domenica 7 novembre 2021

LIBERI DA CHE COSA? Radio Freccia e la musica di Kurt Cobain.

Kurt Cobain non era una persona maleducata: era una persona disperata e sincera. Il materiale video che lo ritrae in contesti non performativi - oggi disponibile in rete in quantità industriale, per quanto non sempre di buona fattura – ne fornisce una testimonianza palpabile e a tratti struggente - almeno per coloro che lo hanno davvero amato, come artista e come persona.

Non ho motivi per assumere in questa sede – come, d'altronde, in qualunque altra - la difesa di una rockstar che, per quanto leggendaria e financo defunta (o forse leggendaria, per i più, proprio perché defunta), ha sempre saputo tutelare autonomamente la propria persona semplicemente assumendo, a seconda dei frangenti, atteggiamenti schivi quando non freddamente o smaccatamente ironici (per capirci, ad un giornalista che si era permesso di chiedergli se gli piaceva la vodka, riducendolo in tal modo, seduta stante, da artista ad enologo, rispose senza preamboli ne chiose: “I like vodka”).

Ne ho invece diversi, di motivi – e qui sta il punto -, per attaccare a testa bassa i tanti che, in terra italica, ne strumentalizzano da tempo la memoria facendo leva, principalmente, su due punti: l'ignoranza olimpionica di quest'ultima generazione - cui tutto può essere raccontato, certi di vedervi tributato il suo solito, apatico credito - e la distanza trentennale che separa questi tristi giorni dall'opera e dalla scomparsa di Cobain – fattore respingente cui solo una buona memoria nell'ambito del costume e della cultura pop è in grado di opporsi.

Nutro una vera e propria ossessione, per quelli di Radio Freccia, un po' come la sinistra pidina con Berlusconi ai tempi d'oro di quest'ultimo (i tempi d'oro del PD non li ricorda probabilmente nemmeno Enrico Letta). Si spacciano per gli alternativi, portatori di una non meglio specificata esperienza di vita, puntualmente ventilata ad ogni jingle, manco fossero reduci da una guerra o da una turnazione con Emergency. E lo fanno bellamente in un contesto, quello dell'emittenza-radio nazionale, dove è completamente assente ogni vera alternativa o forma di concorrenza (a meno di non considerare come tali stazioni-radio quali Radio Capital o Virgin Radio), uomo solo al comando.

Quest'anno ricorre il quinto compleanno di Radio Freccia. Per festeggiarlo, è stata realizzata una serie di spot audio-video nei quali gli autori dell'emittente (ma esistono davvero? E chi sono?), al suono di alcune tra le più significative canzoni di Cobain e dei suoi Nirvana, hanno inserito le peggiori fregnacce che si potessero imbastire in una simile occasione ed in un simile contesto.

Ecco di seguito, in esclusiva per i sempre più radi lettori di Sala Colloqui, alcune delle cialtronerie di cui sopra, e, fra parentesi, i titoli dei brani ai quali sono state impunemente associate. Giudicate voi (sintassi e punteggiatura a cura della spettabile azienda Radio Freccia).

  • Ci conosciamo bene. Siamo sintonizzati sulla stessa frequenza. [Radio Freccia] Libera come noi (In Bloom).

  • Per noi la libertà è una cosa diversa. … liberi di guardare un film che racconta una storia che non hanno il coraggio di vivere (Polly + Smells like Teen Spirit).

  • Ci vuole fegato per vivere in questo mondo folle... ci vogliono un sacco di cose per vivere in questo mondo folle. A darti il rock ci pensiamo noi. Riesci a prendermi, vita? Se non ci riesci, è perché ballo forte. E se non ti stringo la mano, è perché ce le ho entrambe per aria (In Bloom).

  • È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo (Breed).

Mi immagino, qui, Cobain con il fucile in mano, qualche attimo prima di spararsi in testa. E che quelli di Radio Freccia (gli 'sfrecciati', come amano definirsi), per un caso fortuito, stiano passando davanti a quell'americanissimo ed alquanto comune capanno per gli attrezzi, così cogliendo Cobain proprio nel mentre sta puntando il fucile. Cobain li vede, lancia loro uno sguardo supplice, implora davvero per l'ultima volta di dargli una buona ragione per non farlo, la speranza che vi sia ancora una soluzione da tentare. E loro: - Kurt, no! È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo.

BUM!

Molte delle canzoni di Cobain – ed in particolar modo quelle impiegate da Radio Freccia per suoi recenti spot celebrativi – sono caratterizzate da un'impostazione sostanzialmente non-ideologica, amorale. Non impartiscono lezioni né, tantomeno, hanno la pretesa di costituire viatici à la carte per qualsivoglia tipo di condotta. Sono piuttosto canzoni impregnate di sofferenza, di disincanto, di ironica amarezza – tratti, questi, facilmente riconducibili ai trascorsi abbandonici vissuti da Cobain in infanzia e buona parte dell'adolescenza. Giovanilismo, disagio psichico, esclusione, la disperazione nello sguardo altrui, la ricerca di un briciolo di sincerità nei rapporti umani, sono tutti aspetti del vivere che proprio le canzoni di maggior successo dei Nirvana hanno fatto risuonare in animi spesso spenti e indifferenti – non esclusi quelli di molti fan -, attraverso la voce rabbiosa, a tratti implorante, di Cobain – e va da sé che quel che cantava era fuor di dubbio sé stesso, la sua visione nera e bipolare della vita. Ecco: nessuno – dico, nessuno – di questi temi è in alcun modo riconducibile agli arbitrari e manipolatori montaggi operati dalla redazione di Radio Freccia. Il loro messaggio – sempre che si sia disposti ad individuarvene uno od anche più – è qui integralmente distorto a fini meramente autocelebrativi e commerciali (commuove, nel tentativo di dare seguito a quest'ultima considerazione, il ricordo dello scatto del fotografo statunitense Mark Saliger per quella che fu la prima copertina di Rolling Stone dei Nirvana [aprile 1992], quando Cobain si presentò sul set indossando una maglietta con la scritta Corporate-Magazines-still-suck).

