mercoledì 17 gennaio 2018

NINE INCH NAILS. Chiodi da nove pollici per la bara del rock.

Ci hanno provato in molti, a spiegare cos'è il rock.
Il più recente tentativo è da attribuirsi ad Adriano Celentano. Non esattamente colui che definiremmo un pensatore - sebbene a suo modo egli si consideri e proponga come tale. Ricordate il monologo, azzeccatissimo, recitato a Rockpolitik più di dieci anni fa, “la televisione è lenta / i Simpson sono rock” e via dicendo? L'esposizione meno accademica cui si sia mai assistito, ugualmente in grado di spiegare il rock per mezzo della tecnica della “reiterazione del messaggio” (D. Luttazzi, 2007).
Altro illustre tentativo è quello del fu Roberto 'Freak' Antoni, nel suo sottovalutato, antologico, Non C'é Gusto In Italia Ad Essere Freak (Feltrinelli, 2015), dove il rock è analizzato da un punto di vista fenomenologico (non dimentichiamo che 'Freak' conseguì la laurea in Lettere e Filosofia con Gianni Celati, discutendo, nel rovente '78, una tesi sui Beatles – mi spiego?).
E poi, modestamente, vi è il mio. Perché dopo quasi 40'anni di altalenante fruizione del genere penso di essermene fatta un'idea quanto meno coerente con il mio modo di vedere le cose.
Il rock, ad oggi, non identifica tanto un genere quanto un atteggiamento. In alcuni emblematici casi risulta unito ad un pensiero basicamente elaborato, cosa che rende il tutto più simile ad una filosofia spiccia, caratterizzata da forti tratti di egocentrismo e pragmatismo.
Detto ciò, e concesso che una simile definizione possa facilmente risultare come poco lusinghiera, voglio spendere qualche parola per un gruppo che ritengo essere l'ultimo baluardo del rock, oltreché l'unico ad incarnare con fierezza il tipo di attitude sopra descritta: Nine Inch Nails.
(Rassicuro i lettori che quanto segue non sarà l'ennesima beatificazione di un gruppo cui si è tributata la propria ammirazione. Questo è, e rimane, un blog, ed ogni 'marchetta' è bandita di default.)
Ad indurmi a scrivere questo post è stata la ripresa video, mozzafiato, di un loro recente concerto, in quel di Bakersfield CA, evento tenutosi all'inizio della scorsa estate.
Diretto da Brook Linder, ennesimo regista di nicchia con controcoglioni, e fotografato da Ben Chappell, il filmato ritrae la band losangelina nell'esecuzione dei due brani che aprono l'esibizione, Bones/Branches e Copy Of A.
Detto così, nulla che noi non si sia già visto.
Il fatto è che il tutto, qui, è intenzionalmente ripreso onstage. Nel senso: non dal palco, bensì sul palco. Nessuna concessione ai rituali isterismi da platea. Nessuna piaggeria rivolta al pubblico. Nessuna panoramica sulla folla dell'immancabile tutto-esaurito (oggi persino Jovanotti riempie gli stadi, quindi...): per quanto ci è dato di vedere, il concerto potrebbe essersi svolto a porte chiuse. Immaginate un video che vi mostri non i musicisti sul palco, ma che porti direttamente voi sul palco con loro – che quindi vedrete ciò che loro vedono, ma, soprattutto, sentirete ciò che loro sentono. Sette minuti abbondanti di catartica immersione nella band, come uno di loro, come un quinto Beatle. Sette minuti tiratissimi nei quali i nostri, immersi in una luce laterale da fusione atomica, si producono in una performance oscura, fatta di penombre ed improvvisi bagliori in sincrono con la musica, dove la manipolazione del suono è pressoché totale, al punto da confondere l'artificiale con l'autentico, voce compresa.
Dotatevi di un buon paio di cuffie e giudicate voi stessi.
Non credo esista, ad oggi, una compagine rock paragonabile a questo quintetto. Inoltre la consacrazione metafisica ricevuta con 'l'invito a comparire' nel remake di Twin Peaks (episodio n°6), rivolto loro da David Lynch in persona, ne ha fatto una vera e propria leggenda vivente.
Se il rock, con le dovute forzature, può essere concepito come messa in scena (art rock) della nostra parte pulsionale, come sua liberazione, difficilmente vi imbatterete in un allestimento che possa dirsi migliore di I Can't Seem To Wake Up.
O, per esclusione, se quanto andrete a vedere allestito all'interno di stadi di calcio, ma al prezzo della prima fila della Scala, si discosta fortemente da ciò che è mostrato nella ripresa in questione, state certi di non essere di fronte ad uno spettacolo rock, checché ve ne dicano artisti ed organizzatori.
È solo giovanilismo a 300 kilowatt. E voi le vittime di un raggiro.
Guardare per credere.

