Mike Bongiorno ed alcuni ripetenti inglesi nel 1983. |
Premesso
che, di questi tempi, niente e nessuno può più vantare una status
di sacralità, di intoccabilità, di esenzione dalla critica o dal
giudizio - sempre, beninteso, che coloro che intendono violare queste
condizioni, un tempo dettate dalla tradizione e oggi semplicemente
decadute, se ne assumano la piena responsabilità (“Chi è senza
peccato, scagli la prima pietra.”, Giovanni 8,3).
L'emergenza
per il Coronavirus ha definitivamente spento in me ogni traccia di
quello che ero fino a non molto tempo fa: una persona che, cresciuta
in una casa dove il capofamiglia ogni santo giorno leggeva il
Corriere della Sera dalla prima all'ultima pagina necrologi inclusi,
ha creduto a proprie spese negli pseudovalori della modernità quali
l'informazione e la rassegna-stampa (che è come dire la serie e il
suo spin-off). Oggi la quotidianità mi sembra così meschina,
inutile, priva di stimoli, da permettermi serenamente di ignorarla.
“Too much information”, cantavano i Duran Duran nel loro disco
più bello (e lo era veramente).
E
così eccomi a vagare tra libri già letti, dischi già ascoltati,
film già visti. Tutto pregevole, sia chiaro. Ma tutto nel regno del
déjà entendu. Con un'unica eccezione: i milioni di video di
repertorio presenti su You Tube.
In
passato, gli storici, dai più modesti ai più autorevoli,
risiedevano più o meno stabilmente, per motivi professionali
all'interno di biblioteche, archivi, fondazioni, istituti privati o
di stato, uniche menti in grado di unire in maniera intrinsecamente
coerente la mole spesso straordinaria dei documenti custoditi dalle
istituzioni citate. La storia che è stata impartita alla mia
generazione (1970) è, in parte, frutto di quel tipo di attività
storiografica.
Oggi,
come molti di noi ben sanno, la storia ha, nelle persone, un peso ed
una prospettiva ben diversi: la storia di cui ci nutriamo è infatti
una storia mediata (filtrata, cioè, dai media, televisione e
rete, in primis).
Può
risultare sconcertante, ma per ciò che riguarda il costume, per
quanto inconsciamente, siamo molto più influenzati da quella che è
stata l'opera – chiamiamola così – di un Mike Bongiorno che da
quella di un Italo Calvino (giusto per citare un nome che si pensa
culturalmente influente).
Un
esempio? Ecco qui.
Nel
lontano 1982, l'anchorman più celebre d'Italia era titolare
di un gioco a premi prodotto e trasmesso da Canale 5, che molti forse
ricorderanno per il titolo dalla grande presa emotiva: Superflash.
Era il tentativo - riuscitissimo – di espropriare la RAI del
monopolio trasmissivo e produttivo, offrendo agli italiani
televisivamente imberbi - ma già preda di un insidioso analfabetismo
di ritorno - un polpettone fatto di attualità, cultura generale e
spettacolo. Nel 1983, gli autori del programma invitarono alla
trasmissione i Depeche Mode, giovanissimi e ancora sconosciuti, in
Italia. Ma già il quartetto che di lì al 1996, cioè tredici anni
più tardi, non avrebbe sbagliato un disco. Dopo l'esibizione,
rigorosamente in playback come era d'uso nella televisione
italiana dell'epoca, i quattro, timidissimi ed ignari di quanto sta
per accadere loro, vengono dati in pasto al Mike nazionale per
l'intervista di rito. Dati l'evidente gap generazionale e la
sostanziale mancanza di seguito nel paese, Mike opta per il
trattamento 'bimbiminkia'. In sequenza: si prende gioco della parlata
di Dave (“Dave. Davide. Lui lo dice con un po' di accento.”);
libera la propria omofobia chiedendo a Martin se è un ragazzo o una
ragazza (“Are you a boy or a girl?”), salvo ritrattare (“I was
kidding.”); si prende gioco della pettinatura di Andy (“Sembra
Stanlio.”); elegge Dave a portavoce del gruppo, dando degli
ignoranti agli altri tre (“Questo deve essere il ragazzo più
intelligente dei quattro.”); pone domande imbarazzanti (“Siete
ragazzi moderni, ma vi vestite di nero – che è tanto triste. Why
don't you wear red, yellow, green?”) ed arriva financo a toccare
incuriosito i capelli di Dave, con fare da padre-padrone. Il tutto in
un misto imprevedibile di Inglese ed italiano che spiazza
completamente i quattro rendendoli impotenti di fronte a quello che,
suppongo, doveva essere apparso loro un anormale, e non un
presentatore. Gran finale: “Altre cose non hanno, da dire, perché
sono dei bravi ragazzi.”.
Cioè:
dei 20'enni che si presentano, negli anni '80, ad eseguire un brano
dal contenuto e dal suono di Everything Counts, per Bongiorno,
altre cose non avevano, da dire (al contrario, immaginiamo a questo punto, di
Bandolero con il suo Paris Latino od Irene Cara con What A
Feeling, fenomeni da baraccone probabilmente sottoterra già da
tempo e che proprio in quei giorni dominavano la Top 10
italica).
Ma
erano, appunto, gli anni '80, e simili atteggiamenti ancora non erano
entrati nel raggio d'azione del radar del
politicamente-corretto (e a giudicare da quel che si vede e si sente
oggi su certe emittenti, forse non vi sono davvero mai entrati).
È
tutto visionabile qui di seguito. Ognuno può farsi la propria
opinione. Ma, a costo di sentirmi dare del fascista, svengo al pensiero
che qualcuno possa radicalmente discostarsi dal giudizio appena espresso.
Siamo
sinceri. Senza voler giustificare chi si è reso artefice di momenti
altrettanto imbarazzanti: non è questa la nefasta influenza che ha
poi portato Adriano Celentano a trattare David Bowie da pari, Simona
Ventura a saltare addosso a quest'ultimo, Fabio Fazio a farsi dare
del Mr. Valium da Bono, Linus e Nicola Savino a rendersi ridicoli con i Duran Duran, Corrado Formigli a trattare Roger Waters da capo di stato e Daria Bignardi ad accogliere Marcello Dell'Utri come un premio Nobel, in una manifesta incapacità nazionale a condurre
interviste davvero pregnanti, fatte di domande che pongano in vera
luce i tanti artisti che pretendono il nostro ascolto più serio ed
impegnato? Gli storici del costume e della televisione che in futuro
affronteranno l'argomento di ciò che sono stati gli anni '80 in
Italia - qualcosa mi dice -, dovranno obbligatoriamente visionare, su You Tube o presso le stesse emittenti, questa
e molte altre figure barbine, e trarne le dovute conseguenze.
Agli
storici, quindi, l'ardua sentenza.