Quella della manipolazione delle parole, della distorsione senza scrupolo della verità altrui, della più irrispettosa strumentalizzazione, è un costume che, in Italia, ha attecchito, più o meno, in quel lontano aprile del 1994 (un caso, certo, ma alquanto significativo). Qualche giorno prima del suicidio di Cobain, infatti, un partito fondato con un solo anno d'anticipo sulle elezioni politiche, si piazzò al primo posto con uno sconcertante score del 21%, in tal modo travolgendo tutto quanto politicamente ed ideologicamente l'aveva preceduto. Il nome del partito era Forza Italia, e con il consenso creditatogli in cabina elettorale il paese aveva dato credito alle sue promesse per un futuro fatto di fica, caviale e champagne. Da allora la pianta è cresciuta, le sue ramificazioni hanno lentamente, ma inesorabilmente, invaso ogni ambito del paese: politico, civile, culturale. L'italiano medio è passato da una condizione di semianalfabetismo ad una apparentemente più innocua di compiaciuta passività, dove la circonvenzione è supinamente accettata a patto di saperla composta da atteggiamenti tonitruanti, immagini patinate, vocabolario basic, una malcelata bibliofobia ed un opportunismo raro. In termini mediatici, esattamente quanto Radio Freccia va praticando con gli spot dell'anniversario. Libera come noi, quindi, di dire tutto e il contrario di tutto (non si dimentichi che la coalizione vincente in quell'aprile funestato dalla scomparsa di Cobain rispondeva, appunto, al nome de Il Polo delle Libertà): l'importante, è farlo in altissima definizione.

Ma a questo punto, passando da Kurt Cobain a Vasco Rossi, da Aberdeen WA a Zocca (MO), ad un territorio, cioè, a noi più familiare, viene proprio da chiedersi: “Liberi, liberi / liberi da che cosa? / Chissà cos'è?”.

sabato 9 ottobre 2021

LE IDIOZIE DELLA PICCOLA AMBRA MARIE. La generazione dei senza-vergogna.

Sono passati 30'anni dalla pubblicazione di Nevermind, il disco che fece dei Nirvana un fenomeno planetario, così sottraendoli, loro malgrado, alla scena grunge dell'area di Seattle.

Eppure, per molti conduttori delle nostre miserrime emittenti-radio commerciali, sembra proprio che tre decenni non siano un tempo sufficiente per produrre, al riguardo, una riflessione, almeno per una volta, seria, profonda, in grado di restituire agli ascoltatori quello che fu il clima nel quale canzoni come Smells like Teen Spirit, In Bloom, Come as You are, Lithium, letteralmente esplosero in faccia agli ascoltatori, musicalmente imberbi quando non del tutto analfabeti.

La conseguenza principale di tale inettitudine riflessiva mi sembra oggigiorno ben rappresentata dall'anacronismo del fenomeno Måneskin, in Italia, e – giusto per pareggiare i conti e sentirci un po' meno soli nella miseria - da quello ancor più triste degli statunitensi Greta Van Fleet, altrove.

In uno spettacolo di qualche anno fa, lo stand-up comedian Jimmy Carr, colpito dall'espressione basita di uno degli spettatori delle prime file, chiosò sarcasticamente che esiste un livello di comprensione sotto il quale non è consentito assistere ad una serata di stand-up comedy, pena l'estromissione dalla sede dell'evento (“There's a level of minimum understanding, here. You know what I mean?”).

Contorto quanto volete, ma è a questo che ho pensato, giorni addietro, quando ho sentito tale Ambramarie, una delle conduttrici di Radio Freccia – l'emittente radiofonica con il più alto tasso di crescita negli ascolti del paese –, inanellare una serie di castronerie da stazione-radio locale.

Portata ad una strana forma di eccitazione sconosciuta ai più dall'ascolto di Ohio, di Crosby, Still, Nash & Young, la nostra ha prima affermato di sognare una vita negli anni '60 o '70, evidentemente ritenuti similari; o, in alternativa, nel 1991, anno nel quale, per l'appunto, i Nirvana pubblicavano Nevermind - periodo tra i più difformi, per quanto possibile, dai conflittuali, travagliati due decenni appena citati.

Il tempo di mandare in onda il brano e la nostra è già sulla difensiva.
- Non vorrei aver dato l'idea di una che vuole essere una 'hippy' o un figlio dei fiori, o roba così -, dice. - Io non so neanche cosa sono, gli 'hippy'. Sono degli stivali, forse? -.
A parte il mancato uso del congiuntivo e la finta modestia, sui quali si potrebbe aprire un post a sé stante, per tornare alla frecciata di Carr, c'è davvero un limite inferiore a ciò che ci si può permettere di non comprendere, pena l'inclusione nella sempre più affollata categoria dei subnormali.