martedì 2 gennaio 2018

SCHOOL'S OUT (FOREVER). Il mio personale trauma scolastico.


David, continuo a chiedermi come da ragazzo innocente sia potuto diventare ciò che sono.
Credo sia stata colpa di Harvard.
Già: non sai nemmeno di quello.
(Ted Kaczynski)
Ricordo che da bambino, al tempo della scuola, la maestra aveva l'abitudine di dare pubblica lettura al migliore svolgimento del tema in classe. L'estensore veniva nominato davanti ai compagni ed invitato in cattedra a leggere la propria composizione.
Le tracce erano, chiaramente, quelle proprie del genere: la vacanza al mare; la gita in biblioteca; il compagno di banco; la mia città; il lavoro di papà; la visita alla Collegiata; il parco cittadino (sic); i vigili urbani; parla del tuo sport preferito; scrivi il tuo pensiero sulla scuola che frequenti e via dicendo.
Nonostante ritenessi già allora di possedere doti di scrittura ben superiori a quelle dei compagni pluripremiati e assunti a modello, ricordo che non ebbi mai l'onore di essere chiamato a tenere il public reading alla classe.
Il mio più grande insuccesso editoriale, all'epoca, fu il tema con traccia libera che scelsi di dedicare all'attentato al Papa. Avevo solo nove anni, ma già vantavo diverse, dettagliate, compulsive letture del quotidiano di casa: il 'Corriere'. Il tema stava scritto in uno stile giornalistico di maniera - l'unico che mi fosse dato di possedere. Al suo interno erano riportati data, luogo, ora e contesto dell'attentato, più una dissertazione di pura fantasia sui Lupi Grigi – il gruppo terroristico turco indicato come mandante. Sognavo di raccontare i fatti come fossi stato Paolo Frajese – allora, uno dei miei miti. Quattro facciate formato A4 scritte fitte, accettabili, quanto meno, per aderenza e fedeltà al modello assunto. Va da sé che neanche ciò, il massimo dello slancio e dell'arditezza, fu sufficiente a farmi rientrare nella selezione. 'Le torte di mele della nonna' e 'il mio cane Bolfo' continuavano a conquistare puntualmente nomination e statuetta – un po' come oggi la notizia futile, irrilevante, quando non addirittura infondata (fake), cattura più lettori dell'inchiesta o dell'elzeviro.
Ricordo inoltre che non solo in occasione di questa eclatante esclusione (o forse dovrei scrivere 'censura': teniamo presente che al tempo preti e suore occupavano sistematicamente le cattedre di religione della scuola dell'obbligo), ma anche di altre ben più modeste, non vi fu mai, da parte dell'insegnante, una spiegazione che riguardasse il criterio di selezione/esclusione, un'analisi condotta in presenza dell'allievo delle inadeguatezze della propria composizione, o il suggerimento di soluzioni narrative in grado di migliorare l'apporto comunicativo. Allo stesso modo, erano assenti pure le motivazioni per le nomine. Insomma: la maestra era, né più né meno, la mano di Dio, colei che separava il bene dal male, i vincitori dai vinti.
Come sia possibile che uno con questi trascorsi scolastici non si sia votato ad un'anarchismo estremo, si spiega solo con un miracolo della civilizzazione.
Mi chiedo, a volte, quali possano essere stati i modelli di scrittura di questi insegnanti, quali fossero le loro letture lontani dai testi obbligatori, e a quanto ammontasse il rapporto con la parola scritta che non fosse quella di un verbale d'istituto, di una nota disciplinare, un giudizio di merito a fine anno o un concetto preconfezionato. All'idea di una risposta, sono percorso da brividi per ciò che potrei sentire e dedurre. Perché, checché se ne dica, nessuno, nemmeno un genio, può permettersi il lusso dell'originalità: tutti, per periodi più o meno lunghi della nostra vita, ci rapportiamo ad un maestro, ad un modello.
Quando ho avuto l'idea di questo blog, tre anni fa, il primo compito è stato togliermi dall'impaccio di una scrittura che era andata atrofizzandosi. Pesante, poco scorrevole, dotata di uno slancio debole. Perché questo succede quando non si coltiva debitamente la parola scritta. Poi, nel tempo, mi è sembrato di ritrovare la forma. Più riacquistavo confidenza con la scrittura – con la mia scrittura -, più avevo l'impressione di riuscire a pensare meglio. Ricordate lo sfogo di Nanni Moretti in Palombella Rossa, quando dice che chi parla male “pensa male e vive male”? Beh: penso valga anche per la parola scritta.
Forse vi state chiedendo il perché di tutta questa analisi, indulgente come non può non essere ogni azione autorefenrenziale.
Nutro un profondo disprezzo per coloro che mi giudicano senza conoscermi (è successo di recente).
Penso sia da ricondurre a quella mancata gratificazione d'età scolare.

