martedì 28 aprile 2020

FUORI DAL TEMPO. Dario Brunori canta O Bella Ciao.


Dario Brunori prova i canti per la messa delle 10:00.
Brunori sa! È financo sancito dal titolo del programma televisivo dedicatogli, un po' di tempo fa, da Rai 3 (ma va da sé che, ormai, a Rai 3, basta l'inchino alle persone giuste – giuste per il momento, beninteso – e le sue porte si spalancano come per magia, vedi il caso Recalcati). Sa così tante cose, Brunori, che ieri l'altro, 25 aprile, una volta svegliatosi, ha realizzato subito quale era, quella giusta da fare: strimpellare O Bella Ciao in diretta streaming (me lo si lasci dire: una delle canzoni più tristi e deprimenti mai sentite, roba che, al confronto, i primi Cure erano degli allegroni). Un bel messaggio in codice che, se va bene, garantirà al nostro un futuro di facili contratti – magari propiziati dagli amici del 'terzo canale'.
In verità, Brunori non sa un cazzo. Non sa niente di niente. Fidatevi di me. Brunori non è il guru che certi intellettuali danno a credere: Brunori è uno skipper, un talento innato, cioè, nel capire alla prima annusata la direzione del vento per la giornata odierna. Quelli come Brunori si ispirano - o, quanto meno così vogliono farci credere - ai valori di coloro che fecero la Resistenza (breve ripasso: un gruppo numericamente modesto di patrioti divenuto massa, sul finire della guerra, quando i più capirono che 'quei pochi' – i partigiani – stavano arrivando con i 'i tanti' – gli alleati – seriamente intenzionati, gli uni di concerto con gli altri, a regolare i conti una volta per tutte). In quale modo i valori del 1945 si adattino, secondo le logiche brunoriane, ai tempi odierni, non è dato capire (nel video, il nostro, non spiffera parola). Primo perché i giornalisti deputati a ciò (vedi alla voce 'critici musicali') se ne guardano bene dal chiederlo - sia mai che salti loro il posto, per cotanto azzardo. Secondo perché, da parte dei pochi coraggiosi rimasti nella categoria, c'è la quasi assoluta certezza che la risposta eventuale ad un simile quesito sarebbe un verso di O Bella Ciao, magari con corredo di strimpellata di chitarra, o, peggio, qualche fumosa risposta, tutta da interpretare. Qualcosa di simile alla scena spassosissima de La Grande Bellezza, quando il protagonista, Jep, intervista la performer Talia Concept chiedendole di spiegare la propria arte, senza ottenere alcunché. “Senta... Io di lei, finora, ho solo fuffa non pubblicabile. Se lei pensa che io mi lasci abbindolare da cose tipo: 'io sono un'artista e non ho bisogno di spiegare' è fuori strada.”. In un paese culturalmente diverso da quello in cui viviamo, questa sarebbe la giusta risposta alle strimpellate in luogo di chiare prese di posizione.
Nonostante un mondo flagellato dalla pandemia, dallo spionaggio incondizionato, dalla manipolazione dell'informazione, dalla disillusione pressoché totale nei confronti della politica tutta, dalle guerre intenzionalmente agite sui cilvili, dalla corruzione imperante, dagli indici borsistici come termometro del benessere globale, dalle diseguaglianze di ogni sorta, dall'analfabetismo di ritorno e dalla morte per fame, ecco: la risposta di uno come Brunori, reputato mente sopraffina e rappresentativo della sua generazione, è O Bella Ciao. È la risposta a tutto di quelli come lui: vecchi, inadeguati, fuori dal tempo. Ma, checché se ne dica, rappresentativi, più che della generazione cui appartengono, del nulla di un paese che da 75 anni festeggia come una vittoria il giorno nel quale perdette la guerra. Cantano le gesta di patrioti che erano, presumibilmente, quanto di più lontano vi sia, stilisticamente ed eticamente, da soggetti come Brunori (che, a giudicare da certi discorsi che si sentono oggigiorno, non sono pochi). Ignorano – o fingono di ignorare - quasi del tutto le opere e le parole di uomini e donne straordinari quali Edward Snowden, Laura Poitras, James Natchwey, Daniel Baremboim, Bruce Dickinson, Sebastião Salgado, Chesley Sullenberger, Mohamed Ben Kilani, Johnny Greenwood, Ken Loach, Gherardo Colombo e molti, molti altri.
Ha ragione Michele Monina, che di Brunori ha scritto: “Sentire brani che sembrano provini, per come suonano e per come sono composti, infastidisce. Si capisce che sarebbero potuti diventare altro, decisamente meglio, e che invece no, ci si è fermati subito, perché tanto si è naif, va bene così.”.
Questo è l'indie, in Italia. Un'opportunità come un'altra per godere di visibilità e delle sue supposte benefiche conseguenze.
L'arte al servizio del principe.
Come sempre.

sabato 25 aprile 2020

TU SÌ QUE VALES! Il talento di Morgan rimosso dall'invidia.


