere un metallaro.

P.S. La bellissima citazione tra virgolette in chiusura, è di Wu Ming I.

sabato 2 maggio 2020

ESPERIENZE RELIGIOSE AL BAR MARIO. Radio Freccia alla ricerca dell''endorsement' culturale.


Un genio dal cuore grande:David Foster Wallace (1962-2008)
Radio Freccia nasce nel 2016 sulle ceneri di Radio Padania Libera, dopo che il 'direttore' di quest'ultima (l'Onorevole Matteo Salvini) ed il suo 'staff di specialisti' (uno spedizioniere di Lambrate e il di questo cugino), realizzato (momento di rara lucidità) che gli ascolti erano 'un po' giù' (praticamente me e gli iscritti alla Lega, ma non tutti) ne immisero le frequenze sul mercato.
Radio Freccia si ispira, almeno nelle intenzioni, all'atteggiamento piacevolmente anarchico delle cosiddette radio libere che caratterizzarono l'etere nazionale nella seconda metà degli anni '70. Nello specifico, all'estetica di quel tempo come sorprendentemente messa in scena nel film omonimo di Luciano Ligabue, risalente, ormai, a ben 22 anni fa (non un capolavoro, sia chiaro, ma neanche una prova deludente ed imbarazzante quale fu, poi, sull'onda dell'entusiasmo per i buoni risultati del film d'esordio, Da Zero A Dieci). I punti fermi dell'emittente sono, quindi: una rivendicata, anacronistica libertà di parola, un repertorio in linea, quanto più possibile, con quello dei '70, e un comparto di conduttori particolarmente ciarliero. Fin qui, nessun problema. È come leggere l'etichetta dei prodotti del supermercato e trovarvi corrispondenza all'assaggio. Non fosse che, ieri l'altro (29 aprile), uno dei conduttori, rispondente all'ambiguo nome d'arte di Nessuno, ha cercato, penso inconsciamente, l'endorsement culturale (di chi, poi, non si sa) citando, malamente, David Foster Wallace, e pure invitando gli ascoltatori a leggerne un titolo specifico (Roger Federer Come Esperienza Religiosa). A motivare cotanta proposta, la banale, fortuita corrispondenza tra il giorno della messa in onda del programma (Terra di Nessuno), il compleanno dell'ex campione di tennis Andre Agassi e la scoperta – si ignora se da parte di Nessuno o da quella della redazione - della grande passione che lo scrittore statunitense nutriva per questo sport. Ciliegina sulla torta: l'invito da parte del conduttore ad affiancare il testo di Foster Wallace a quello autobiografico del sopracitato Agassi, Open, in un involuto esperimento di letteratura comparata. Ciliegina che, purtroppo per gli autori dell'emittente – ammesso che ve ne siano –, si è subito trasformata in buccia di banana. Vero e proprio fagocitatore di libri, Foster Wallace aveva ammesso che, di questo tipo di pubblicazione - ”l'autobiografia di un-campione-«con»-qualcuno” - ne aveva “comprati e letti a bizzeffe”, ma sempre “mettendoli sotto qualcosa di più intellettuale” quando andava alla cassa. Li trovava “ambivalenti e