lunedì 13 aprile 2020

LA MUSICA CHE GIRA INTORNO. I concerti in 'streaming' durante l'emergenza Coronavirus.


Thom Yorke nel video per 'No Surprises'.
Mi siano concesse alcune parole riguardo a quello che reputo il più eclatante sciacallaggio di questa emergenza: i concerti in rete delle cosiddette stelle della musica, ovvero l'ennesima occasione per godere di visibilità a spese di chi è davvero in difficoltà.
A volte penso che non esista calamità naturale alcuna, quale è da considerarsi, presumibilmente, la pandemia in corso, che possa ridurre una celebrità della musica al silenzio. Lasciamo perdere i politici e gli ospiti di professione i quali rappresentano il fronte patologico del fenomeno. Un musicista si pensa sia capace di silenzio, di ritiro, di eccezionale introspezione, quanto meno per favorire il proprio processo creativo. È pertanto sconcertante constatare come, in tempo zero, lo star system, del tutto noncurante del reale impatto che lo stop alla maggior parte delle attività umane sta avendo sulle persone, si sia attivato per ammorbare giornate già difficili di loro con le dirette dei professionisti indiscussi della canzonetta – probabilmente convinti che dalle loro ugole e strumenti fuoriesca sempre e solo la perfetta colonna sonora di ogni momento dell'umano vivere.
Da ormai un mese, gli onnipresenti Jovanotti, Gianna Nannini, Laura Pausini, Modà, Nek, Marco Masini, Coma_Cose, Brunori Sas, Francesca Michielin, Fiorello (!), Emma Marrone, Fedez, Tiziano Ferro, intrattenitori che reputano la propria esperienza artistica – si fa per dire – come indispensabile, rubano capacità al web, convinti, come probabilmente sono, che persino immersi negli aspetti letali di questa emergenza noi si senta il bisogno del loro particolare, specifico, insostituibile conforto (suppongo vi sia, in effetti, qualcuno che ne avverte la necessità, nel cui caso è chiaro che il Covid 19 risulta come il minore dei mali). Non un aiuto concreto: quattro accordi di chitarra e via: la vita torna a sorridere come per incanto.
Pertanto, quando mia moglie mi ha riferito, ieri l'altro, dell'iniziativa di Thom Yorke e soci – ovvero quella compagine straordinaria che va sotto il nome di Radiohead - di intrattenere la popolazione mondiale in reclusione da Coronavirus per mezzo di concerti settimanali - notizia che mi era sfuggita e per la quale le sono estremamente grato -, ho avuto un attimo di sorpresa. Per come li conosco, mi sembrano persone non accecate dall'enorme successo conseguito, con ancora i piedi a terra, riservate in maniera non patologica ed intelligenti. Caratteristiche che mal si attagliano a chi opta per una simile iniziativa (Ennio Morricone, ad esempio, ha affermato in un'intervista che, in questo periodo, difficile in particolar modo per una persona della sua età, non c'è musica nelle sue giornate, non gli sembra che il contesto consenta in alcun modo di godere di essa, ritenendo invece più adatto un silenzio improntato alla riflessione). Ho quindi subito verificato i dettagli di questa notizia, scoprendo con grande gioia che, in realtà, il quintetto inglese ha semplicemente contribuito ad un aumento del ventaglio di scelte di prodotti in streaming rendendo disponibili gli integrali di alcuni loro concerti risalenti anche a 20 e più anni fa, così risparmiandoci vergognose dirette da salotti di casa grandi come campi da pallavolo (Bruce Springsteen ed Elton John), strimpellate da oratorio (Nek) o imbarazzanti cantate pseudoreligiose da cattedrali deserte (Andrea Bocelli). Con l'ironia che li contraddistingue (facile, devo ammettere: i loro colleghi sono così stronzi da far apparire cordiale persino Donald Trump), hanno subito espresso incertezza riguardo a cosa giungerà prima a conclusione: se il loro archivio o la reclusione da pandemia. Ben detto! E così hanno presentato il primo concerto di questa serie, registrato nell'autunno del 2000 in una tensostruttura nella campagna fuori Dublino, e coerentemente intitolato Live From A Tent. La band vi appare ritratta in uno dei tanti, irripetibili momenti che hanno caratterizzato, specie nel primo decennio di vita, la loro evoluzione artistica: la tournée per la promozione di Kid A, un disco che, bellezza a parte, rifiutava di parlare alle pance del seguito più fedele del gruppo – al tempo già numerosissimo – per rivolgersi, invece, alle proprie, per dare libero sfogo ad un'appetito creativo che, considerati i risultati, mordeva da tempo. Una coraggiosa scelta registica riprende i cinque musicisti con la tecnica del circuito chiuso, conferendo a molte delle esecuzioni un carattere distopico, orwelliano. La giovane età di ognuno traspare ad ogni ripresa, e commuove come tutte le cose e le persone di un tempo passato. Su tutte, le immagini del bassista Colin Greenwood - quella sua tipica postura con il fianco al pubblico, timido, sorridente, concentrato, immerso nella bellezza della propria musica - sono di quelle che rimangono. Il concerto è a dir poco perfetto, ed il brano che ne costituisce l'apertura, The National Anthem, è qui, a mio parere, nella sua più bella resa sonora di sempre. Davvero un'esperienza da non perdere, credete (sempre che amiate la musica e non siate semplicemente bisognosi di uno 'spaccatempo'). In altre parole: consapevoli che molte delle cose che avevano da dire erano già state espresse in molti dei lavori precedenti questi anni, non hanno fatto che riproporli. Ecco tutto.
Alla ricerca disperata di una lettura in grado di dare senso alle cose non solo di questi giorni, mi sono imbattuto, con grande fortuna, nel bellissimo editoriale che Lester Bangs scrisse all'indomani della morte di John Lennon. È uno scritto di disarmante sincerità, capace, in poco più di una pagina, di esprimere, oltre al dolore per la perdita di 'un grande uomo' e per la fine senza sequel di un sogno all'epoca già vecchio di due lustri, il disagio per il travisamento che gli stessi che lo piangevano avevano operato sulla sua figura. Un artista che, ricordiamolo, lasciati i Beatles (non esattamente un passo alla portata di tutti), aveva optato per una lunga assenza dalle scene, ritenendo di non avere, quanto meno in quel momento, qualcosa da dire. In altre parole, e per riagganciarci al discorso di partenza, John Lennon, seppur nella sua grandezza, non si riteneva indispensabile, al contrario dei tanti marchettari che in questi giorni intasano la rete con il proprio ego ed il proprio vuoto artistico.
Meditate, gente.
Meditate.

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