sabato 23 dicembre 2017

MANHUNT. La serie Netlix su Unabomber.


Dopo avere spalato merda per anni addosso a coloro che si imbevono ottusamente di serie televisive originali, ieri l'altro ho peccato di incoerenza portando a termine la mia prima visione da ossessivo: Manhunt: Unabomber. Otto puntate in quattro giorni.
Prodotto originale Netflix, è la storia di come i federali americani giunsero alla cattura e alla condanna di Ted Kaczynski, il famigerato Unabomber, killer responsabile di una lunga serie di pacchi-bomba che seminarono il terrore negli Stati Uniti tra il 1978 ed il 1995.
Conoscere i fatti narrati certo aiuta (si tratta di una storia vera), ma non è requisito indispensabile alla comprensione e al godimento della serie: l'apparato cronologico è chiaro, il ritmo costante.
Sebbene vanti una star del cinema del calibro di Paul Bettany nel ruolo dell'attentatore, e Chris 'Big' Noth nei panni del capo dell'unità speciale, protagonista della serie è Sam Worthington, ovvero 'Fitz', sottovalutato profiler federale il cui talento porterà alla cattura di colui che al tempo era il ricercato numero uno.
La vicenda è rivissuta attraverso i suoi occhi. 'Fitz' trasforma l'iniziale fascinazione per un caso che sente come proprio in una vera e propria ossessione. Un'ossessione che mette a repentaglio la sua vita professionale (vuole catturare Unabomber ad ogni costo) e familiare (sovrappensiero dimentica i figli in una sala cinematografica).
La serie ha inizio con Unabomber già assicurato alle patrie galere e 'Fitz' incaricato di provarne giuridicamente la colpevolezza per mezzo di interrogatorio. Da lì gli episodi si snodano tra regolari e didascalici flasbacks: La sequenza degli attentati, le reazioni delle autorità federali, la personalità dell'attentatore e quella di colui che maggiormente ne ha colto il fascino, l'idealismo, la logica ferrea, la precisione, la coerenza filosofica ed una quasi inconfessabile assenza di follia. Cioè 'Fitz' stesso.
Personalmente , ho trovato la visione di Manhunt: Unabomber avvincente, ardita, politicamente visionaria. La regia (affidata a Greg Yaitanes, già apprezzato per molti degli episodi più riusciti di House M.D.) è precisa, senza divagazioni o tentennamenti stucchevoli. Le concessioni allo splatter sono serie, misurate, mai gratuite. Per il resto è un trionfo di recitazione, di scrittura asciutta e deputata all'azione, di attori tutti sul pezzo, in particolar modo Paul Bettany - che da, in questa produzione, una prova di altissimo livello, specie sotto l'aspetto della caratterizzazione umana.
Ma l'episodio più bello e significativo è senza ombra di dubbio il n°6, integralmente occupato da un flashback sulla vita di Unabomber, dagli esordi scolastici all'esilio nei boschi del Montana. È la chiave di lettura con la quale gli autori sembrano fornire la loro visione di questa pagina di storia americana contemporanea. Le sofferenze dovute alla precocità di apprendimento; le prime delusioni relazionali; l'inconciliabilità tra crescita e superdotazione intellettuale; l'incontro epocale con Henry Murray; un'esistenza che sempre più va configurandosi come serie di tradimenti subiti o presunti, fino alla consegna di sé alle cure di madre natura, unica entità percepita come giusta in un mondo di cinici manipolatori. Il tutto in forma di lettera al fratello. Nel ricostruire questi ricordi, Unabomber, che nella piccola comunità di Lincoln è frequentatore discreto e conosciuto della locale biblioteca e mentore del figlio della curatrice, riflette su come avrebbe potuto essere la sua vita qualora avesse reagito diversamente alle tante difficoltà incontrate. E allora eccolo fantasticare una famiglia, un'esistenza ecologicamente rispettosa, un lascito etico e comportamentale, un ruolo da grande educatore – quale sarebbe sicuramente stato -, una sposa ideologicamente complice ed un figlio cui trasmettere il proprio patrimonio di conoscenza.
È un momento commovente, scritto benissimo, interpretato da Paul Bettany in maniera magistrale.