imbarazzanti”, per quanto spesso risultavano scritti male, dichiarando persino che la lettura di quella del suo idolo, la tennista statunitense Tracy Austin, aveva, per i succitati motivi, “definitivamente estinto” la sua passione per il genere. Potete trovare tutto questo nella raccolta Considera L'Aragosta, insieme ad altri scritti di così alto livello da restare a bocca aperta. Che Open sia successivo alla scomparsa di Foster Wallace, non cambia di una virgola queste considerazioni.
Sono certo che Foster Wallace non sarebbe esattamente a proprio agio nello scoprire che uno come me ha preso le sue difese. Sono stato uno studente mediocre; ho sviluppato l'abitudine alla lettura e alla scrittura solo in età adulta; non sono andato all'università; non ho mai praticato il tennis; sono venuto a conoscenza degli effetti devastanti della depressione solo dopo aver sposato una psicoterapeuta, ed ho letto la sua opera quando già si era impiccato da tempo. Ma questo sporco lavoro, qualcuno dovrà pur farlo – visto che certe sparate rimangono puntualmente impunite.
Quello che mi ha dato fastidio, nell'imbattermi in un consiglio di lettura così strabico, è stato non tanto il livello della proposta (non c'è motivo di adirarsi di fronte ad una proposta 'alta', specie se fatta con autentica passione di lettore) quanto il contesto che l'ha partorita. Basta un ascolto casuale dell'emittente per rendersi conto che la lingua ed i temi del giorno (a volte persino assenti, sostituiti da quel chiacchiericcio che proprio Foster Wallace aveva rinominato come 'fuffa') non sono esattamente una priorità. Refusi grammaticali e sintattici, solecismi, vocabolario basic, frequente afasia, abuso dell'onomatopea, dosi pesanti di metano linguistico. Da parte della conduzione come degli ascoltatori (una sola eccezione: la presenza in squadra di Roberto Pedicini, alias Bob Revenant, voce che ha reso ancor più straordinari alcuni dei film più belli degli ultimi 25 anni). Foster Wallace – è utile ricordarlo – era un genio dal cuore grande, ma pur sempre un secchione dagli ottimi voti, a partire dalle elementari fino al dottorato, figlio di insegnanti e, a sua volta, professore di letteratura. Un integralista della lingua, quasi un ossessivo, attentissimo nella scelta delle parole come dei temi - sempre partendo dal presupposto che si debba aprire bocca solo avendo chiara l'urgenza dentro di sé di qualcosa da dire. Uno scrittore che poco dopo i 30'anni aveva realizzato uno dei libri più importanti e straordinari di sempre.
Ecco. Vivere di sciatteria linguistica, perché più facile, easy, poco impegnativo; impiegare il lessico da Bar Mario  dell'autore di Radio Freccia per rivolgersi ad una audience che quella lingua solo parla e conosce, ma poi citare e financo consigliare Foster Wallace perché 'fa figo', è presuntuoso, urticante ed inaccettabile.