Lungi da me il voler assumere qui o altrove la difesa di una categoria – quella degli hippy - sostanzialmente estinta, fatta eccezione per l'assurdo stoicismo di alcune sacche di disadattati ancora presenti sul territorio nazionale. È certa di essere estremamente simpatica, Ambramarie, o quantomeno di risultare tale all'attenzione del suo seguito.

Cito integralmente dal suo profilo, così come pubblicato sul sito di Radio Freccia (ortografia, lessico e tipografia a cura dell'autrice):

Ambramarie, classe 1987, inquieta e curiosa per indole (miei coglioni!, n.d.r.), si avvicina al rock dall’infanzia, quando tra le mani e le orecchie le capita il greatest hits 'Cross Road' di Bon Jovi (caspita, davvero un disco seminale, n.d.r.). Più avanti, nell’adolescenza, con 'Post Orgasmic Chill' degli Skunk Anansie (mai senza, n.d.r.) si rende conto che è proprio quello che vuole fare nella vita: la cantante ruuuuoookkk (Wow!, n.d.r.). Forma la sua prima e attuale band a 17 anni, vivendo tra un furgone sgangherato e la sua amata mansarda, dove si rinchiude a macinare dischi e film, sdraiata con la pizza sul letto (e questa è la stessa che non vuole essere scambiata per una hippy, n.d.r.). Si appassiona follemente al mondo della radio dopo aver visto il film I love Radio Rock (parallelo tra la radio pirata del film e Radio Freccia, davvero senza vergogna, n.d.r.), perché libertà e ribellione sono l’unica via per essere felici e cambiare veramente Qualcosa (scritto con la maiuscola, ma se ne ignora il perché, n.d.r.).”

Curioso ed illuminante che la nostra ometta elegantemente la partecipazione ad X Factor come il suo essere stata tra le prime 'grandi promesse' del programma.

All'uscita di Nevermind avevo 21'anni, e la sua forza d'urto mi colpì come una vergine al primo rapporto. Impiegai del tempo a realizzare che questo disco per me straordinario era invece considerato da Kurt Cobain una sorta di sottoprodotto, un disco estremamente commerciale il cui fine era compiacere quella gioventù – il 'teen spirit' - già allora senza arte né parte della quale io pure ero parte integrante ed attiva; una registrazione dal cui suono Cobain diceva di non sentirsi rappresentato.

Oggi davvero si può dire tutto e, minuti dopo, il contrario di tutto, senza nemmeno l'ansia derivante dalla possibilità, divenuta assai remota, di venire scoperti. I personaggi a la Ambramarie sono ormai la normalità, e non c'è morale o cultura - checché ne dicano gli intellettualoni del paese - che possa arginarne la deriva. Indignarsi, come io faccio spesso, serve a poco o a niente. Questi fenomeni vanno affrontati e sconfitti sul loro terreno di gioco, lì dove si sentono maggiormente protetti, al sicuro – un po' come quando si riesce nell'impresa di umiliare la squadra più forte del torneo nella partita che questa gioca in casa. Scendere in campo, sporcarsi le mani, accettare la sfida secondo regole altrui, ironizzare senza pietà e in maniera pungente, senza rimorso, contro questa generazione di senza-scrupoli, di senza-vergogna. Con il fare messo in campo sistematicamente nel corso dello spazio tributatole settimanalmente da Radio Freccia, Ambramarie sarebbe stata schifata dai suoi tanto decantati idoli pop sia come hippy che come nativa di Olympia WA. George Harrison, che visse con il massimo candore possibile la grande illusione dell''estate dell'amore' 1968, scappò letteralmente a gambe levate quando, in visita al quartiere di Haight-Ashbury, in quel di San Francisco, vide con i propri occhi in cosa realmente consisteva la cosiddetta cultura hippy. Quanto a Cobain - che la nostra vorrebbe vicino a sé per mezzo di reincarnazione nell'anno 1991 - che dire? Forse che anche per fuggire dalla stupidità e dall'ipocrisia di persone come lei Cobain si tolse la vita. È sufficiente leggere con calma i suoi diari, per capirlo.

Ma per sentire, al riguardo, cazzate firmate Ambramarie, abbiamo tempo fino all'aprile 2024.

lunedì 4 ottobre 2021

LA PROFEZIA DI 'AMERICAN BEAUTY'. Il fenomeno delle dimissioni volontarie.

Sono certo che molti ricorderanno la sequenza spassosissima di American Beauty – una delle tante inserite nella pellicola – dove Kevin Spacey, astutamente ed in maniera del tutto spregiudicata, estorce 60.000 dollari di liquidazione al proprio capufficio, con la minaccia di rendere note alcune molestie sessuali del tutto fasulle nei suoi confronti (“Puoi provare che non ti sei offerto di salvarmi il posto se io ti lasciavo spompinarmi?”).

Ebbene, a più di 20'anni di distanza da quel film, davvero strepitoso sotto ogni punto di vista, il tema della qualità del lavoro torna oggi prepotentemente alla ribalta.