Morgan nel videoclip di Sono=Sono.
Ci sono storie che hanno bisogno di essere raccontate. Il semplice dare loro un'esposizione, quanto più possibile dignitosa, spesso permette a chi le ascolta o legge di capire un po' meglio le persone e gli eventi della vita. Questa è una di quelle storie.
Quando penso a Marco 'Morgan' Castoldi, l'immagine che sempre mi si presenta è quella di una persona sofferta, devastata dagli eventi della vita, ma soprattutto di un talento cui è sfuggito – pare definitivamente – il controllo. Un talentuoso divenuto, suo malgrado, la caricatura di se stesso, e che, ad oggi, fa parlare di sé più per motivi di costume che per la propria arte.
Eppure non è stato sempre così (urge ricordarlo, in quanto la sua prima incarnazione artistica, come leader dei cerebralmente morti Bluvertigo, sembra completamente dimenticata, a favore di quella ultima, tardo maudit).
Detto per i tanti 'banfoni' o 'sboroni' – a seconda del posizionamento longitudinale sulla penisola –, e che stagionalmente, da decenni, si riempiono la bocca di elogi sperticati per i grandi dischi della storia del rock, senza  cognizione di causa alcuna (spaziando spudoratamente dai primi Pink Floyd agli ultimi Metallica, come fossero accostabili): Morgan è il nome – ed il nume – dietro uno dei dischi più belli della musica italiana, e non solo, di tutti i tempi. Un lavoro serenamente accostabile a The Dark Side Of The Moon, Low, Black Celebration, Broken, Kid A e, per restare in casa, Crueza De Mä e Anime Salve. Il suo titolo è Zero (Ovvero La Famosa Nevicata Dell'85). Riascoltandolo in questi giorni di clausura, sono rimasto sorpreso al constatare che il piacere e la meraviglia per questo disco erano ancora quelli della prima volta.
Uscì nell'ottobre del 1999. Un mese prima,Trent Reznor, con il suo progetto Nine Inch Nails, aveva pubblicato The Fragile, disco seminale nella storia della registrazione digitale, della ricerca sonora e dell'elaborazione del suono. Soluzioni alle quali Morgan e i suoi non potevano aver attinto per questioni cronologiche (all'uscita di The Fragile, Zero era praticamente già missato), ma che risultano tutte presenti negli straordinari sedici brani del disco.
Zero è quanto di meno scontato e provinciale si potesse sentire al tempo – ma, a ben vedere, anche oggi, e questo dovrebbe far riflettere su cosa, da allora, è stato effettivamente prodotto in Italia. Fu un disco deludente sotto il profilo commerciale, perché rifiutava di parlare alle pance non solo degli appassionati di musica italiana, ma persino a quelle del proprio seguito - rivelatosi, in questo modo, come il classico bacino desideroso di perpetuare all'infinito i momenti cosiddetti belli, e, di fatto, ostacolo ad ogni movimento di crescita. Portò in Italia un suono che non esisteva, tematiche che non venivano affrontate, una commistione di generi e stili fino allora sconosciuta, un'attenzione maniacale al dettaglio che si pensava esclusiva di altri ambiti nazionali. La potenza e la limpidezza estreme della registrazione sono tratti che ancora colpiscono, all'ascolto. Morgan, quando interrogato a proposito di questo disco, ama scherzare dicendo, michelangiolescamente, che ignora come abbiano potuto, lui e i suoi Bluvertigo, farlo così bello. Sano amore genitoriale per la prole, praticamente. Ma che tradisce quella che fu, già allora, la percezione inconscia, da parte dei membri del gruppo, riguardo l'impossibilità di superarsi, dopo un simile traguardo. Quanto meno, in quella veste.
Questo, è stato Morgan. Prima delle Canzoni Dell'Appartamento. Prima di X Factor. Prima di diventare – ahinoi – spiacevolmente afono. Prima di arrivare ultimo al festival di Sanremo. Prima di mutarsi in oggetto del gossip. È stato l'autore di un disco al quale chissà quanti, in gran segreto, hanno attinto, nelle tante giornate prive di ogni traccia d'ispirazione. Un disco talmente perfetto che persino l'arrangiamento dell'unica cover presente (Always Crashing In The Same Car, di David Bowie) è stata impiegato dal suo autore in luogo dell'originale.
Ed era questo anche prima di essere mandato a fare in culo da uno come Bugo.
Per tornare ai giorni nostri, colpisce vedere Morgan costretto a reagire in maniera adolescenziale ai capricci di uno che, molto probabilmente, nemmeno sa con chi ha a che fare. Onestamente: cosa pensereste di un giovane musicista che tratta con sufficienza, per esempio, Roger Waters, dopo che questo gli ha dato dei consigli paterni e preziosi? Direste che se ne deve guardare dal trattare in quel modo uno che ha partorito per intero The Dark Side Of The Moon, ed imparare al più presto ad essere umile – giusto? Sincero sembra una canzone che - per come percepisco Morgan dal punto di vista artistico - l'ex Bluvertigo deve avere scritto ed arrangiato in un'ora, poco più. E nonostante ciò risulta superiore a tutta la merda sentita prima e dopo.
Ringrazia il cielo, se sei su questo palco / Rispetta chi ti ci ha portato dentro / ...”.
Sono i versi modificati che hanno fatto saltare i nervi a Bugo.
Scommetto che, in casa, non ha nemmeno un disco dei Bluvertigo.

martedì 21 aprile 2020

ONE WORLD. L'ipocrisia senza limiti delle 'star' del 'pop'.