martedì 28 aprile 2020

FUORI DAL TEMPO. Dario Brunori canta O Bella Ciao.


Dario Brunori prova i canti per la messa delle 10:00.
Brunori sa! È financo sancito dal titolo del programma televisivo dedicatogli, un po' di tempo fa, da Rai 3 (ma va da sé che, ormai, a Rai 3, basta l'inchino alle persone giuste – giuste per il momento, beninteso – e le sue porte si spalancano come per magia, vedi il caso Recalcati). Sa così tante cose, Brunori, che ieri l'altro, 25 aprile, una volta svegliatosi, ha realizzato subito quale era, quella giusta da fare: strimpellare O Bella Ciao in diretta streaming (me lo si lasci dire: una delle canzoni più tristi e deprimenti mai sentite, roba che, al confronto, i primi Cure erano degli allegroni). Un bel messaggio in codice che, se va bene, garantirà al nostro un futuro di facili contratti – magari propiziati dagli amici del 'terzo canale'.
In verità, Brunori non sa un cazzo. Non sa niente di niente. Fidatevi di me. Brunori non è il guru che certi intellettuali danno a credere: Brunori è uno skipper, un talento innato, cioè, nel capire alla prima annusata la direzione del vento per la giornata odierna. Quelli come Brunori si ispirano - o, quanto meno così vogliono farci credere - ai valori di coloro che fecero la Resistenza (breve ripasso: un gruppo numericamente modesto di patrioti divenuto massa, sul finire della guerra, quando i più capirono che 'quei pochi' – i partigiani – stavano arrivando con i 'i tanti' – gli alleati – seriamente intenzionati, gli uni di concerto con gli altri, a regolare i conti una volta per tutte). In quale modo i valori del 1945 si adattino, secondo le logiche brunoriane, ai tempi odierni, non è dato capire (nel video, il nostro, non spiffera parola). Primo perché i giornalisti deputati a ciò (vedi alla voce 'critici musicali') se ne guardano bene dal chiederlo - sia mai che salti loro il posto, per cotanto azzardo. Secondo perché, da parte dei pochi coraggiosi rimasti nella categoria, c'è la quasi assoluta certezza che la risposta eventuale ad un simile quesito sarebbe un verso di O Bella Ciao, magari con corredo di strimpellata di chitarra, o, peggio, qualche fumosa risposta, tutta da interpretare. Qualcosa di simile alla scena spassosissima de La Grande Bellezza, quando il protagonista, Jep, intervista la performer Talia Concept chiedendole di spiegare la propria arte, senza ottenere alcunché. “Senta... Io di lei, finora, ho solo fuffa non pubblicabile. Se lei pensa che io mi lasci abbindolare da cose tipo: 'io sono un'artista e non ho bisogno di spiegare' è fuori strada.”. In un paese culturalmente diverso da quello in cui viviamo, questa sarebbe la giusta risposta alle strimpellate in luogo di chiare prese di posizione.
Nonostante un mondo flagellato dalla pandemia, dallo spionaggio incondizionato, dalla manipolazione dell'informazione, dalla disillusione pressoché totale nei confronti della politica tutta, dalle guerre intenzionalmente agite sui cilvili, dalla corruzione imperante, dagli indici borsistici come termometro del benessere globale, dalle diseguaglianze di ogni sorta, dall'analfabetismo di ritorno e dalla morte per fame, ecco: la risposta di uno come Brunori, reputato mente sopraffina e rappresentativo della sua generazione, è O Bella Ciao. È la risposta a tutto di quelli come lui: vecchi, inadeguati, fuori dal tempo. Ma, checché se ne dica, rappresentativi, più che della generazione cui appartengono, del nulla di un paese che da 75 anni festeggia come una vittoria il giorno nel quale perdette la guerra. Cantano le gesta di patrioti che erano, presumibilmente, quanto di più lontano vi sia, stilisticamente ed eticamente, da soggetti come Brunori (che, a giudicare da certi discorsi che si sentono oggigiorno, non sono pochi). Ignorano – o fingono di ignorare - quasi del tutto le opere e le parole di uomini e donne straordinari quali Edward Snowden, Laura Poitras, James Natchwey, Daniel Baremboim, Bruce Dickinson, Sebastião Salgado, Chesley Sullenberger, Mohamed Ben Kilani, Johnny Greenwood, Ken Loach, Gherardo Colombo e molti, molti altri.
Ha ragione Michele Monina, che di Brunori ha scritto: “Sentire brani che sembrano provini, per come suonano e per come sono composti, infastidisce. Si capisce che sarebbero potuti diventare altro, decisamente meglio, e che invece no, ci si è fermati subito, perché tanto si è naif, va bene così.”.
Questo è l'indie, in Italia. Un'opportunità come un'altra per godere di visibilità e delle sue supposte benefiche conseguenze.
L'arte al servizio del principe.
Come sempre.

sabato 25 aprile 2020

TU SÌ QUE VALES! Il talento di Morgan rimosso dall'invidia.