Sappiamo tutti – in particolar modo noi genitori – quanto del nostro personale, particolare sapere venga sperperato quotidianamente nell'affanno della vita urbanizzata, quella stessa che andiamo definendo civile senza più riflettere su quanto diciamo. A Ted Kaczynski mancò, probabilmente, la dedizione necessaria alla creazione di una vera famiglia. Ma a noi tutti manca da troppo tempo il coraggio di scelte radicali e di un impegno coerente con le nostre tante parole.
Quanto alle bombe...
Chi di noi sarebbe capace di nutrire ancora fede nel sistema dopo un trattamento come quello che l'ignobile professor Murray condusse su di un adolescente Ted Kaczynski ed altri 21 sventurati?
È notevole che sia una serie televisiva a stimolare questo tipo di riflessioni. Al termine della visione, ho spasmodicamente ricercato e letto La Società Industriale E Il Suo Futuro (Industrial Society And Its Future), il manifesto di Unabomber. Fino ad allora, devo ammetterlo, ne ignoravo persino l'esistenza. Mi limito a dire che vale sicuramente una lettura attenta: è di certo migliore di molti libroidi attualmente circolanti, così come di altrettanti best-sellers di vario genere.
Si potrebbe azzardare che vale per Ted Kaczynski quanto sostenuto per Charles Manson nei giorni seguiti alla scomparsa di quest'ultimo, quando una serie di improbabili personalità esaltarono il suo pensiero, ritenendolo slegato dalla sua condotta criminale. Dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano. Manson era un manipolatore semianalfabeta posseduto da visioni: Kaczynski un individuo intellettualmente superdotato che a 25 anni (!!) occupava la cattedra di matematica a Berkley.
L'intelligenza non è autosufficiente: va coltivata e indirizzata.
Può essere letale tanto quanto l'ignoranza.

sabato 9 dicembre 2017

TRATTORIA BONOLIS. Ovvero: quando il Paolo nazionale si convinse di essere Letterman.