Senza parole.
So di insistere non poco sul tema, come fosse una questione di vita o di morte. Come vi fosse, in questo, qualcosa di personale (e qui, un fondo di verità, c'è: da giovane, volevo fare il musicista, ed ancora, nei momenti di delirio, mi crogiolo in questo sogno divenuto velleità). Ma trovo sconcertante che, tra le notizie che si suppongono di rilievo, in questo momento di emergenza, trovi posto la “lettera d'amore per il mondo” (così è stata definita One World nel giornale-radio di Radio Rai 3) di Lady Gaga, Rolling Stones, Andrea Bocelli, Zucchero Fornaciari, Elton John, Paul McCartney, Stevie Wonder, Chris Martin, Billie Eilish, Michael Bublè, Eddie Vedder, Bruce Springsteen ed altri grattaculi dello spettacolo. Sconcertante che un notiziario dia voce a simili figuri. Sconcertante che si possa credere alla sincerità, al disinteresse di una simile iniziativa. Così come è sconcertante realizzare quanto inappagabile sia la sete di fama, di riconoscimento, di gratificazione personale, di visibilità da parte di artisti il cui successo non è certo in via di consolidamento, bensì acclarato (in alcuni casi, da decenni). Prendete i Rolling Stones. Un gruppo nato con i Beatles, la cui ricerca sonora si è fermata nei primi anni '70, e che, una volta azzeccata la formula, si è trascinato indifferente lungo i decenni senza più partorire una nota o una parola con un minimo di rilievo, ma sempre, costantemente salutato dal successo. Ci si aspetta che persone così si sentano professionalmente soddisfatte: tasche e pance piene, riconoscimenti planetari anche a fronte di prodotti vergognosi, contratti pubblicitari milionari e sempre, costantemente sulla cresta dell'onda. Cristo: hai quasi 80'anni. Avrai voglia anche tu di andare in pensione, dopo un vita di rock 'n roll, no? Di rinchiuderti in un anziano silenzio da rendita milionaria. No. Sono così dipendenti dagli omaggi che un seguito di babbei ha tributato loro attraversando due generazioni, che anche nel mentre si cambiano il catetere, loro scrivono - si fa per dire – la “lettera d'amore al mondo” (si noti, qui, l'impronta magalomaniacale: per un pubblico al di sotto del miliardo di persone, questi, non muovono un dito). Perché senza quel mondo – e qui sta la mia tesi -, senza quell'idea di consenso planetario costante, senza la tranquillità conferita dalla certezza dell'ovazione anche a seguito di una scorreggia nel microfono, lor signori non riescono a fare nulla, neanche prendere in mano una penna. Nessuno sembra realizzare che questi esseri decrepiti ci parlavano – per modo di dire – negli anni '60 e pretendono di fare lo stesso anche oggi, con in più la presunzione di avere ancora qualcosa di buono da dire, di essere autorevoli, come un premio Nobel che parla a distanza di anni. Con tutto quanto si può dire, in termini critici, di Massimo Recalcati autoproclamato fan di Matteo Renzi e, subito dopo, titolare di un programma su Rai 3 sostanzialmente incentrato sulla propria persona, è sua la tesi, che pienamente condivido, sui padri incapaci di consegnare ai figli un'eredità, sia essa spirituale, materiale o composta di entrambi gli elementi, perché incapaci a compiere quel passo indietro senza il quale non c'è trasmissione che possa avvenire (certo: la tesi, se pensiamo ora in cosa è consistito il renzismo, è capziosa, ma rimane, a mio parere, assai condivisibile, e la si può trovare nel libro-intervista Patria Senza Padri). “Uscire di scena, saper tramontare, è la saggezza più grande perché rivela la capacità di non credere troppo al proprio Io, a quell'Io che crediamo di essere e che Lacan definiva come la 'follia più grande' dell'uomo.”. Tesi non facile, se si è a corto di concetti di psicoanalisi, ma estremamente esatta, mi permetto di dire. Gli Stones sono i padri abbarbicati alla chitarra e alla cassaforte, determinati a non mollare né la prima né, tantomeno, la seconda. I fan e gli organi di informazione (ormai puntualmente acritici e prostrati ad ogni sorta di logica commerciale) i figli destinati a ricevere da questi padri, quando sarà il momento, null'altro che una manciata di polvere. Il discorso vale, naturalmente, per tutti gli altri. Molti hanno rappresentato un'epoca: gli altri, più semplicemente, una o due stagioni della nostra vita, se va bene. Nessuno – dico: nessuno – ha però il merito – la grandezza – di averci consegnato parole che possano oggi, in questa emergenza planetaria, costituire un approdo di senso e quindi dare conforto alle tante vite più o meno devastate da quanto sta accadendo. Quello della pietà rappresenta il più ignobile dei ricatti: vuoi salvare il mondo dal Coronavirus? Seguici – dicono gli artefici di One World -, e noi aiuteremo i poveri medici ed infermieri che lo stanno combattendo. Per inciso: gli stessi medici ed infermieri che in questi venti e più anni hanno fronteggiato, nell'indifferenza di lor signori, impegnati come erano nella promozione dei loro rispettivi spettacoli e in infiniti eventi legati a questi, emergenze sanitarie ed umanitarie devastanti, molto spesso in prima linea. Che nessuna voce critica si alzi per biasimare questi professionisti dell'ego, è un dramma culturale di portata pari all'epidemia in corso.