Morgan nel videoclip di Sono=Sono.
Ci sono storie che hanno bisogno di essere raccontate. Il semplice dare loro un'esposizione, quanto più possibile dignitosa, spesso permette a chi le ascolta o legge di capire un po' meglio le persone e gli eventi della vita. Questa è una di quelle storie.
Quando penso a Marco 'Morgan' Castoldi, l'immagine che sempre mi si presenta è quella di una persona sofferta, devastata dagli eventi della vita, ma soprattutto di un talento cui è sfuggito – pare definitivamente – il controllo. Un talentuoso divenuto, suo malgrado, la caricatura di se stesso, e che, ad oggi, fa parlare di sé più per motivi di costume che per la propria arte.
Eppure non è stato sempre così (urge ricordarlo, in quanto la sua prima incarnazione artistica, come leader dei cerebralmente morti Bluvertigo, sembra completamente dimenticata, a favore di quella ultima, tardo maudit).
Detto per i tanti 'banfoni' o 'sboroni' – a seconda del posizionamento longitudinale sulla penisola –, e che stagionalmente, da decenni, si riempiono la bocca di elogi sperticati per i grandi dischi della storia del rock, senza  cognizione di causa alcuna (spaziando spudoratamente dai primi Pink Floyd agli ultimi Metallica, come fossero accostabili): Morgan è il nome – ed il nume – dietro uno dei dischi più belli della musica italiana, e non solo, di tutti i tempi. Un lavoro serenamente accostabile a The Dark Side Of The Moon, Low, Black Celebration, Broken, Kid A e, per restare in casa, Crueza De Mä e Anime Salve. Il suo titolo è Zero (Ovvero La Famosa Nevicata Dell'85). Riascoltandolo in questi giorni di clausura, sono rimasto sorpreso al constatare che il piacere e la meraviglia per questo disco erano ancora quelli della prima volta.
Uscì nell'ottobre del 1999. Un mese prima,Trent Reznor, con il suo progetto Nine Inch Nails, aveva pubblicato The Fragile, disco seminale nella storia della registrazione digitale, della ricerca sonora e dell'elaborazione del suono. Soluzioni alle quali Morgan e i suoi non potevano aver attinto per questioni cronologiche (all'uscita di The Fragile, Zero era praticamente già missato), ma che risultano tutte presenti negli straordinari sedici brani del disco.
Zero è quanto di meno scontato e provinciale si potesse sentire al tempo – ma, a ben vedere, anche oggi, e questo dovrebbe far riflettere su cosa, da allora, è stato effettivamente prodotto in Italia. Fu un disco deludente sotto il profilo commerciale, perché rifiutava di parlare alle pance non solo degli appassionati di musica italiana, ma persino a quelle del proprio seguito - rivelatosi, in questo modo, come il classico bacino desideroso di perpetuare all'infinito i momenti cosiddetti belli, e, di fatto, ostacolo ad ogni movimento di crescita. Portò in Italia un suono che non esisteva, tematiche che non venivano affrontate, una commistione di generi e stili fino allora sconosciuta, un'attenzione maniacale al dettaglio che si pensava esclusiva di altri ambiti nazionali. La potenza e la limpidezza estreme della registrazione sono tratti che ancora colpiscono, all'ascolto. Morgan, quando interrogato a proposito di questo disco, ama scherzare dicendo, michelangiolescamente, che ignora come abbiano potuto, lui e i suoi Bluvertigo, farlo così bello. Sano amore genitoriale per la prole, praticamente. Ma che tradisce quella che fu, già allora, la percezione inconscia, da parte dei membri del gruppo, riguardo l'impossibilità di superarsi, dopo un simile traguardo. Quanto meno, in quella veste.
Questo, è stato Morgan. Prima delle Canzoni Dell'Appartamento. Prima di X Factor. Prima di diventare – ahinoi – spiacevolmente afono. Prima di arrivare ultimo al festival di Sanremo. Prima di mutarsi in oggetto del gossip. È stato l'autore di un disco al quale chissà quanti, in gran segreto, hanno attinto, nelle tante giornate prive di ogni traccia d'ispirazione. Un disco talmente perfetto che persino l'arrangiamento dell'unica cover presente (Always Crashing In The Same Car, di David Bowie) è stata impiegato dal suo autore in luogo dell'originale.
Ed era questo anche prima di essere mandato a fare in culo da uno come Bugo.
Per tornare ai giorni nostri, colpisce vedere Morgan costretto a reagire in maniera adolescenziale ai capricci di uno che, molto probabilmente, nemmeno sa con chi ha a che fare. Onestamente: cosa pensereste di un giovane musicista che tratta con sufficienza, per esempio, Roger Waters, dopo che questo gli ha dato dei consigli paterni e preziosi? Direste che se ne deve guardare dal trattare in quel modo uno che ha partorito per intero The Dark Side Of The Moon, ed imparare al più presto ad essere umile – giusto? Sincero sembra una canzone che - per come percepisco Morgan dal punto di vista artistico - l'ex Bluvertigo deve avere scritto ed arrangiato in un'ora, poco più. E nonostante ciò risulta superiore a tutta la merda sentita prima e dopo.
Ringrazia il cielo, se sei su questo palco / Rispetta chi ti ci ha portato dentro / ...”.
Sono i versi modificati che hanno fatto saltare i nervi a Bugo.
Scommetto che, in casa, non ha nemmeno un disco dei Bluvertigo.

martedì 21 aprile 2020

ONE WORLD. L'ipocrisia senza limiti delle 'star' del 'pop'.