Nel paese si registra un fenomeno mai conosciuto prima - se non, appunto, attraverso il cinema -, del quale, tanto per cambiare, non si parla, essendo il dibattito risaputamente monopolizzato dalle crisi di mezza età piccole e grandi dei partiti politici: le dimissioni volontarie – scelta, quest'ultima, imputabile con quasi assoluta certezza al periodo di lockdown recentemente vissuto, dove molti, pur nella difficoltà a volte estrema, hanno chi scoperto chi riscoperto una vita non più fatta di ritmi disumani, di competizione, di assenza di limiti, bensì di affettività, di cose semplici come poterebbe essere il preparare un pasto, leggere un libro in tranquillità o riposare il necessario. Ma, soprattutto, una vita dove è possibile ritrovare l'ascolto del proprio sentire interiore, profondo, l'aspetto che maggiormente ci caratterizza in quanto persone.

Gli aziendalisti sono coloro che meglio di altri hanno vissuto – ed in alcune sacche ancora vivono – la grande illusione del lavoro come soluzione al male di vivere (quasi sempre, il proprio).
Alla pari di certi partner gelosi, per i quali l'amore è vissuto come un sentimento esclusivo, l'aziendalista tende a vedere il proprio rapporto con il datore di lavoro in identica maniera, escludendo, in un misto di gelosia e competizione, tutti coloro - eccellenze incluse - che, praticando un diverso atteggiamento, li mettono indirettamente in discussione.
Va da sé, però, che, da parte di molte realtà lavorative, l'aziendalismo è tacitamente incentivato, con le conseguenze che è possibile leggere nell'articolo di Francesca Coin 'La nuova Economia delle Dimissioni', apparso stamane su Il Fatto Quotidiano.

Provate a chiedere ad amici e conoscenti, possibilmente attivando il vostro personale rilevatore di sincerità, quanti di loro si sentono veramente gratificati dall'attività lavorativa svolta, quanti, cioè, trovano nel lavoro quell'ambiente professionale ed umano definito da Primo Levi – che sul tema del 'lavoro inutile' ha scritto pagine destinate a restare nei secoli – come “la più grande approssimazione alla felicità sulla terra”.

Io, l'ho fatto. E vi posso assicurare che quel che riceverete in risposta, nella stragrande maggioranza dei casi, sarà la denuncia, da appartenenti alle più disparate e – a volte – insospettabili categorie, di una condizione mista di frustrazione e disincanto. Nessuno più, per tornare al film di Sam Mendes, è disposto a tollerare un mondo del lavoro dove la principale attività, troppo spesso, dice il protagonista, Lester, “... consiste fondamentalmente nel mascherare il mio disprezzo per quegli stronzi dei miei capi e, almeno una volta al giorno, nel ritirarmi nel bagno degli uomini per farmi una sega, mentre fantastico su una vita che non somigli per filo e per segno all'inferno”.

Non mi permetterò, qui, di affermare che il lavoro da casa (il fottuto smart working) è identico in tutto a e per tutto a quello d'ufficio. Ma è chiaro che l'inaspettato successo di questa modalità denuncia, essenzialmente, il disagio grande di molti lavoratori sia per la logistica dei trasferimenti, mai realmente implementati, sia per il rapporto umano devastante - disruptive, direbbe uno psicologo - con i colleghi della specie aziendalista – artefice, in passato, grazie alla fede cieca che la caratterizza, dello sviluppo industriale del paese, ed oggi, nel globalizzato mondo dell'anno 2021, vero e proprio cancro sociale.

Se in 30'anni siamo passati della ricerca del lavoro alla dimissione volontaria, ciò sta a significare che negli ultimi 20 la profezia di American Beauty è divenuta realtà.

mercoledì 7 aprile 2021

LIBIA - ITALIA / 1 - 0. L'oscuro piacere del perdere con l'ultima in classifica.

 

Cioè... mi fa impressione vedere Mario Draghi impegnato all'estero nella veste di Presidente del Consiglio (e, per favore: basta con 'sto premier, ché la maggior parte di coloro che impiegano il termine lo fanno ignorando ogni sua effettiva implicazione).

A me viene da dire che, se sei l'esponente primo di un governo tecnico – e Draghi lo è -, devi volare basso, limitarti a fare esclusivamente quel che è richiesto dal tuo ruolo, nulla più.
Un governo tecnico è quello chiamato a risolvere specifici problemi 'qui ed ora'. Decisioni politiche che possono avere conseguenze impattanti e durature, non gli competono.
Ma poi mi ricordo a quale paese appartengo, e tutto torna ad essere a suo modo chiaro, rispondente, come sempre, alle sue sole ed oscure logiche interne.
Ancor più impressione, però, mi fa il vederlo a colloquio con quei suoi pari che il destino (si fa per dire) ha voluto alla guida dei cosiddetti paesi-catorcio, luoghi nei quali, messa da parte tutta la retorica umanitaria e disgustosamente moralista della sinistra nostrana, nessuno di noi vivrebbe più di un mese senza pensare di spararsi.
È il caso della Libia.

