giovedì 26 marzo 2020

WORD 2020. Un 'pippotto'.


Nanni Moretti in Palombella Rossa.
Lui è il nostro letterario (sic).”.
Chi parla male, pensa male e vive male, diceva il protagonista di Palombella Rossa. Giudizio tanto severo quanto profetico, a giudicare non solo dalla sciatteria linguistica con la quale, oggi, si ignora spudoratamente la differenza tra un sostantivo ed un aggettivo, ma anche dalla manifesta degenerazione qualitativa dei rapporti interpersonali, dovuta all'incapacità – cronica, quasi un'invalidità - a comunicare il proprio pensiero - e senza includere, in questa sommaria analisi, le omissioni dovute alle tante nevrosi che attanagliano il vivere contemporaneo.
Ci so fare, con le parole. O, forse, farei meglio a dire: ho imparato ad usarle, le parole.
Ho recentemente riletto alcuni miei scritti, risalenti a più di dieci anni fa. Con grande imbarazzo, mi sono trovato di fronte ad una prosa immatura ed inadeguata ai fini prepostimi (la critica musicale e di costume), tipica delle persone con grandi velleità, ma non avvezze alla pratica e alle regole della scrittura. Per mia fortuna, un certo numero di buone letture ed un serio impegno autocritico seguito a quei primi, modesti tentativi, nel tempo ne hanno mutato la forma, rendendola così comprensibile ai più (pecche stilistiche ed una certa pesantezza ancora permangono, ma, si sa, non c'è limite al miglioramento). A margine di ciò, ha contribuito ad una maggiore attenzione all'impiego delle parole la motivazione datami dai tanti apprezzamenti ricevuti in questi primi anni di vita di Sala Colloqui – sebbene l''eccesso di rialzo' di alcuni di essi sia stato dettato più dall'affetto e dall'amicizia che legano me ed i miei generosi ammiratori, che dal reale valore degli articoli apparsi sul blog.
Non saprei dire quando l'impiego attento della parola, orale e scritta, è divenuto, per me, di vitale importanza. Sono stato uno studente mediocre in ogni materia sostanzialmente per l'intera durata del mio travagliato percorso di studi. Poi, in età adulta, è successo qualcosa. È fuori di dubbio che, al tempo del primo tentativo su carta (la recensione di un concerto di Roger Waters), fosse la necessità famelica di gratificazione personale a guidare lo sforzo, allora titanico, del dare vita a qualche riga cui poter apporre la firma (e questo dimostra come la sete di fama, quando assunta a motore unico della creatività, sia semplicemente garanzia di memorabili brutte figure). Penso sia cominciato tutto per questioni legate al lavoro, quando ero addetto alla sicurezza aeroportuale ed ero soggetto all'obbligo normativo di redigere delle relazioni di servizio. Questo genere di - chiamiamola così - composizione, generata in ambito burocratico e militare, diede me, nella veste di occasionale redattore, precetti elementari, presenti in ogni corso di scrittura: rendere sempre chiaro al lettore chi ha fatto cosa, eventualmente 'a' e 'con' chi e quando. Così, le tante incomprensioni dovute alla prosa farraginosa ed al lessico improprio (eufemismo) dei primi tentativi, si trasformavano in altrettanti inviti da parte del mio capo a nuove stesure che fossero più chiare, snelle e maggiormente consapevoli delle persone estranee ai fatti cui le relazioni venivano inviate per conoscenza. Questo fino a quando l'orgoglio non ha preso il sopravvento, e l'essere reputato persona non in grado di produrre una comunicazione efficace mi è sembrato inaccettabile e poco professionale. Imparare a scrivere, ha comportato, per me, due obblighi: un ritorno allo studio della grammatica e un duro lavoro di trascrizione, finalizzato ad apprendere, attraverso testi di pregevole fattura stilistica, le soluzioni indispensabili a tutti coloro che intendano rendersi comprensibili attraverso la parola scritta (una tecnica, quest'ultima, che dai tempi più remoti ha sempre portato a dei risultati: non si dimentichi, infatti, che persino un gigante come Johann Sebastian Bach affinò inizialmente la propria tecnica compositiva proprio trascrivendo le partiture di quelli che egli riteneva essere i grandi strumentisti del suo tempo, esattamente come molti di noi, in tempi più recenti, hanno fatto con quelle del rock, del pop e - per i più arditi - del jazz, sebbene con risultati imparagonabili). Anche la passione per il cinema ha contribuito - e non poco - a fornire modelli di scrittura cui, ancora oggi, sento di attingere incessantemente. La prima sceneggiatura con la quale mi sono confrontato - tanto e tale era stato l'entusiasmo per la pellicola che ne dava sfoggio - fu American Beauty, il bellissimo film di Sam Mendes del 1999, scritta dalle mani di Alan Ball il quale, oltre a fornire un modello esemplare, fu per me la porta verso la scoperta di suoi colleghi altrettanto meritevoli di plauso, quali Aaron Sorkin e Grant Heslov - e la prova vivente che, al prezzo di grandi sforzi, è possibile iniziare una carriera anche dopo i 40 (Ball era quasi sul lastrico quando riuscì a vendere la sceneggiatura che, l'anno seguente, fruttò lui un meritatissimo premio Oscar). Mi sorprende che testi di questa fattura - penso, ad esempio, a The Social Network, del primo, e a Good Night and Good Luck del secondo) trovino spazio esclusivamente nelle scuole di cinema, nel mentre vengono del tutto trascurati dai programmi di insegnamento di scrittura e di lingua Inglese sia alle medie che alle superiori (quando, risaputamente, i giovani ricevono l'imprinting che maggiormente caratterizzarà i loro sforzi in questi comparti nei massimi percorsi di studio come nella vita adulta). Ad oggi, mi sento di dire, pochi altri testi possono mostrare altrettanto efficacemente come si scrive un dialogo (bando all'esterofilia: è giusto ricordare in questa sede due cavalli di razza nostrani quali Paolo Sorrentino ed Umberto Contarello, le cui mani hanno prodotto La Grande Bellezza, una delle sceneggiature più brillanti del cinema italiano di sempre, creativi cui va tributato il plauso per il dialogo della terrazza tra il protagonista Gep e la sua amica Stefania, un scambio al fulmicotone che vale da solo l'intero film).

Il risultato di tutto questo, per concludere, è la frase riportata in apertura. Professionisti da migliaia di euro al mese che si esprimono come semianalfabeti (quali di fatto sono),  e che in questo modo tradiscono disamore per la propria attività  e quella altrui.

Non è un lapsus: sono errori ripetuti in assoluta inconsapevolezza, e, sovente, mai corretti dagli astanti.

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