Senza parole.
So di insistere non poco sul tema, come fosse una questione di vita o di morte. Come vi fosse, in questo, qualcosa di personale (e qui, un fondo di verità, c'è: da giovane, volevo fare il musicista, ed ancora, nei momenti di delirio, mi crogiolo in questo sogno divenuto velleità). Ma trovo sconcertante che, tra le notizie che si suppongono di rilievo, in questo momento di emergenza, trovi posto la “lettera d'amore per il mondo” (così è stata definita One World nel giornale-radio di Radio Rai 3) di Lady Gaga, Rolling Stones, Andrea Bocelli, Zucchero Fornaciari, Elton John, Paul McCartney, Stevie Wonder, Chris Martin, Billie Eilish, Michael Bublè, Eddie Vedder, Bruce Springsteen ed altri grattaculi dello spettacolo. Sconcertante che un notiziario dia voce a simili figuri. Sconcertante che si possa credere alla sincerità, al disinteresse di una simile iniziativa. Così come è sconcertante realizzare quanto inappagabile sia la sete di fama, di riconoscimento, di gratificazione personale, di visibilità da parte di artisti il cui successo non è certo in via di consolidamento, bensì acclarato (in alcuni casi, da decenni). Prendete i Rolling Stones. Un gruppo nato con i Beatles, la cui ricerca sonora si è fermata nei primi anni '70, e che, una volta azzeccata la formula, si è trascinato indifferente lungo i decenni senza più partorire una nota o una parola con un minimo di rilievo, ma sempre, costantemente salutato dal successo. Ci si aspetta che persone così si sentano professionalmente soddisfatte: tasche e pance piene, riconoscimenti planetari anche a fronte di prodotti vergognosi, contratti pubblicitari milionari e sempre, costantemente sulla cresta dell'onda. Cristo: hai quasi 80'anni. Avrai voglia anche tu di andare in pensione, dopo un vita di rock 'n roll, no? Di rinchiuderti in un anziano silenzio da rendita milionaria. No. Sono così dipendenti dagli omaggi che un seguito di babbei ha tributato loro attraversando due generazioni, che anche nel mentre si cambiano il catetere, loro scrivono - si fa per dire – la “lettera d'amore al mondo” (si noti, qui, l'impronta magalomaniacale: per un pubblico al di sotto del miliardo di persone, questi, non muovono un dito). Perché senza quel mondo – e qui sta la mia tesi -, senza quell'idea di consenso planetario costante, senza la tranquillità conferita dalla certezza dell'ovazione anche a seguito di una scorreggia nel microfono, lor signori non riescono a fare nulla, neanche prendere in mano una penna. Nessuno sembra realizzare che questi esseri decrepiti ci parlavano – per modo di dire – negli anni '60 e pretendono di fare lo stesso anche oggi, con in più la presunzione di avere ancora qualcosa di buono da dire, di essere autorevoli, come un premio Nobel che parla a distanza di anni. Con tutto quanto si può dire, in termini critici, di Massimo Recalcati autoproclamato fan di Matteo Renzi e, subito dopo, titolare di un programma su Rai 3 sostanzialmente incentrato sulla propria persona, è sua la tesi, che pienamente condivido, sui padri incapaci di consegnare ai figli un'eredità, sia essa spirituale, materiale o composta di entrambi gli elementi, perché incapaci a compiere quel passo indietro senza il quale non c'è trasmissione che possa avvenire (certo: la tesi, se pensiamo ora in cosa è consistito il renzismo, è capziosa, ma rimane, a mio parere, assai condivisibile, e la si può trovare nel libro-intervista Patria Senza Padri). “Uscire di scena, saper tramontare, è la saggezza più grande perché rivela la capacità di non credere troppo al proprio Io, a quell'Io che crediamo di essere e che Lacan definiva come la 'follia più grande' dell'uomo.”. Tesi non facile, se si è a corto di concetti di psicoanalisi, ma estremamente esatta, mi permetto di dire. Gli Stones sono i padri abbarbicati alla chitarra e alla cassaforte, determinati a non mollare né la prima né, tantomeno, la seconda. I fan e gli organi di informazione (ormai puntualmente acritici e prostrati ad ogni sorta di logica commerciale) i figli destinati a ricevere da questi padri, quando sarà il momento, null'altro che una manciata di polvere. Il discorso vale, naturalmente, per tutti gli altri. Molti hanno rappresentato un'epoca: gli altri, più semplicemente, una o due stagioni della nostra vita, se va bene. Nessuno – dico: nessuno – ha però il merito – la grandezza – di averci consegnato parole che possano oggi, in questa emergenza planetaria, costituire un approdo di senso e quindi dare conforto alle tante vite più o meno devastate da quanto sta accadendo. Quello della pietà rappresenta il più ignobile dei ricatti: vuoi salvare il mondo dal Coronavirus? Seguici – dicono gli artefici di One World -, e noi aiuteremo i poveri medici ed infermieri che lo stanno combattendo. Per inciso: gli stessi medici ed infermieri che in questi venti e più anni hanno fronteggiato, nell'indifferenza di lor signori, impegnati come erano nella promozione dei loro rispettivi spettacoli e in infiniti eventi legati a questi, emergenze sanitarie ed umanitarie devastanti, molto spesso in prima linea. Che nessuna voce critica si alzi per biasimare questi professionisti dell'ego, è un dramma culturale di portata pari all'epidemia in corso.

