Dario Brunori prova i canti per la messa delle 10:00. |
Brunori
sa! È financo sancito dal titolo del programma televisivo
dedicatogli, un po' di tempo fa, da Rai 3 (ma va da sé che, ormai, a
Rai 3, basta l'inchino alle persone giuste – giuste per il momento,
beninteso – e le sue porte si spalancano come per magia, vedi il
caso Recalcati). Sa così tante cose, Brunori, che ieri l'altro, 25
aprile, una volta svegliatosi, ha realizzato subito quale era, quella
giusta da fare: strimpellare O Bella Ciao in diretta streaming
(me lo si lasci dire: una delle canzoni più tristi e deprimenti mai
sentite, roba che, al confronto, i primi Cure erano degli allegroni).
Un bel messaggio in codice che, se va bene, garantirà al nostro un
futuro di facili contratti – magari propiziati dagli amici del
'terzo canale'.
In
verità, Brunori non sa un cazzo. Non sa niente di niente. Fidatevi
di me. Brunori non è il guru che certi intellettuali danno a
credere: Brunori è uno skipper, un talento innato, cioè, nel
capire alla prima annusata la direzione del vento per la giornata
odierna. Quelli come Brunori si ispirano - o, quanto meno così
vogliono farci credere - ai valori di coloro che fecero la Resistenza
(breve ripasso: un gruppo numericamente modesto di patrioti divenuto
massa, sul finire della guerra, quando i più capirono che 'quei
pochi' – i partigiani – stavano arrivando con i 'i tanti' – gli
alleati – seriamente intenzionati, gli uni di concerto con gli
altri, a regolare i conti una volta per tutte). In quale modo i
valori del 1945 si adattino, secondo le logiche brunoriane, ai tempi
odierni, non è dato capire (nel video, il nostro, non spiffera parola). Primo perché i giornalisti deputati a ciò (vedi alla voce
'critici musicali') se ne guardano bene dal chiederlo - sia mai che
salti loro il posto, per cotanto azzardo. Secondo perché, da parte
dei pochi coraggiosi rimasti nella categoria, c'è la quasi assoluta
certezza che la risposta eventuale ad un simile quesito sarebbe un
verso di O Bella Ciao, magari con corredo di strimpellata di
chitarra, o, peggio, qualche fumosa risposta, tutta da interpretare.
Qualcosa di simile alla scena spassosissima de La Grande Bellezza,
quando il protagonista, Jep, intervista la performer Talia
Concept chiedendole di spiegare la propria arte, senza ottenere
alcunché. “Senta... Io di lei, finora, ho solo fuffa non
pubblicabile. Se lei pensa che io mi lasci abbindolare da cose tipo:
'io sono un'artista e non ho bisogno di spiegare' è fuori strada.”.
In un paese culturalmente diverso da quello in cui viviamo, questa
sarebbe la giusta risposta alle strimpellate in luogo di chiare prese
di posizione.
Nonostante
un mondo flagellato dalla pandemia, dallo spionaggio incondizionato,
dalla manipolazione dell'informazione, dalla disillusione pressoché
totale nei confronti della politica tutta, dalle guerre
intenzionalmente agite sui cilvili, dalla corruzione imperante, dagli
indici borsistici come termometro del benessere globale, dalle
diseguaglianze di ogni sorta, dall'analfabetismo di ritorno e dalla
morte per fame, ecco: la risposta di uno come Brunori, reputato mente
sopraffina e rappresentativo della sua generazione, è O Bella Ciao.
È la risposta a tutto di quelli come lui: vecchi, inadeguati, fuori
dal tempo. Ma, checché se ne dica, rappresentativi, più che della
generazione cui appartengono, del nulla di un paese che da 75 anni
festeggia come una vittoria il giorno nel quale perdette la guerra.
Cantano le gesta di patrioti che erano, presumibilmente, quanto di
più lontano vi sia, stilisticamente ed eticamente, da soggetti come
Brunori (che, a giudicare da certi discorsi che si sentono
oggigiorno, non sono pochi). Ignorano – o fingono di ignorare -
quasi del tutto le opere e le parole di uomini e donne straordinari
quali Edward Snowden, Laura Poitras, James Natchwey, Daniel
Baremboim, Bruce Dickinson, Sebastião Salgado, Chesley Sullenberger,
Mohamed Ben Kilani, Johnny Greenwood, Ken Loach, Gherardo Colombo e
molti, molti altri.
Ha
ragione Michele Monina, che di Brunori ha scritto: “Sentire brani
che sembrano provini, per come suonano e per come sono composti,
infastidisce. Si capisce che sarebbero potuti diventare altro,
decisamente meglio, e che invece no, ci si è fermati subito, perché
tanto si è naif, va bene così.”.
Questo
è l'indie, in Italia. Un'opportunità come un'altra per
godere di visibilità e delle sue supposte benefiche conseguenze.
L'arte
al servizio del principe.
Come
sempre.
Nessun commento:
Posta un commento