Quel che mi chiedo è: come può, un personaggio della televisione celebre e apprezzato come Paolo Bonolis, venire abbandonato dai propri autori al punto da scivolare sulla buccia di banana presa con l'intervista a Marylin Manson?
C'è da credere vi sia dell'astio tra le parti, del non-detto, vecchi rancori... . Non si capisce come, altrimenti, si possa assistere ad un simile sfacelo senza sentirsi minimamente responsabili.
Per capirci: Quincy Jones non avrebbe mai permesso a Micheal Jackson di pubblicare un disco dimmerda.
Sorte – quella della discesa nella bassa qualità - toccata, invece, al Paolo nazionale.
Bonolis che fa una figura meschina a Canale 5 come quella dell'altra sera – perché di questo si è trattato -, è il Brasile che, in casa, prende sette pappine dalla Germania in mondovisione. Stessa cosa.
Tanto per cominciare, vorrei chiedere – rivolto agli autori – chi, nel bacino di pubblico di Bonolis, sia a conoscenza dell'opera di Terry Pratchett, citato testualmente in apertura. Quanti, tra gli stessi, siano in grado di trascriverne il nome. Ma soprattutto: CHI CAZZO È, Terry Pratchett?
(Primo errore.)
Gesticola, mima, produce onomatopee, Bonolis. Sembra tornato quello degli esordi a Bim Bum Bam, quando intratteneva i bambini.
Manson è già accomodato nello studio. Ha il piede immobilizzato in un tutore. Visibilmente ingrassato, è vestito, acconciato ed agghindato in maniera improbabile - per non dire ridicola - per un ultracinquantenne.
Bonolis lo presenta ad un gruppo di fans debitamente selezionato all'ingresso. Manson li definisce “the beautiful people”. È una battuta che tradisce come egli stesso stia intrappolato nel personaggio – riuscitissimo ed artisticamente rilevante - incarnato più di 20'anni fa, oltre che in una parte di repertorio altrettanto vetusta.
Supportato dall'interprete Mediaset, il conduttore cita – debitamente cassato - il servizio di Rolling Stone Italia curato da Liliana Colasanti.
(Secondo errore: l'intervista della collega è superiore a quella che egli sta conducendo in evidente affanno.)
“L'Italia è un paese di santi”, sentenzia Bonolis. Risposta di Manson: “È anche il paese di Fellini”.
(Terzo errore: l'intervista, chiaramente non concordata, sta sfuggendo di mano.)
Non conscio dell'inarrestabile discesa, Bonolis sconfina in terre a lui sconosciute, e trasforma il titolo del disco di Manson da Heaven Upside Down a Even Upside Down - errore di pronuncia da licenza media.
Ride, Bonolis. Le domande sono di così basso tenore che persino il suo inconscio se ne libera.
Gli da del subumano chiedendogli se “è vero” il suo apprezzamento per The Young Pope di Sorrentino.
(Quarto errore: sta ricalcando fedelmente l'intervista di Rolling Stone Italia.)
Ma intorno la metà, l'evidenza prende il sopravvento. Marylin Manson non è ospite di Bonolis: è Bonolis ad essere ospite di Manson – e con il buffetto sulla mano, l'intervista muove come per magia a Monte Mario, alla trattoria Bonolis.
Il quarto d'ora di passione ha quindi termine con l'esecuzione, dal vivo, di Sweet Dreams - pietosa – ed un imbarazzante selfie con Gianni Morandi.
Marylin Manson è un artista che, da tempo, ha perso la propria rilevanza – risalente agli esordi e protrattasi per circa un decennio. Era a quel tempo – al tempo di Portrait Of An American Family – che avrebbe dovuto ricevere questo invito e sentirsi porre – più o meno – queste domande. Ma a quel tempo i canali Mediaset erano tutti impiegati nella promozione di un'altra family: quella del padrone. Più comodo ospitarlo oggi: meno compromettente, più corretto, intruppato, milionario e contribuente esemplare. Occasione persa. Peccato.
Quanto a Bonolis... beh, sembra, semplicemente, che, da una parte, si sopravvaluti un poco (è convinto di essere all'altezza di intervistare un po' tutti); dall'altra, che non sappia rinunciare nemmeno per un quarto d'ora al ruolo di protagonista e mattatore incontrastato.
Bonolis è l'ospite che non se ne vuole andare.
Ricorda una persona che ricevette in mano le sorti del paese esattamente nell'anno in cui Marylin Manson pubblicava il suo disco più bello ed importante, Antichrist Superstar, splendida registrazione per resa sonora, produzione e testi contenuti.
Una persona che ha in comune con Manson l'incapacità di comprendere che il proprio tempo è passato. Che quanto va dicendo rientra nel già-sentito, in una formulazione svuotata di credibilità proprio dal suo abuso.
Indovinate chi è?!

giovedì 7 dicembre 2017

STAND BY ME. Perdere un amico.