lunedì 13 aprile 2020

LA MUSICA CHE GIRA INTORNO. I concerti in 'streaming' durante l'emergenza Coronavirus.


Thom Yorke nel video per 'No Surprises'.
Mi siano concesse alcune parole riguardo a quello che reputo il più eclatante sciacallaggio di questa emergenza: i concerti in rete delle cosiddette stelle della musica, ovvero l'ennesima occasione per godere di visibilità a spese di chi è davvero in difficoltà.
A volte penso che non esista calamità naturale alcuna, quale è da considerarsi, presumibilmente, la pandemia in corso, che possa ridurre una celebrità della musica al silenzio. Lasciamo perdere i politici e gli ospiti di professione i quali rappresentano il fronte patologico del fenomeno. Un musicista si pensa sia capace di silenzio, di ritiro, di eccezionale introspezione, quanto meno per favorire il proprio processo creativo. È pertanto sconcertante constatare come, in tempo zero, lo star system, del tutto noncurante del reale impatto che lo stop alla maggior parte delle attività umane sta avendo sulle persone, si sia attivato per ammorbare giornate già difficili di loro con le dirette dei professionisti indiscussi della canzonetta – probabilmente convinti che dalle loro ugole e strumenti fuoriesca sempre e solo la perfetta colonna sonora di ogni momento dell'umano vivere.
Da ormai un mese, gli onnipresenti Jovanotti, Gianna Nannini, Laura Pausini, Modà, Nek, Marco Masini, Coma_Cose, Brunori Sas, Francesca Michielin, Fiorello (!), Emma Marrone, Fedez, Tiziano Ferro, intrattenitori che reputano la propria esperienza artistica – si fa per dire – come indispensabile, rubano capacità al web, convinti, come probabilmente sono, che persino immersi negli aspetti letali di questa emergenza noi si senta il bisogno del loro particolare, specifico, insostituibile conforto (suppongo vi sia, in effetti, qualcuno che ne avverte la necessità, nel cui caso è chiaro che il Covid 19 risulta come il minore dei mali). Non un aiuto concreto: quattro accordi di chitarra e via: la vita torna a sorridere come per incanto.
Pertanto, quando mia moglie mi ha riferito, ieri l'altro, dell'iniziativa di Thom Yorke e soci – ovvero quella compagine straordinaria che va sotto il nome di Radiohead - di intrattenere la popolazione mondiale in reclusione da Coronavirus per mezzo di concerti settimanali - notizia che mi era sfuggita e per la quale le sono estremamente grato -, ho avuto un attimo di sorpresa. Per come li conosco, mi sembrano persone non accecate dall'enorme successo conseguito, con ancora i piedi a terra, riservate in maniera non patologica ed intelligenti. Caratteristiche che mal si attagliano a chi opta per una simile iniziativa (Ennio Morricone, ad esempio, ha affermato in un'intervista che, in questo periodo, difficile in particolar modo per una persona della sua età, non c'è musica nelle sue giornate, non gli sembra che il contesto consenta in alcun modo di godere di essa, ritenendo invece più adatto un silenzio improntato alla riflessione). Ho quindi subito verificato i dettagli di questa notizia, scoprendo con grande gioia che, in realtà, il quintetto inglese ha semplicemente contribuito ad un aumento del ventaglio di scelte di prodotti in streaming rendendo disponibili gli integrali di