Draghi si è complimentato con il collega del governo libico per quanto il suo paese fa in merito ai salvataggi in mare (!). Che è come ringraziare Putin per le sue battaglie a favore della libertà d'opinione o l'Arabia Saudita per la difesa dei diritti civili.
Ha poi promesso di “facilitare le
procedure dei visti a favore dei libici aumentando il numero di quelli rilasciati specialmente a studenti, uomini d’affari, malati, oltre a facilitare le procedure della comunità libica in Italia anche per quanto riguarda banche e residenza” e “borse di studio per gli studenti libici” (Il Fatto Quotidiano, 7 aprile).
Sarà anche un governo tecnico, questo. Ma a me ricorda molto il PD.
Ha financo prospettato un ritorno agli accordi bilaterali in auge al tempo di Gheddafi – non so se mi spiego.

Nei miei sogni bagnati, raffiguro spesso i nostri rappresentanti governativi annunciare strette cooperazioni con la Danimarca (un paese che, solo per fare un esempio, costruirebbe il ponte di Messina in meno di due anni, se solo ve ne fossero le concrete, serie intenzioni).
Ma una volta sveglio, è la dura realtà a prendere il sopravvento: Salvini e la Russia, Renzi e l'Arabia Saudita, Draghi e la Libia.

Insomma, dopo l'Egitto, altro splendido paese che, con il caso Regeni ed il più recente caso Zaki, strizza le palle del nostro governo almeno una volta la settimana, ora anche la Libia può divertirsi allo stesso modo dei loro vicini, nella quasi assoluta certezza di vedere soddisfatte tutte le richieste avanzate ieri l'altro al buon Mario.
Questo perché, dietro la fuffa programmatica dell'innovazione a tutto tondo, l'Italia va ancora a carbonella. E la carbonella di cui abbiamo bisogno come del pane si chiama petrolio.

Meditate, gente.

Meditate.

venerdì 29 gennaio 2021

CATTIVI MAESTRI. Billie Eilish, l'olocausto e la generazione sdraiata.

Accendo la radio come di consueto (il senso di solitudine, ormai, richiede tante piccole misure di contenimento, nell'arco della giornata, e questa è una). Ed ecco che a metà mattina (è il fottuto giorno della memoria) mi becco il pippotto in diretta di una maestrina tutta infervorata a spiegare come, “per i nostri ragazzi... che non sanno niente, nulla di nulla”, sia più che mai importante, oggi, la formazione “di una memoria storica”.

Scusa?

Chi legge queste pagine o i miei sfoghi su Facebook sa già come io la pensi su Shoa e dintorni. Per gli altri (la stragrande maggioranza, ahimè) è forse utile precisare, senza tanti giri di parole, che, per quel che mi riguarda, l'argomento storico dello sterminio è una sentenza passata in giudicato, affrontabile, cioè, con quel distacco, dettato anche dall'arco temporale, in grado di garantire, oggi, una visione estremamente lucida e documentata di quanto accaduto, senza che ad ogni piè sospinto, nel corso di dibattiti storici, politici o più genericamente culturali, chicchessia debba sentirsi autorizzato a ricordare noi che, 76 anni fa, in Europa, abbiamo avuto Auschwitz – come invece è successo da noi con l'istituzione della giornata della memoria, fortemente voluta dalla sinistra nostrana per il semplice fatto che nel campetto in Polonia vi fecero irruzione i russi: fosse toccato agli australiani, ci sarebbe stato concesso di dimenticare in tutta serenità.

Detto questo, alle parole della sedicente insegnante, non ho potuto che rivolgere il mio pensiero ai ragazzi, a questa generazione che non amo, ma che mi sembra abbia più di una buona ragione per fregarsene di tutto e tutti. Anzitutto fregarsene di noi adulti: di me che scrivo, di quelli convinti che quel che serve loro, nell'anno 2021, sia la memoria storica, come di quelli che credono fermamente che questa generazione non stia aspettando altro che il loro appoggio, la loro condivisione o, peggio, il loro consiglio.

Nonostante non lo apprezzi più da tempo (la superiorità morale della sinistra vecchia guardia mi è divenuta intollerabile), è stato Michele Serra, con il suo romanzo Gli Sdraiati, quello che, a mio parere, ha meglio definito e fotografato la generazione dei millenials, così come il travaglio tutto nuovo che essa ha scatenato nel mondo adulto, dove schiere di genitori, illusi di possedere soluzioni al passo con i tempi per vincere l'estraniamento di un figlio adolescente, ne provocano, in realtà, l'ulteriore – e, a volte, estremo – allontanamento. Consiglio a chi è interessato al tema della formazione di includerlo nelle proprie letture, senza però darmene notizia, perché negli ultimi tempi queste manifestazioni di interesse mi confermano puntualmente il fraintendimento di quasi ogni lettura. Quindi: fottetevi.

Mia figlia, otto anni, mi parla da tempo di Billie Eilish, la ragazza statunitense che qualche anno fa è stata partorita dal buco nero di Internet divenendo un fenomeno tra i coetanei, ed oggi, ventenne, ha all'attivo 65 milioni di dischi venduti. All'ennesima sua citazione, mi sono fatto coraggio e sono andato a verificare di persona la consistenza di questa giovanissima che da quattro anni fagocita la passione di moltissimi della sua generazione. Ho ascoltato il disco d'esordio – l'unico, al momento. E tutto è apparso subito chiaro, inequivocabile: Billie Eilish ha scritto la colonna sonora dei millenials. Ecco, cosa. Tutto, dall'inerzia all'inspiegabile euforia, dalla depressione all'infatuazione, l'insoddisfazione per il proprio corpo, il bisogno di nuove droghe, gli obblighi social, tutto, del sommerso mondo dei sentimenti giovanili, è reso nel disco When We All Fall Asleep, Where Do We Go? con un suono ed un incedere assolutamente all'altezza della situazione, che spiegano, esaurendolo, il fenomeno Billie Eilish. Per me, genitore 50enne, è stato come un invito a guardare, ma senza toccare, senza poter entrare all'interno di questa panic room sonora. Ho pensato che, al mondo c'è chi nasce giovane, come questa davvero adorabile ragazza, e chi nasce vecchio - e furbo - come i componenti de Il Volo.