Oggi ho perso un amico, coetaneo. Un amico di gioventù, di quelli che abitano silenziosamente i tuoi ricordi.
Ci sono figure che aiutano ad andare avanti nel duro percorso della vita impedendoti di cedere allo sconforto. Ti hanno voluto bene quando ancora eri tutto inadeguatezze ed imbarazzo. Vedevano di te la parte migliore, già allora. Rappresentano una certezza. Molte insicurezze che sorgono all'improvviso, nel quotidiano, vengono disattivate proprio da queste presenze interiori.
Fino a quando, un giorno, vengono a mancare.
Letteralmente.
Queste ore assomigliano molto, per me, a quelle di Ricordo Di Un'Estate, di Stephen King: Gordie, il sopravvissuto, e Chris, l'amico buono e promettente cui la vita riserva una morte tragica e prematura.
Il Buon Ghizza (questo il suo soprannome) è stato il compagno dell'adolescenza e del suo sfociare nell'età adulta. Degli anni più belli: dell'incanto e del tempo sterminato.
Anni di risate, di gesti goffi vissuti con ironia; di serate al cinema; di passeggiate, gite e colonie estive; di chitarre strimpellate a notte fonda e di sbronze simulate dopo mezzo dito di grappa. I primi seri discorsi sulla fede, sulla religione, sul da-farsi quando quegli anni – indimenticabili – sarebbero giunti al termine. Primi e secondi amori, solitudini indesiderate, ghiaccioli da 200 lire (!) e tanta, tanta felicità.
È stato questo per me, Roberto.
Se ne è andato seguendo, suo malgrado, un percorso di malattia comune a tante persone giovani: rapido e letale.
Siamo riusciti ad incontrarci, qualche volta, in compagnia della rispettiva prole. Occasionalmente. Ed anche in quei frangenti non ha mancato di rivolgere il suo sorriso aperto e pulito a tutti noi.
Vorrei davvero porgli – a lui che era uomo di grande fede cristiana – una domanda sul senso di tutto ciò. Sul fatto, cioè, che questa mattina mi sia toccato assistere alla chiusura di una bara dove lui - e non altri – vi stava contenuto. Perché?
Sosterrei con insistenza le mie ragioni di persona senza più fede, provando a spiegargli che sono proprio gli eventi come questi a dare ragione al mio abbandono, allo sconforto esistenziale.
Sono certo che mi ascolterebbe a lungo – come spesso ha fatto in gioventù, quando lo investivo con tematiche molto meno ultime -, serio e attento, per poi darmi una risposta pacata e sorprendentemente persuasiva.
Perché era così: con un cuore grande, e dotato di un'altrettanto grande tolleranza.
Ma è troppo tardi anche per questo.

mercoledì 29 novembre 2017

UNA COSA A TRE. Starring: Lilli Gruber, Alessandro Di Battista e Riccardo Scamarcio.