alcuni loro concerti risalenti anche a 20 e più anni fa, così risparmiandoci vergognose dirette da salotti di casa grandi come campi da pallavolo (Bruce Springsteen ed Elton John), strimpellate da oratorio (Nek) o imbarazzanti cantate pseudoreligiose da cattedrali deserte (Andrea Bocelli). Con l'ironia che li contraddistingue (facile, devo ammettere: i loro colleghi sono così stronzi da far apparire cordiale persino Donald Trump), hanno subito espresso incertezza riguardo a cosa giungerà prima a conclusione: se il loro archivio o la reclusione da pandemia. Ben detto! E così hanno presentato il primo concerto di questa serie, registrato nell'autunno del 2000 in una tensostruttura nella campagna fuori Dublino, e coerentemente intitolato Live From A Tent. La band vi appare ritratta in uno dei tanti, irripetibili momenti che hanno caratterizzato, specie nel primo decennio di vita, la loro evoluzione artistica: la tournée per la promozione di Kid A, un disco che, bellezza a parte, rifiutava di parlare alle pance del seguito più fedele del gruppo – al tempo già numerosissimo – per rivolgersi, invece, alle proprie, per dare libero sfogo ad un'appetito creativo che, considerati i risultati, mordeva da tempo. Una coraggiosa scelta registica riprende i cinque musicisti con la tecnica del circuito chiuso, conferendo a molte delle esecuzioni un carattere distopico, orwelliano. La giovane età di ognuno traspare ad ogni ripresa, e commuove come tutte le cose e le persone di un tempo passato. Su tutte, le immagini del bassista Colin Greenwood - quella sua tipica postura con il fianco al pubblico, timido, sorridente, concentrato, immerso nella bellezza della propria musica - sono di quelle che rimangono. Il concerto è a dir poco perfetto, ed il brano che ne costituisce l'apertura, The National Anthem, è qui, a mio parere, nella sua più bella resa sonora di sempre. Davvero un'esperienza da non perdere, credete (sempre che amiate la musica e non siate semplicemente bisognosi di uno 'spaccatempo'). In altre parole: consapevoli che molte delle cose che avevano da dire erano già state espresse in molti dei lavori precedenti questi anni, non hanno fatto che riproporli. Ecco tutto.
Alla ricerca disperata di una lettura in grado di dare senso alle cose non solo di questi giorni, mi sono imbattuto, con grande fortuna, nel bellissimo editoriale che Lester Bangs scrisse all'indomani della morte di John Lennon. È uno scritto di disarmante sincerità, capace, in poco più di una pagina, di esprimere, oltre al dolore per la perdita di 'un grande uomo' e per la fine senza sequel di un sogno all'epoca già vecchio di due lustri, il disagio per il travisamento che gli stessi che lo piangevano avevano operato sulla sua figura. Un artista che, ricordiamolo, lasciati i Beatles (non esattamente un passo alla portata di tutti), aveva optato per una lunga assenza dalle scene, ritenendo di non avere, quanto meno in quel momento, qualcosa da dire. In altre parole, e per riagganciarci al discorso di partenza, John Lennon, seppur nella sua grandezza, non si riteneva indispensabile, al contrario dei tanti marchettari che in questi giorni intasano la rete con il proprio ego ed il proprio vuoto artistico.
Meditate, gente.
Meditate.