lunedì 13 aprile 2020

LA MUSICA CHE GIRA INTORNO. I concerti in 'streaming' durante l'emergenza Coronavirus.


Thom Yorke nel video per 'No Surprises'.
Mi siano concesse alcune parole riguardo a quello che reputo il più eclatante sciacallaggio di questa emergenza: i concerti in rete delle cosiddette stelle della musica, ovvero l'ennesima occasione per godere di visibilità a spese di chi è davvero in difficoltà.
A volte penso che non esista calamità naturale alcuna, quale è da considerarsi, presumibilmente, la pandemia in corso, che possa ridurre una celebrità della musica al silenzio. Lasciamo perdere i politici e gli ospiti di professione i quali rappresentano il fronte patologico del fenomeno. Un musicista si pensa sia capace di silenzio, di ritiro, di eccezionale introspezione, quanto meno per favorire il proprio processo creativo. È pertanto sconcertante constatare come, in tempo zero, lo star system, del tutto noncurante del reale impatto che lo stop alla maggior parte delle attività umane sta avendo sulle persone, si sia attivato per ammorbare giornate già difficili di loro con le dirette dei professionisti indiscussi della canzonetta – probabilmente convinti che dalle loro ugole e strumenti fuoriesca sempre e solo la perfetta colonna sonora di ogni momento dell'umano vivere.
Da ormai un mese, gli onnipresenti Jovanotti, Gianna Nannini, Laura Pausini, Modà, Nek, Marco Masini, Coma_Cose, Brunori Sas, Francesca Michielin, Fiorello (!), Emma Marrone, Fedez, Tiziano Ferro, intrattenitori che reputano la propria esperienza artistica – si fa per dire – come indispensabile, rubano capacità al web, convinti, come probabilmente sono, che persino immersi negli aspetti letali di questa emergenza noi si senta il bisogno del loro particolare, specifico, insostituibile conforto (suppongo vi sia, in effetti, qualcuno che ne avverte la necessità, nel cui caso è chiaro che il Covid 19 risulta come il minore dei mali). Non un aiuto concreto: quattro accordi di chitarra e via: la vita torna a sorridere come per incanto.
Pertanto, quando mia moglie mi ha riferito, ieri l'altro, dell'iniziativa di Thom Yorke e soci – ovvero quella compagine straordinaria che va sotto il nome di Radiohead - di intrattenere la popolazione mondiale in reclusione da Coronavirus per mezzo di concerti settimanali - notizia che mi era sfuggita e per la quale le sono estremamente grato -, ho avuto un attimo di sorpresa. Per come li conosco, mi sembrano persone non accecate dall'enorme successo conseguito, con ancora i piedi a terra, riservate in maniera non patologica ed intelligenti. Caratteristiche che mal si attagliano a chi opta per una simile iniziativa (Ennio Morricone, ad esempio, ha affermato in un'intervista che, in questo periodo, difficile in particolar modo per una persona della sua età, non c'è musica nelle sue giornate, non gli sembra che il contesto consenta in alcun modo di godere di essa, ritenendo invece più adatto un silenzio improntato alla riflessione). Ho quindi subito verificato i dettagli di questa notizia, scoprendo con grande gioia che, in realtà, il quintetto inglese ha semplicemente contribuito ad un aumento del ventaglio di scelte di prodotti in streaming rendendo disponibili gli integrali di alcuni loro concerti risalenti anche a 20 e più anni fa, così risparmiandoci vergognose dirette da salotti di casa grandi come campi da pallavolo (Bruce Springsteen ed Elton John), strimpellate da oratorio (Nek) o imbarazzanti cantate pseudoreligiose da cattedrali deserte (Andrea Bocelli). Con l'ironia che li contraddistingue (facile, devo ammettere: i loro colleghi sono così stronzi da far apparire cordiale persino Donald Trump), hanno subito espresso incertezza riguardo a cosa giungerà prima a conclusione: se il loro archivio o la reclusione da pandemia. Ben detto! E così hanno presentato il primo concerto di questa serie, registrato nell'autunno del 2000 in una tensostruttura nella campagna fuori Dublino, e coerentemente intitolato Live From A Tent. La band vi appare ritratta in uno dei tanti, irripetibili momenti che hanno caratterizzato, specie nel primo decennio di vita, la loro evoluzione artistica: la tournée per la promozione di Kid A, un disco che, bellezza a parte, rifiutava di parlare alle pance del seguito più fedele del gruppo – al tempo già numerosissimo – per rivolgersi, invece, alle proprie, per dare libero sfogo ad un'appetito creativo che, considerati i risultati, mordeva da tempo. Una coraggiosa scelta registica riprende i cinque musicisti con la tecnica del circuito chiuso, conferendo a molte delle esecuzioni un carattere distopico, orwelliano. La giovane età di ognuno traspare ad ogni ripresa, e commuove come tutte le cose e le persone di un tempo passato. Su tutte, le immagini del bassista Colin Greenwood - quella sua tipica postura con il fianco al pubblico, timido, sorridente, concentrato, immerso nella bellezza della propria musica - sono di quelle che rimangono. Il concerto è a dir poco perfetto, ed il brano che ne costituisce l'apertura, The National Anthem, è qui, a mio parere, nella sua più bella resa sonora di sempre. Davvero un'esperienza da non perdere, credete (sempre che amiate la musica e non siate semplicemente bisognosi di uno 'spaccatempo'). In altre parole: consapevoli che molte delle cose che avevano da dire erano già state espresse in molti dei lavori precedenti questi anni, non hanno fatto che riproporli. Ecco tutto.
Alla ricerca disperata di una lettura in grado di dare senso alle cose non solo di questi giorni, mi sono imbattuto, con grande fortuna, nel bellissimo editoriale che Lester Bangs scrisse all'indomani della morte di John Lennon. È uno scritto di disarmante sincerità, capace, in poco più di una pagina, di esprimere, oltre al dolore per la perdita di 'un grande uomo' e per la fine senza sequel di un sogno all'epoca già vecchio di due lustri, il disagio per il travisamento che gli stessi che lo piangevano avevano operato sulla sua figura. Un artista che, ricordiamolo, lasciati i Beatles (non esattamente un passo alla portata di tutti), aveva optato per una lunga assenza dalle scene, ritenendo di non avere, quanto meno in quel momento, qualcosa da dire. In altre parole, e per riagganciarci al discorso di partenza, John Lennon, seppur nella sua grandezza, non si riteneva indispensabile, al contrario dei tanti marchettari che in questi giorni intasano la rete con il proprio ego ed il proprio vuoto artistico.
Meditate, gente.
Meditate.