Privata del futuro, svilita dal presente, delusa oltre ogni limite dagli adulti, questa generazione di giovani, abitata dal nichilismo, secondo il prof. Galimberti, inetta, per Bret Easton Ellis, e sdraiata, a detta di Michele Serra, ha trovato in Billie Eilish un portabandiera, il cantore di una visione delle cose che, all'infuori dell'ambito millenial, non interessa nessuno.

Pretendere la loro attenzione narrando concitatamente – manco fosse una scopata – di un campo di sterminio eretto 80'anni fa in una delle lande più fredde del continente, significa, ancora una volta e con aumentata forza, imporre loro quella visione adulta, sfacciatamente ideologica e passatista della vita che è, con buona probabilità, la causa prima della loro epocale chiusura.

sabato 2 gennaio 2021

LE VITE DEGLI ALTRI. Spiare il prossimo attraverso i 'social'.


Alla fine, non ho resistito. Dopo anni di virtuoso contenimento, sono andato a curiosare nei profili social di una serie di persone amici, conoscenti, simpatizzanti, followers, parenti, ex, amici degli amici, figure pubbliche e persino alcuni dei cosiddetti influencers - , al fine di scoprire cosa passi loro per la testa, cosa pubblichino, cosa li affligge, preoccupa, appassiona o rende felici, in questo momento storico così difficile ed atipico. In buona sostanza, ho concesso alle mie insicurezze di prendere il sopravvento, misurandole in un mortificante quanto fasullo confronto. Facebook, Instagram, Twitter, Tinder, Flickr, Pinterest, luoghi dove, con buona pace di molti benpensanti, si consuma, specie in questi giorni di reclusione emergenziale, la socialità 2020.

Mi sono così imbattuto in una sequenza di pubblicazioni che, se considerate prodotto dello sforzo creativo – si fa per dire - di persone adulte, gettano nello sconcerto, quando non nello sconforto più profondo. Materiale web che spazia senza soluzione di continuità dall'inadeguato (sette anni di posts consistenti in soli aggiornamenti del proprio autoscatto in differenti contesti domestici) al bizarre (un tizio la cui immagine del profilo è un enorme pene eretto che sembra nessuno abbia ancora provveduto a rimuovere tramite banning). Nel mezzo, milioni di terabyte di vero e proprio metano linguistico e comunicativo, dove grammatica e tipografia risultano bellamente ignorate a favore di regole del tutto nuove, spesso rivendicate dai loro utilizzatori come libero esercizio di spontaneità.

Albe, tramonti, nebbie, pietanze, selfies, falsi clamorosi, paesaggi fantastici, citazioni improbabili, condivisioni imbarazzanti, video amatoriali, posts impiegati per comunicazioni private (“Ehi raga ci vediamo da Nello alle otto” [sic], “Lavori, domani?”), interi profili dedicati al culto di personalità vere o presunte dello spettacolo, dello sport, della politica, profili di neonati (!), di defunti (!) e financo di animali domestici (!). Il tutto in una orizzontalità che equipara senza curarsene Nelson Mandela ed il mostro del Circeo, Jovanotti e Miles Davis, J. K. Rowling e Shakespeare, l'Angelus del papa e la marcia dei suprematisti a Charlottesville, solo per citare degli esempi a caso (sui social è ormai concessa ogni permutazione morale). Esibizioni, erezioni ed ordinaria follia, avrebbe detto Charles Bukowski.

Quel che maggiormente mi ha colpito, però, è il quasi assoluto scollamento dall'attualità riscontrato. Sembra davvero che, per molti, non vi sia evento degno di una riga vergata di proprio pugno, di una presa di posizione. Nel migliore dei casi, mi sono imbattuto nella semplice condivisione di notizie, mutuate dai siti di informazione generalista, senza riuscire in alcun modo a capire se il 'condivisore' ne fosse deliziato od irritato. È un atteggiamento riscontrabile anche nella socialità, ma soggetto ad una brusca mutazione quando la notizia impatta con la quotidianità di questi 'indifferenti digitali', con la vita nei suoi aspetti materiali. Allora diviene tutto un pubblicare, condividere, 'taggare', polemizzare ferocemente che molto dovrebbe far riflettere sul presunto ampliamento di vedute stimolato dalla 'rete'. Non più attivate dall'attualità, le persone cercano altrove quella scossa senza la quale non è possibile alzarsi dal letto la mattina. Si giunge così alla fuga nel fantastico.

