Incontrai Robert Plant di persona una
decina d'anni fa, per un caso fortuito, e potei constatare che il
giovane dio del rock, quale
egli fu a cavallo fra '60 e '70, stronzetto, sciupafemmine e
miliardario, aveva lasciato il posto ad una persona adulta di grande
affabilità, autoironica, capace di infondere tranquillità con la
frequenza imperturbabile di una apparecchiatura medica.
Non fornirò qui i dettagli di
quell'incontro davvero incredibile: sarebbe come tirarsela, e ben più
di quanto lo stesso Plant usasse fare in gioventù. Dirò solo che
avvenne in occasione della presentazione italiana di Raising Sand,
il pluripremiato disco inciso con Allison Krauss nel 2007, lavoro
dalle interessanti implicazioni culturali e psicologiche.
Il perché questa introduzione è
presto detto. Negli ultimi giorni sono andato a riascoltare un brano
che Plant incise qualche anno dopo quell'incontro, nel bellissimo
Band Of Joy, lavoro di assoluta maturità sotto ogni aspetto,
in particolar modo quello strumentale, al punto da avere persuaso lo
stesso Plant a tributare ai suoi musicisti l'onore di un album
omonimo (e dalla copertina orrenda).
Silver Rider non è farina del
suo sacco, bensì frutto del lavoro della consolidata coppia, di nome
e di fatto, Sparhawk e Parker, meglio conosciuti come Low (sentii
questa formazione statunitense nel lontano 2003, quando, accolti con sufficienza dal
pubblico, aprirono la data fiorentina dei
Radiohead in un'esibizione da pelle d'oca di grandissima intensità).
La si può sentire in un album del 2005
dall'accattivante titolo di The Great Destroyer. Il disco è
considerato dai più il loro capolavoro: da una minoranza maggiormente
attenta, il classico spartiacque che sancisce l'abbandono delle
soluzioni stilistiche d'esordio a favore di altre maggiormente adatte
all'espressione della propria, sopraggiunta maturità. In questo
contesto, Silver Rider risulta l'unico brano ancora carico di
quell'intimismo e quella delicatezza - strumentali, vocali e
testuali - riscontrabili nei dischi precedenti, caratteristiche che
hanno contribuito a rendere celebre questo duo - quantomeno tra
coloro che quanto a gusti musicali non si accontentano.
Ed è proprio qui, su questa
particolarità del brano, che Plant realizza la classica cover
capace, nel giro di un ascolto, di catturare, emozionare, commuovere
e annientarne la versione originale.
L'arte, quella vera, ha con sé,
sempre, una parte di non-detto. Non esaurisce il contenuto (sebbene
vi siano opere che molto si avvicinano a questo risultato: si pensi
alla Pietà di Buonarroti o alle Variazioni Goldberg di Bach). L'arte
offre una visione, indica una via. Ecco: sul quel non-detto si situa
l'interpretazione che noi diamo quali esecutori, ascoltatori,
spettatori, occasionali fruitori.
Nel caso di Plant, la veste è
duplice: ascoltatore ed esecutore. Ha sicuramente ascoltato con
grande apprezzamento The Great Destroyer, intuendo che,
in quel brano specifico, l'inespresso era meritevole di sottolineatura, di un'interpretazione nuova, appunto (sull'arte dell'interpretazione,
serve ricordarlo, la musica classica offre ormai una tale mole di
materiale con il quale approfondire il discorso da rendere
insufficiente ad evaderla anche la più rosea delle aspettative di
vita).
Personalmente, ritengo sia quasi
impossibile, senza riceverne preavviso, riconoscere la voce di Plant
in questa esecuzione, abituati come siamo in molti ad associarla agli
acuti tirati e ai falsetti dell'era Zeppelin. Ma non sta forse
proprio in questo, la maturità? Riuscire a dire le stesse cose di un
tempo con una modalità però più personale, maggiormente aderente a
ciò che sentiamo di essere diventati?
Silver Rider è un'esperienza
di terrena bellezza. Il suo testo, improntato ad una serena
accettazione della finitezza dell'esistenza, è reso da Plant con un
canto che è in realtà un sussurro, un filo di voce umilmente
impiegato per descrivere la visione del 'cavaliere argentato' –
colui che, in una mormonica visione della vita, è comandato a
condurre all'ultimo viaggio.
Se i toni del cantato appaiono
smorzati – e sdoppiati da un unisono femminile davvero ammaliante
-, quelli strumentali sono esaltati da un suono di chitarra di rara
bellezza, frutto delle dita, e della ricerca, di Buddy Miller, e del
missaggio, perfetto, di David Friedmann.
Diciamo che, in questa versione,
Silver Rider restituisce all'ascoltatore un rapporto con la
propria dimensione interiore, con il senso della propria misura
rispetto all'ambiente dove ci è dato vivere, così come un ritrovato
senso della bellezza, che sempre più rischiamo irrimediabilmente di
perdere.
Se anche un dio del rock -
come si diceva di Plant in apertura - giunge a questa conclusione, è
il momento, per tutti noi, di riflettere seriamente sul significato
ultimo dell'esistenza.
Buon ascolto.