giovedì 26 marzo 2020

L'ITALIA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS. Uno sfogo.

Il 'direttore' del TG 40ena, Maccio Capatonda.
Non che prima d'oggi fossimo riconosciuti come una compagine di valorosi (dal tempo della caduta del fascismo, quando il paese passò dall'essere quello del consenso pressoché totale a Mussolini ad uno di resistenti della prima ora, noi italiani, come popolo, ci siamo sempre distinti per un talento innato, felino, nell'individuare la posizione più comoda). Con l'emergenza 'Coronavirus', però, tutte le facciate sono andate in frantumi (e con esse anche i miei coglioni, ingrossati a dismisura da questa situazione che, ad oggi, 26 marzo, ha cominciato a produrre su di me il proprio, inesorabile logorio dei nervi, rendendomi quantomai irritabile). Saluti negati o accennati timidamente, sparizioni, latitanze, autoreclusioni ormai lunghe di un mese, delazioni, distanze prima sconosciute ed una sorprendente, supina ubbidienza al dettato del governo, dopo avermi inizialmente infiammato con una parvenza di educazione civica che non reputavo possibile, si sono infine rivelati in tutta la loro cruda realtà: una fottuta, meschina paura di morire (quanto di più maledettamente egoista, cioè, l'animo umano sia in grado di produrre: altro che senso civico!). Chi nutre questo tipo di timore è solitamente una persona che ritiene la propria esistenza indispensabile (Berlusconi, ad esempio, deve essere uno che, al solo sentir nominare la parola, avverte subito il bisogno di passare all'azione, possibilmente scopando, per rimuoverne, seduta stante, i nefasti effetti sulla psiche). Uno può forse chiudere un occhio se questa indispensabilità assume le sembianze - che ne so? - di un Claudio Abbado, un Yuri Chechi, un Lucio Parenzan, esistenze che davvero hanno fatto la differenza - e che, suppongo, visti i risultati raggiunti, abbiano sovente fantasticato sulla propria, specifica indispensabilità. Ma i tanti ominichhi, i travet, le casalinghe disperate, i pavidi inguaribili e gli sfigati cronici che popolano e - purtroppo - ripopolano il paese: dove pensano risieda, la loro indispensabilità? Persone morte dentro da anni, incapaci di una sola parola che venga dal cuore o dalla mente (in pratica, dei cazzari), si manifestano oggi in ogni dove ricoperti da mascherine improvvisate od acquistate a peso d'oro, nel tentativo - questo sì - davvero disperato di preservare le loro inutili esistenze. Quest'oggi ho così tanto sofferto lo stile di vita imposto dall'emergenza (mentre portavo fuori il pattume, un fottuto drone municipale ha fatto la sua comparsa sopra di me), e la modalità malata con la quale molte delle persone che conosco la stanno vivendo, che ho augurato a me stesso di contrarre il contagio, così da avere, finalmente, qualcosa di concreto da dare in pasto ai tanti incompetenti che in questi giorni sembrano aver abbandonato le fogne, qualcosa con cui giustificare la vita del cazzo che tutti sembrano avere deciso di condurre - naturalmente inconsapevoli di rendere merdosa, come conseguenza, anche quella di chi, come me, accetterebbe fin da ora l'invito per un after hours, pur di farla finita con questa recita. Forse ha ragione quello stronzo del dottor Jessen - che, dopo avere per anni trattato casi di gente con testicoli grandi come cocomeri, due cazzi e buchi del culo al posto dell'ombelico, di mostri, se ne intende -: gli italiani stanno usando l'emergenza 'Coronavirus' per farsi una bella siesta. Persino con il suo fare snob da divo della trash tv, riesce a sembrare più simpatico di Roberto Burioni (altro soggetto convinto della propria indispensabilità: ma ci rendiamo conto di pagare il canone RAI per vedere Fazio e Burioni?) Per ciò che mi riguarda, questo periodo della nostra storia nazionale resterà negli annali per il solo guizzo di vita intravisto in un paesaggio integralmente popolato da zombi (grazie, Alberto Arbasino: hai tenuto alto il concetto di cultura fino all'ultimo): il TG Quarantena di Maccio Capatonda, il modo giusto di trattare l'emergenza per quello che è veramente: "una cagata pazzesca".