Quando ieri sera (27 novembre), come da rituale, Enrico Mentana ha annunciato gli ospiti di Lilli Gruber a Otto & Mezzo, ho prorotto in una risata isterica.
Alessandro Di Battista e Riccardo Scamarcio sono stati infatti accomodati nello studio di La7, nella fascia oraria dedicata all'approfondimento, per discutere di...
DI BATTISTA CHE ANNUNCIA  L'INTENZIONE - UFFICIALIZZATA DALL'USCITA DEL SUO LIBRO - A NON RICANDIDARSI ALLA PROSSIMA TORNATA ELETTORALE.
Autoerotismo.
Un po' propaganda (ma chi ci crede, oggi, senza vedere, come San Tommaso, alle dichiarazioni d'intenti di un politico?), un po' marchetta (difficile che un ospite della Gruber non abbia con sé qualcosa da promuovere).
In quale veste fosse presente Scamarcio, invece, non si è capito fino quasi al termine della trasmissione, quando l'annuncio della sua partecipazione al film di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi - dopo che si era prodotto per una decina di minuti buoni in analisi politiche vacue ed uno sproloquio su Alitalia - ha risolto ogni incomprensione.
Altra marchetta, quindi.
Ma non è nemmeno così.
Gruber, “pastore di suo fratello e […] ricercatore dei figli smarriti”, non era interessata né all'interpretazione di Scamarcio né al cinema di Sorrentino: intendeva scoprire come, in questa pellicola di prossima uscita, vi sia dipinto l'ex-premier. Punto. Indagine sotto copertura.
“Berlusconi come la prenderà? Gli piacerà o si arrabbierà?”.
(Domanda che vanta un sottotesto intimidatorio da grande cinema.)
Risposta di Scamarcio: “Secondo me gli piacerà. […] Io non posso dire molto: ho firmato una lettera di segretezza.”.
Agghiacciante.
Ma tutto torna.
Gruber non sembra proprio la signora alla quale ti puoi trovare seduto accanto, al cineforum. È la classica persona in carriera che al cinema – proprio - non ci va. La sua curiosita non è artistica. In nulla e per nulla. È l'ingaggio di Scamarcio nel ruolo di Gianpaolo Tarantini, il reclutatore di troie delle notti del bunga-bunga, ad averne attivato pavlovianamente l'istinto predatorio e famelico. 'Fanculo a tutto il resto, al cinema e al premio Oscar de La Grande Bellezza.
La conduttrice di Otto & Mezzo pretende di essere credibile anche quando, parlando sopra a Di Battista, che poco prima si era riferito ai politici “imbullonati alla poltrona”, prende le difese a tutto campo di sua santità Berlusconi – che invece, a 81'anni suonati, vuole correre alle prossime 'politiche', ma lui, no, non è di quelli imbullonati alla poltrona.
Berlusconi è una persona cui il seguito – più determinato persino dei papa boys - non consente la condanna alla condizione manzoniana di innominato. Quando Di Battista, parlando in studio, ne fa riferimento chiamandolo “il soggetto”, Gruber interviene con la prontezza di un cane pastore: “... che si chiama sempre Silvio Berlusconi...”. Berlusconi, per i suoi seguaci – e Gruber da la netta impressione di esserne parte -, è il nome del padre teorizzato da Massimo Recalcati. Non Ulisse, ma il padre autoritario senza la cui parola nulla può essere detto o fatto. Ed i suoi figli (l'elettorato, i sostenitori), ahinoi, non sono dei Telemaco.
Berlusconi, d'altronde, è un altro che al cinema sarà andato, l'ultima volta, per Gola Profonda. Da lì in avanti, i pompini non ha più voluto vederli su schermo: se li è fatti fare.
Dopo una siffatta puntata, in certe redazioni appartenenti a quel non meglio precisato estero che tanto sembra eccitare la nostra, otto e mezzo non sarebbe il titolo della trasmissione, ma il tempo massimo concesso a conduttore ed autore – coincidenti, nel caso in questione – per lasciare l'emittente senza più farvi ritorno.
L'impressione – lungi da quella dell'assistere ad un approfondimento giornalistico di prima serata - è stata quella di una triste assemblea condominiale, dove i condomini, dietro la facciata di cordialità e l'obbligo a parteciparvi, nutrono il più totale disprezzo: per l'amministratore e per gli intervenuti.
E poi: la smettano, quelli di Otto & Mezzo, di utilizzare i grandissimi Arcade Fire di Rebellion (Lies) come sigla d'apertura.
Era ora che qualcuno lo scrivesse – giusto?
Non ringraziatemi: lo faccio volentieri, per voi.

giovedì 16 novembre 2017

UN GRAN BEL PEZZO DI FIFA. Considerazione sull'esclusione della nazionale dai mondiali 2018.