FANTASY

Penso anch'io, come lo sceneggiatore Jason Hall, che, per molte persone, il male non esista, e che tale illusione sia quella che le rende del tutto impreparate alla sua inevitabile comparsa. Per molte altre, invece, l'averlo dolorosamente sperimentato sulla propria pelle sembra averne causato la quasi totale rimozione. Non si spiega in altro modo, il proliferare incontrollato di immagini fantastiche, luoghi non fisici frutto di ritocco, cui tante persone, attraverso i propri profili social, sembrano affidare l'espressione dei propri più intimi sentimenti. Chalets di montagna immersi in ambientazioni da film, attici soffusamente illuminati con vista mozzafiato, aperitivi in luoghi esclusivi, deluxe, giovani donne griffate dalla testa ai piedi, famiglie sorridenti e felici riunite sotto fastosi alberi di natale, caminetti dalla luce primigenia, animali che sorridono (giuro), intimo femminile abbandonato allusivamente in sfarzose camere da letto, cene romantiche durante 'perfette' tempeste di neve. Puntualmente, ognuna di queste immagini risulta chiosata all'insegna della stucchevolezza più decadente o di un astio represso a fatica. Slogans e aforismi cui sembra venire affidato un desisderio di rivincita sopito da tempo: nei confronti della vita, nei confronti di un partner. “Inizia la settimana più magica dell'anno”, “Il tempo […] restituisce tutto a tutti”, “Dedicato a chiunque stia aspettando qualcosa”, “È la sincerità che rende speciale una persona in questo mondo di false apparenze”, “Un momento di gioia […] non siamo noi ad afferrarlo, ma è lui ad afferrare noi”, “Che parole meravigliose sono gli sguardi”, “Dance is my life”, “Chi non perde mai la testa smarrisce il cuore”, “La vita ti sorride quando hai il coraggio di fare ciò che ti fa sorridere”, “Vi auguro tempeste di felicità”, “La dolcezza, un abito che non passa mai di moda” e via dicendo. Risucchiato dal vuoto pneumatico di queste banalità un tanto al kilo, è stato solo dopo parecchia 'navigazione' che ho realizzato quanto segue: il 100% di questo orrore, quello nel quale mi sono imbattuto, risulta pubblicato su profili appartenenti a donne.

CHECK POINT CHARLIE

Un'altra tendenza diffusa, emersa durante lo spionaggio di cui sopra, è quella all'impiego fazioso, distorto e, obiettivamente, diffamante del mitico fumetto yankee Charlie Brown. Charlie ed i suoi piccoli amici hanno guadagnato un posto nell'immaginario collettivo grazie all'innocenza disarmante con cui per cinque decenni hanno chiosato quotidianamente (!) non solo l'attualità quando questa si faceva tanto invadente da non poter essere ignorata, ma anche le spesso amare constatazioni sulla vita emerse nel corso di un breve dialogo o frutto di riflessione. Arguzie, battute, un pizzico di understatement, mai una volgarità. Esattamente l'opposto di quanto caratterizza gli stessi personaggi nella versione social. Singoli quadri del fumetto vengono selezionati e montati a dovere al fine di adeguarli all'espressione di pensieri, parole opere ed omissioni di dubbia origine, sconcertante grevità e di una banalità che mette alla prova. Ma soprattutto: lontani anni-luce dal pensiero di Schulz, il papà della 'striscia'. “Ti spaventa l'infinito?”, “Più il congiuntivo.”; “Il problema è che gli stronzi vivono bene e spensierati e i buoni vivono in ansia e con la gastrite.”; “Lo spread sale ma lo spritz scende che è una meraviglia.”; “Houston, passami Lourdes.”; “Ci si stanca anche di rimanerci male.”; “Anche le mie ansie hanno l'ansia.”; “In vino veritas in vodka figuriamocis.”. Trionfo del fake, pensiero conto-terzi, apologia di ignoranza. Frasi che i protagonisti del fumetto MAI si sarebbero sognati di pronunciare, e che ora campeggiano in bella vista in molti profili social e financo come immagini di copertina, ad indicare, in una totale assenza di vergogna, la fonte temporanea, passeggera, effimera, del proprio pseudopensiero.

LONELY HEARTS CLUB.

Una dinamica che emerge altrettanto chiaramente, rispetto a quanto fin qui descritto, è quella uomo-donna. Il primo, rimosso ogni tratto contenutistico, se mai ve n'è stato alcuno, sembra essersi specializzato, negli anni, nel commento sessualmente allusivo quando non addirittura spudorato, bavoso. “Bellissima”, “Stupenda”, “Sei una gnocca davvero”, “Non ho parole”, “Ho una paresi”, “Sirena voglio essere il tuo scoglio”, “Come vorrei essere quella maglietta”, “Questa sera serata con Federica la mano amica”, “Uno schianto”, “Mmmm”. Imbarazzo a parte, sono frasi che, dette di persona, porterebbero in tribunale per direttissima, con molta probabilità per volere delle stesse destinatarie, mentre nel contesto social assumono la valenza di punteggio da classifica-cannonieri. In una disperata ricerca di consenso a colpi di scollature, sguardi bovini fuori campo ed ammiccamenti da anni della 'Disco', la donna social, infatti, ha completamente annientato le poche, concrete conquiste conseguite dal femminismo barricadero, in un tripudio di autoscatti settimanali a bassa definizione, sostanzialmente identici gli uni agli altri, nonostante l'evidente pretesa di presentarli come sfaccettature sempre diverse ed irriproducibili del femminile. “Stasera decido io”, “Shhhhhh”, “Dedicato a chi ama sé stessa”, “Due gocce di profumo e... pronta”, “Oggi sono solo mia”. Se gli altri networks rimangono prevalentemente deputati alla polemica rabbiosa, gratuita (hating), e ad un esibizionismo erotico e narcisistico, Facebook, in particolar modo, sembra diventato un club per cuori solitari, dove, da profilo a profilo, ha luogo quella dinamica decadente di corteggiamento un tempo appalto di night e balere – dove, risaputamente, la tecnica per il cosiddetto 'struscio' o 'rimorchio' per la conquista dell'agognato rapporto occasionale, da esibire come trofeo nella sala della caccia, è sempre consistito nell'approcciare sistematicamente ed insistentemente tutti i tavoli occupati da almeno un essere umano.

