giovedì 25 gennaio 2018

SILVER RIDER. L'incantevole 'cover' di Robert Plant.


Incontrai Robert Plant di persona una decina d'anni fa, per un caso fortuito, e potei constatare che il giovane dio del rock, quale egli fu a cavallo fra '60 e '70, stronzetto, sciupafemmine e miliardario, aveva lasciato il posto ad una persona adulta di grande affabilità, autoironica, capace di infondere tranquillità con la frequenza imperturbabile di una apparecchiatura medica.
Non fornirò qui i dettagli di quell'incontro davvero incredibile: sarebbe come tirarsela, e ben più di quanto lo stesso Plant usasse fare in gioventù. Dirò solo che avvenne in occasione della presentazione italiana di Raising Sand, il pluripremiato disco inciso con Allison Krauss nel 2007, lavoro dalle interessanti implicazioni culturali e psicologiche.
Il perché questa introduzione è presto detto. Negli ultimi giorni sono andato a riascoltare un brano che Plant incise qualche anno dopo quell'incontro, nel bellissimo Band Of Joy, lavoro di assoluta maturità sotto ogni aspetto, in particolar modo quello strumentale, al punto da avere persuaso lo stesso Plant a tributare ai suoi musicisti l'onore di un album omonimo (e dalla copertina orrenda).

Silver Rider non è farina del suo sacco, bensì frutto del lavoro della consolidata coppia, di nome e di fatto, Sparhawk e Parker, meglio conosciuti come Low (sentii questa formazione statunitense nel lontano 2003, quando, accolti con sufficienza dal pubblico, aprirono la data fiorentina dei Radiohead in un'esibizione da pelle d'oca di grandissima intensità). La si può sentire in un album del 2005 dall'accattivante titolo di The Great Destroyer. Il disco è considerato dai più il loro capolavoro: da una minoranza maggiormente attenta, il classico spartiacque che sancisce l'abbandono delle soluzioni stilistiche d'esordio a favore di altre maggiormente adatte all'espressione della propria, sopraggiunta maturità. In questo contesto, Silver Rider risulta l'unico brano ancora carico di quell'intimismo e quella delicatezza - strumentali, vocali e testuali - riscontrabili nei dischi precedenti, caratteristiche che hanno contribuito a rendere celebre questo duo - quantomeno tra coloro che quanto a gusti musicali non si accontentano.
Ed è proprio qui, su questa particolarità del brano, che Plant realizza la classica cover capace, nel giro di un ascolto, di catturare, emozionare, commuovere e annientarne la versione originale.
L'arte, quella vera, ha con sé, sempre, una parte di non-detto. Non esaurisce il contenuto (sebbene vi siano opere che molto si avvicinano a questo risultato: si pensi alla Pietà di Buonarroti o alle Variazioni Goldberg di Bach). L'arte offre una visione, indica una via. Ecco: sul quel non-detto si situa l'interpretazione che noi diamo quali esecutori, ascoltatori, spettatori, occasionali fruitori.
Nel caso di Plant, la veste è duplice: ascoltatore ed esecutore. Ha sicuramente ascoltato con grande apprezzamento The Great Destroyer, intuendo che, in quel brano specifico, l'inespresso era meritevole di sottolineatura, di un'interpretazione nuova, appunto (sull'arte dell'interpretazione, serve ricordarlo, la musica classica offre ormai una tale mole di materiale con il quale approfondire il discorso da rendere insufficiente ad evaderla anche la più rosea delle aspettative di vita).
Personalmente, ritengo sia quasi impossibile, senza riceverne preavviso, riconoscere la voce di Plant in questa esecuzione, abituati come siamo in molti ad associarla agli acuti tirati e ai falsetti dell'era Zeppelin. Ma non sta forse proprio in questo, la maturità? Riuscire a dire le stesse cose di un tempo con una modalità però più personale, maggiormente aderente a ciò che sentiamo di essere diventati?
Silver Rider è un'esperienza di terrena bellezza. Il suo testo, improntato ad una serena accettazione della finitezza dell'esistenza, è reso da Plant con un canto che è in realtà un sussurro, un filo di voce umilmente impiegato per descrivere la visione del 'cavaliere argentato' – colui che, in una mormonica visione della vita, è comandato a condurre all'ultimo viaggio.
Se i toni del cantato appaiono smorzati – e sdoppiati da un unisono femminile davvero ammaliante -, quelli strumentali sono esaltati da un suono di chitarra di rara bellezza, frutto delle dita, e della ricerca, di Buddy Miller, e del missaggio, perfetto, di David Friedmann.
Diciamo che, in questa versione, Silver Rider restituisce all'ascoltatore un rapporto con la propria dimensione interiore, con il senso della propria misura rispetto all'ambiente dove ci è dato vivere, così come un ritrovato senso della bellezza, che sempre più rischiamo irrimediabilmente di perdere.
Se anche un dio del rock - come si diceva di Plant in apertura - giunge a questa conclusione, è il momento, per tutti noi, di riflettere seriamente sul significato ultimo dell'esistenza.
Buon ascolto.

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