Si sa che agl'italiani piace un sacco, la FIFA (Fédération Internationale de Football Association). Ne sono innamorati. Farebbero davvero di tutto, per un po' di FIFA.
Lo si è visto nella giornata di ieri (13 nov). Di tre radiogiornali nazionali, non uno ha relegato la notizia dell'imminente partita della nazionale di calcio nella fascia deputata allo sport. E cioè in fondo alla scaletta, a termine programma. Macché: prima notizia a reti unificate. Probabilmente neanche un nuovo terremoto in centro Italia avrebbe persuaso le loro redazioni ad una revisione delle notizie di apertura.
Se qualcuno, quindi, nutriva ancora dubbi sul fatto che radio e tele-giornali non facciano informazione, quanto riportato li fuga senza lasciarne traccia alcuna.
Non paghi, però, di aver dato ad una simile notizia la massima prominenza, quelli della RAI si sono persino vantati di una non meglio specificata “diretta streaming dalla sala di Via Asiago”. Ma certo: come se gli italiani, dopo piazza San Carlo, avessero ancora voglia di abbandonare il divano di casa per una fottuta telecronaca a la Pizzul. Rinunciare a tutto quell'apparato di costumi fantozziani – “calze, mutande, vestaglione [...], frittatona di cipolle [...], […] Peroni gelata [...] e rutto libero” - per fare la fila in questa via che è da quand'ero bambino che la sento nominare più del quirinale e della casa bianca. Sicuro.
Va da sé che la RAI, la pancia degli italiani, la conosce eccome. Ieri sera, tra amici e conoscenti, è stato infatti tutto un ostentare auricolari, tablets, connessioni pirata e quant'altro artifizio praticabile, pur di essere connessi con San Siro. Spettatori virtuali di una partita il cui risultato persino un incompetente in materia come me già sapeva essere scritto nelle stelle. D'altronde quando il tuo capitano fa Buffon di cognome, ed uno che ti aspetti corra un bel po' è Immobile, abbiate pazienza: nomen omen.
Mi sembra che il calcio sia un'attività sportiva ottima per costruirsi un fisico da aperitivo. La preparazione atletica cui è sottoposto un calciatore professionista conferisce infatti quella prestanza che tanto fa ben figurare quando ci si mette in ghingheri passate le 19:00. Ma quanto a rendimento, a performance, con molta probabilità verrebbe giudicata insufficiente persino da una squadra di curling. Personalmente ho vissuto qualche stagione ricca di aperitivi ai quali mi sono presentato in eccellente forma fisica. Un bella sensazione, credete. Da qui ad una qualificazione mondiale, però...
Certo: mi sono imbattuto anche in molta indignazione, in seguito a questa sconfitta, gran parte della quale provocata dalle lacrime di Gigi Buffon - diffuse a reti unificate dalla televisione e, il giorno dopo, sulle prime pagine di tutte le principali testate giornalistiche. Coloro che se ne sono lamentati, le hanno giudicate fuori luogo, inaccettabili da parte di uno sportivo con il suo curriculum di vittorie, con un ruolo da capitano di nazionale ed uno stipendio a sei zeri.
C'è un rapporto stretto tra la percezione di sé stessi come professionisti dello sport – percezione delle proprie eccellenze – ed il ruolo simbolico che viene assunto alla convocazione in nazionale. È una questione che riguarda non solo gli azzurri – ai quali, per inciso, va tutto il nostro legittimo disprezzo. Riguarda ogni sportivo ed ogni compagine nazionale. Mi spiego. Siamo da tempo nell'era della fine delle ideologie. Le ideologie hanno spesso fatto leva su primati nazionali frutto di mitomania, leggenda e contraffazione. L'idea del suprematismo nazionale è evaporata con le ideologie che la propalavano, ed oggi rimane l'illusione di frange fuori dal tempo, frange neofasciste, che – guarda un po' – abitano gli stadi esattamente come i topi le fogne. Di quale primato siano quindi portatori i 22 fenomeni della nazionale di calcio, è presto detto: il peggio dell'italianità.
Un altro problema è quello dell'incapacità di riconoscere - e riconoscersi in - figure realmente vincenti. Vincenti per prestazione, mentalità e dignità (qualità che nelle lacrime di Gianluigi Buffon trovano la loro antitesi).
Ora in molti piangono al pensiero che, data l'esclusione, l'estate prossima saranno privati del loro “rito collettivo”.
Ecco: forse solo di questo si tratta, in fondo. Il bisogno di un rito collettivo: la messa, le partite della nazionale di calcio, la festa del partito, la setta, la gang.
Bisogni aggregativi fondamentali.
Ma tutti mal riposti.