WORD 2020. Un 'pippotto'.


Nanni Moretti in Palombella Rossa.
Lui è il nostro letterario (sic).”.
Chi parla male, pensa male e vive male, diceva il protagonista di Palombella Rossa. Giudizio tanto severo quanto profetico, a giudicare non solo dalla sciatteria linguistica con la quale, oggi, si ignora spudoratamente la differenza tra un sostantivo ed un aggettivo, ma anche dalla manifesta degenerazione qualitativa dei rapporti interpersonali, dovuta all'incapacità – cronica, quasi un'invalidità - a comunicare il proprio pensiero - e senza includere, in questa sommaria analisi, le omissioni dovute alle tante nevrosi che attanagliano il vivere contemporaneo.
Ci so fare, con le parole. O, forse, farei meglio a dire: ho imparato ad usarle, le parole.
Ho recentemente riletto alcuni miei scritti, risalenti a più di dieci anni fa. Con grande imbarazzo, mi sono trovato di fronte ad una prosa immatura ed inadeguata ai fini prepostimi (la critica musicale e di costume), tipica delle persone con grandi velleità, ma non avvezze alla pratica e alle regole della scrittura. Per mia fortuna, un certo numero di buone letture ed un serio impegno autocritico seguito a quei primi, modesti tentativi, nel tempo ne hanno mutato la forma, rendendola così comprensibile ai più (pecche stilistiche ed una certa pesantezza ancora permangono, ma, si sa, non c'è limite al miglioramento). A margine di ciò, ha contribuito ad una maggiore attenzione all'impiego delle parole la motivazione datami dai tanti apprezzamenti ricevuti in questi primi anni di vita di Sala Colloqui – sebbene l''eccesso di rialzo' di alcuni di essi sia stato dettato più dall'affetto e dall'amicizia che legano me ed i miei generosi ammiratori, che dal reale valore degli articoli apparsi sul blog.
Non saprei dire quando l'impiego attento della parola, orale e scritta, è divenuto, per me, di vitale importanza. Sono stato uno studente mediocre in ogni materia sostanzialmente per l'intera durata del mio travagliato percorso di studi. Poi, in età adulta, è successo qualcosa. È fuori di dubbio che, al tempo del primo tentativo su carta (la recensione di un concerto di Roger Waters), fosse la necessità famelica di gratificazione personale a guidare lo sforzo, allora titanico, del dare vita a qualche riga cui poter apporre la firma (e questo dimostra come la sete di fama, quando assunta a motore unico della creatività, sia semplicemente garanzia di memorabili brutte figure). Penso sia cominciato tutto per questioni legate al lavoro, quando ero addetto alla sicurezza aeroportuale ed ero soggetto all'obbligo normativo di redigere delle relazioni di servizio. Questo genere di - chiamiamola così - composizione, generata in ambito burocratico e militare, diede me, nella veste di occasionale redattore, precetti elementari, presenti in ogni corso di scrittura: rendere sempre chiaro al lettore chi ha fatto cosa, eventualmente 'a' e 'con' chi e quando. Così, le tante incomprensioni dovute alla prosa farraginosa ed al lessico improprio (eufemismo) dei primi tentativi, si trasformavano in altrettanti inviti da parte del mio capo a nuove stesure che fossero più chiare, snelle e maggiormente consapevoli delle persone estranee ai fatti cui le relazioni venivano inviate per conoscenza. Questo fino a quando l'orgoglio non ha preso il sopravvento, e l'essere reputato persona non in grado di produrre una comunicazione efficace mi è sembrato inaccettabile e poco professionale. Imparare a scrivere, ha comportato, per me, due obblighi: un ritorno allo studio della grammatica e un duro lavoro di trascrizione, finalizzato ad apprendere, attraverso testi di pregevole fattura stilistica, le soluzioni indispensabili a tutti coloro che intendano rendersi comprensibili attraverso la parola scritta (una tecnica, quest'ultima, che dai tempi più remoti ha sempre portato a dei risultati: non si dimentichi, infatti, che persino un gigante come Johann Sebastian Bach affinò inizialmente la propria tecnica compositiva proprio trascrivendo le partiture di quelli che egli riteneva essere i grandi strumentisti del suo tempo, esattamente come molti di noi, in tempi più recenti, hanno fatto con quelle del rock, del pop e - per i più arditi - del jazz, sebbene con risultati imparagonabili). Anche la passione per il cinema ha contribuito - e non poco - a fornire modelli di scrittura cui, ancora oggi, sento di attingere incessantemente. La prima sceneggiatura con la quale mi sono confrontato - tanto e tale era stato l'entusiasmo per la pellicola che ne dava sfoggio - fu American Beauty, il bellissimo film di Sam Mendes del 1999, scritta dalle mani di Alan Ball il quale, oltre a fornire un modello esemplare, fu per me la porta verso la scoperta di suoi colleghi altrettanto meritevoli di plauso, quali Aaron Sorkin e Grant Heslov - e la prova vivente che, al prezzo di grandi sforzi, è possibile iniziare una carriera anche dopo i 40 (Ball era quasi sul lastrico quando riuscì a vendere la sceneggiatura che, l'anno seguente, fruttò lui un meritatissimo premio Oscar). Mi sorprende che testi di questa fattura - penso, ad esempio, a The Social Network, del primo, e a Good Night and Good Luck del secondo) trovino spazio esclusivamente nelle scuole di cinema, nel mentre vengono del tutto trascurati dai programmi di insegnamento di scrittura e di lingua Inglese sia alle medie che alle superiori (quando, risaputamente, i giovani ricevono l'imprinting che maggiormente caratterizzarà i loro sforzi in questi comparti nei massimi percorsi di studio come nella vita adulta). Ad oggi, mi sento di dire, pochi altri testi possono mostrare altrettanto efficacemente come si scrive un dialogo (bando all'esterofilia: è giusto ricordare in questa sede due cavalli di razza nostrani quali Paolo Sorrentino ed Umberto Contarello, le cui mani hanno prodotto La Grande Bellezza, una delle sceneggiature più brillanti del cinema italiano di sempre, creativi cui va tributato il plauso per il dialogo della terrazza tra il protagonista Gep e la sua amica Stefania, un scambio al fulmicotone che vale da solo l'intero film).