FELLATIO

Se per Harvey Keitel in Pulp Fiction l'abbandono ai facili entusiasmi era un atteggiamento da tenere ben a freno (“..., non è ancora il momento di cominciare a farci i pompini a vicenda.”) - una delle sequenze più belle e divertenti degli ultimi 30'anni -, va da sé che il popolo della 'rete' o non ha visto il film (probabile) o l'ha visto e non ha capito (probabile). O, ancora, l'ha visto e l'ha disapprovato (improbabile). Incuranti dei preziosi consigli di Keitel/Wolf, le coppie social non perdono infatti occasione di esibire il proprio status solido al giungere di anniversari di fidanzamento o matrimonio. È il trionfo del modello Mulino Bianco, della grande illusione, dell'ipocrisia sfacciata. Lui scrive a lei auguri sperticati: lei fa lo stesso. Il popolo, astante, si produce in un profluvio di consenso digitale e commenti robotici. Fellatio. Eiaculazione. Tripudio. “Auguri, amore mio”, “Vent'anni innammurati”, “Dieci anni... IN CIMA AL MONDO”, “Quindici anni insieme e una famiglia fantastica GRAZIE AMORE MIO”, “Grazie di esistere... per sempre”. Secondo uno studio condotto dal centro-statistiche Cavenaghi Seminara di Pozzallo (RG), negli ultimi quindici anni, da quando cioè la rivoluzione digitale ha colmato il fisiologico gap iniziale, risulta che il 79% delle coppie titolari di un profilo social consumi il tradimento del partner entro il quinto anno dalla registrazione al network di preferenza. Ciò significa che la comparsa di quello che nella cultura popolare italica è riconosciuto come inequivocabile segno di tradimento subìto, le corna, deve la propria crescita ad incontri ad alto potenziale erotico ed esibizionistico stimolati dalla frequentazione assidua e notturna dello stesso network nel quale, ora, si celebra l'inossidabilità dell'unione. Quindi, vaffanculo.

PUGNETTE

A chiusura di questa carrellata horror, non posso non soffermarmi sulla tristezza indottami dalla ripetuta visione dei selfies orgogliosamente campeggianti in quasi tutti i profili visitati. Da bambino, ma anche successivamente, fino ben dentro l'età adulta, ricordo di avere sempre provato una forte pena per quei coetanei affetti da strabismo più o meno accentuato. Quella loro apparente incapacità a mettersi in asse con il tuo sguardo mi distraeva, paralizzandomi, da qualunque cosa stessero dicendo, fosse anche un insulto o la minaccia di pestarmi per bene fuori da scuola. Sensazione rivissuta in questi anni di proliferazione incontrollata dell'autoscatto, del selfie, negli sguardi puntualmente disallineati dall'obbiettivo, la tensione muscolare di sessioni fotografiche prolungate che modifica sensibilmente l'espressione del viso, i fondali tristissimi di appartamenti spogli o di camere scarsamente illuminate, il cui messaggio implicito sembra sempre essere: siamo soli. (se avessero letto qualche buon libro in più, godrebbero oggi del doppio conforto dato dallo scoprire che le più belle pagine sulla solitudine cosmica non le ha scritte quel segaiolo di Garcia Marquez bensì Primo Levi). Selfie è neologismo sorto dal sostantivo self, indicante il nostro 'sé', suffissato alla maniera sassone al fine di formarne il diminutivo. Lo slang più fortemente liberal delle tante comunità della west coast statunitense anni '50, lo impiegò nell'accezione di 'pugnetta', di autoerotismo, di qualcosa di sminuente che si fa a sé stessi in totale autonomia. Mi-sono-fatto-un-selfie si può ben intendere come: "Mi sono fatto una sega e l'ho messa 'in rete'". E così in diversi momenti della giornata, siano essi quelli biologici della sveglia e del coricamento o quelli pre-lockdown della preparazione ad un'uscita che sempre è spacciata per galante, ricca di attese e sottintesi, e chiosata con auguri di vario genere (“Buonanotte a tutti”, “Una buona giornata”, “Il mattino ha l'oro in bocca”), ecco apparire, immancabile, la 'pugnetta' del giorno, una manifestazione davvero in grado di annientare ogni sincero, spontaneo moto d'amore per la vita, con conseguenze letali.

Rimangono, all'inventario di questa breve operazione di spionaggio, tutte quelle pubblicazioni meritevoli di attenzione per il solo, semplice fatto di essere frutto di una passione seriamente e lungamente coltivata, pertanto meritevole di condivisione. Ed anche tutti i posts originanti da una condivisione attiva, ponderata. Ma la loro comparsa altro non fa che evidenziare drammaticamente, per difetto, l'uniformità di pensiero del mondo social.