Il risultato di tutto questo, per concludere, è la frase riportata in apertura. Professionisti da migliaia di euro al mese che si esprimono come semianalfabeti (quali di fatto sono),  e che in questo modo tradiscono disamore per la propria attività  e quella altrui.

Non è un lapsus: sono errori ripetuti in assoluta inconsapevolezza, e, sovente, mai corretti dagli astanti.

giovedì 12 marzo 2020

NOTTE HORROR. Il 'monologo' di Diletta Leotta a Sanremo.


"Essere o non essere? Questo, è il problema."
Ho frequentato il teatro di prosa per un tempo sufficiente a poter dire, con cognizione di causa, che il monologo è genere squisitamente teatrale, nel quale gli attori chiamati ad interpretarlo sono portati, per tradizione, alla propria, massima espressione virtuosistica, similmente a quanto avviene in musica con l'assolo. Si da per scontato che esso – il monologo – sia tributato al più bravo, al fuoriclasse della compagnia, e che da quest'ultimo sia spesso visto come riconoscimento della propria eccellenza, sovente conseguita al prezzo di grandi sacrifici, tipici di questa particolare scelta di vita. Si pensi – per fornire, qui, un esempio pop – alla performance di Jack Nicholson in The Shining di Stanley Kubrick, dove la pazzia crescente del protagonista è resa attraverso i tanti monologhi presenti nella sceneggiatura, e che ancora oggi, a 40'anni di distanza, rappresenta la più grande interpretazione nella carriera dell'attore statunitense (e quanto il cinema abbia mutuato dal teatro di prosa, e sia in qualche modo ed esso debitore, è argomento esaustivamente trattato ed appurato). Esternamente a questi ambiti, però, il termine vanta un'accezione prevalentemente negativa, in quanto connota spietatamente l'atteggiamento di coloro di parlano come da un pulpito, sordi alle parole altrui ed incapaci di dialogare. Per nuovamente esemplificare: il papa, quando parla, tiene un discorso. Piaccia o no, ne ha titolo e, sovente, l'autorità. Ma dire che ha fatto un monologo è invece diplomaticamente irrispettoso ed obiettivamente infamante. Implica un parlare addosso più tipico dei suoi predecessori medievali che dei prelati assurti in tempi moderni al soglio pontificio. Similmente, dire che qualcuno ha fatto un monologo, non è esattamente un complimento.
Per tutti questi motivi, quando YouTube, giorni fa, mi ha proposto 'monologo di Diletta Leotta a Sanremo' per mezzo il suo fantasmagorico algoritmo, la curiosità ha avuto il sopravvento, facendomi così avventurare in sei minuti di imbarazzo, seguiti da giudizi sessisti bestemmiati a voce bassa che non mi è stato possibile trattenere.

Da tempo, al Festival di Sanremo, va di moda impiegare il termine con evidente abuso. Nessuno dei suoi ospiti – e prego tutti di risparmiarmi la descrizione del tipo umano che maggiormente alletta la dirigenza artistica della manifestazione – tiene un discorso: fanno monologhi. Come Laurence Oliver.

E così è capitato anche alla nostra di tenerne uno. Sulla bellezza (un argomento così ricco di asperità che persino i filosofi, quando si occupano di estetica, si guardano bene dell'affrontare con la guardia abbassata). Avevo già avuto qualche sospetto quando, in una recente pubblicità di intimo, Leotta è apparsa in uno spot con tette strizzate e zero battute. Nemmeno uno slogan striminzito (curioso, per una che solo qualche mese dopo riceve un invito a monologare).

Ora, che un uomo, di questi tempi, attacchi una bella figa perché parla, si sa, non porta lontano (a proposito: congratulazioni alle donne di MeToo, che giusto ieri hanno assicurato Harvey Weinstein a 23, meritati anni di reclusione, dopo averlo denunciato in branco e non prima di essersi assicurate rendita a Hollywood e proprietà a Laurel Canyon). Invito pertanto tutti voi a munirvi di un sacchetto per il vomito e a visionare in autonomia il filmato del monologo in questione, che trovate di seguito (se poi ne avete voglia, fatevi due risate leggendo i commenti disparati che questa performance ha scatenato).

Personalmente, rimango con un dubbio – per quanto tutt'altro che amletico -: ma, gli autori del Festival di Sanremo, chi sono? Scrivono queste mostruosità perché vi credono, o più semplicemente, attagliano forma e contenuto al tipo di pubblico cui sanno bene di rivolgersi (quesito retorico: la risposta esatta è la numero due)? Quanto a Diletta Leotta, colpisce l'assoluta assenza di vergogna con la quale si è fatta il processo in diretta televisiva, naturalmente assolvendosi con formula piena (io so' io e voi nun siete 'n cazzo). Ha solo un alibi: l'aver ricevuto un tale compenso da permettersi, dopo questa figura barbina, di farsi dimenticare per un po', magari svernando ai tropici in una struttura sei stelle deluxe (da dove è però certo verrà inviato via social un numero di scatti con maglietta bagnata che nemmeno Salgado in tutta la sua carriera ha numericamente mai fatto).

Dobbiamo, però, essere onesti. Né il Festival né la prestazione di Leotta sono risultati un insuccesso. Tutt'altro. Ottimi indici di ascolto e grande favore per musica, i testi ed ospiti.
Al che si giunge al nocciolo della questione: il pubblico di Sanremo e quello della televisione generalista.
Il primo è vecchio, decaduto, figlio mediocre di quella piccola e borghesia imprenditoriale che, in tempi non sospetti, ha fatto dell'Italia quello che non era: un paese industrializzato. Che in una manifestazione come il Festival vedeva davvero il meritato svago dalle lunghe, spesso dure, giornate di lavoro - e nella presenza all'Ariston l'attestazione di un benessere consolidato. Ha vissuto nell'unica incarnazione concessagli, il baüscia, protagonista della trasformazione della Costa Smeralda in un arcipelago di località da pappone con prezzi da usura, e della riviera di ponente in un buen ritiro a poche miglia dalla salvezza fiscale. Pretendere anche solo un pensiero da una categoria che altro non ha saputo concepire se non il proprio, particolare interesse, è pia illusione. Che la stessa partorisca un pensiero critico di fronte ad un delirio come quello appena ascoltato, fantascienza.

Il secondo, invece, è il popolino ormai stracotto da decenni di palinsesti televisivi a guida unica, completamente defraudato di ogni possibità di scelta razionale, ma non per questo incolpevole della propria situazione. È il teledipedente così come profetizzato da David Foster Wallace, privo degli strumenti culturali - metalinguistici - necessari a leggere tra le righe, ad interpretare parole ed azioni.

Con un siffatto pubblico, Diletta Leotta non ha nulla da temere.

Considerato il successo, c'è da attendersi il bis, con un bel monologo sul sesso.
Speriamo, almeno, ci risparmi gli esempi con nonna Elena.