lunedì 13 aprile 2020

LA MUSICA CHE GIRA INTORNO. I concerti in 'streaming' durante l'emergenza Coronavirus.


Thom Yorke nel video per 'No Surprises'.
Mi siano concesse alcune parole riguardo a quello che reputo il più eclatante sciacallaggio di questa emergenza: i concerti in rete delle cosiddette stelle della musica, ovvero l'ennesima occasione per godere di visibilità a spese di chi è davvero in difficoltà.
A volte penso che non esista calamità naturale alcuna, quale è da considerarsi, presumibilmente, la pandemia in corso, che possa ridurre una celebrità della musica al silenzio. Lasciamo perdere i politici e gli ospiti di professione i quali rappresentano il fronte patologico del fenomeno. Un musicista si pensa sia capace di silenzio, di ritiro, di eccezionale introspezione, quanto meno per favorire il proprio processo creativo. È pertanto sconcertante constatare come, in tempo zero, lo star system, del tutto noncurante del reale impatto che lo stop alla maggior parte delle attività umane sta avendo sulle persone, si sia attivato per ammorbare giornate già difficili di loro con le dirette dei professionisti indiscussi della canzonetta – probabilmente convinti che dalle loro ugole e strumenti fuoriesca sempre e solo la perfetta colonna sonora di ogni momento dell'umano vivere.
Da ormai un mese, gli onnipresenti Jovanotti, Gianna Nannini, Laura Pausini, Modà, Nek, Marco Masini, Coma_Cose, Brunori Sas, Francesca Michielin, Fiorello (!), Emma Marrone, Fedez, Tiziano Ferro, intrattenitori che reputano la propria esperienza artistica – si fa per dire – come indispensabile, rubano capacità al web, convinti, come probabilmente sono, che persino immersi negli aspetti letali di questa emergenza noi si senta il bisogno del loro particolare, specifico, insostituibile conforto (suppongo vi sia, in effetti, qualcuno che ne avverte la necessità, nel cui caso è chiaro che il Covid 19 risulta come il minore dei mali). Non un aiuto concreto: quattro accordi di chitarra e via: la vita torna a sorridere come per incanto.
Pertanto, quando mia moglie mi ha riferito, ieri l'altro, dell'iniziativa di Thom Yorke e soci – ovvero quella compagine straordinaria che va sotto il nome di Radiohead - di intrattenere la popolazione mondiale in reclusione da Coronavirus per mezzo di concerti settimanali - notizia che mi era sfuggita e per la quale le sono estremamente grato -, ho avuto un attimo di sorpresa. Per come li conosco, mi sembrano persone non accecate dall'enorme successo conseguito, con ancora i piedi a terra, riservate in maniera non patologica ed intelligenti. Caratteristiche che mal si attagliano a chi opta per una simile iniziativa (Ennio Morricone, ad esempio, ha affermato in un'intervista che, in questo periodo, difficile in particolar modo per una persona della sua età, non c'è musica nelle sue giornate, non gli sembra che il contesto consenta in alcun modo di godere di essa, ritenendo invece più adatto un silenzio improntato alla riflessione). Ho quindi subito verificato i dettagli di questa notizia, scoprendo con grande gioia che, in realtà, il quintetto inglese ha semplicemente contribuito ad un aumento del ventaglio di scelte di prodotti in streaming rendendo disponibili gli integrali di alcuni loro concerti risalenti anche a 20 e più anni fa, così risparmiandoci vergognose dirette da salotti di casa grandi come campi da pallavolo (Bruce Springsteen ed Elton John), strimpellate da oratorio (Nek) o imbarazzanti cantate pseudoreligiose da cattedrali deserte (Andrea Bocelli). Con l'ironia che li contraddistingue (facile, devo ammettere: i loro colleghi sono così stronzi da far apparire cordiale persino Donald Trump), hanno subito espresso incertezza riguardo a cosa giungerà prima a conclusione: se il loro archivio o la reclusione da pandemia. Ben detto! E così hanno presentato il primo concerto di questa serie, registrato nell'autunno del 2000 in una tensostruttura nella campagna fuori Dublino, e coerentemente intitolato Live From A Tent. La band vi appare ritratta in uno dei tanti, irripetibili momenti che hanno caratterizzato, specie nel primo decennio di vita, la loro evoluzione artistica: la tournée per la promozione di Kid A, un disco che, bellezza a parte, rifiutava di parlare alle pance del seguito più fedele del gruppo – al tempo già numerosissimo – per rivolgersi, invece, alle proprie, per dare libero sfogo ad un'appetito creativo che, considerati i risultati, mordeva da tempo. Una coraggiosa scelta registica riprende i cinque musicisti con la tecnica del circuito chiuso, conferendo a molte delle esecuzioni un carattere distopico, orwelliano. La giovane età di ognuno traspare ad ogni ripresa, e commuove come tutte le cose e le persone di un tempo passato. Su tutte, le immagini del bassista Colin Greenwood - quella sua tipica postura con il fianco al pubblico, timido, sorridente, concentrato, immerso nella bellezza della propria musica - sono di quelle che rimangono. Il concerto è a dir poco perfetto, ed il brano che ne costituisce l'apertura, The National Anthem, è qui, a mio parere, nella sua più bella resa sonora di sempre. Davvero un'esperienza da non perdere, credete (sempre che amiate la musica e non siate semplicemente bisognosi di uno 'spaccatempo'). In altre parole: consapevoli che molte delle cose che avevano da dire erano già state espresse in molti dei lavori precedenti questi anni, non hanno fatto che riproporli. Ecco tutto.
Alla ricerca disperata di una lettura in grado di dare senso alle cose non solo di questi giorni, mi sono imbattuto, con grande fortuna, nel bellissimo editoriale che Lester Bangs scrisse all'indomani della morte di John Lennon. È uno scritto di disarmante sincerità, capace, in poco più di una pagina, di esprimere, oltre al dolore per la perdita di 'un grande uomo' e per la fine senza sequel di un sogno all'epoca già vecchio di due lustri, il disagio per il travisamento che gli stessi che lo piangevano avevano operato sulla sua figura. Un artista che, ricordiamolo, lasciati i Beatles (non esattamente un passo alla portata di tutti), aveva optato per una lunga assenza dalle scene, ritenendo di non avere, quanto meno in quel momento, qualcosa da dire. In altre parole, e per riagganciarci al discorso di partenza, John Lennon, seppur nella sua grandezza, non si riteneva indispensabile, al contrario dei tanti marchettari che in questi giorni intasano la rete con il proprio ego ed il proprio vuoto artistico.
Meditate, gente.
Meditate.

giovedì 26 marzo 2020

L'ITALIA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS. Uno sfogo.

Il 'direttore' del TG 40ena, Maccio Capatonda.
Non che prima d'oggi fossimo riconosciuti come una compagine di valorosi (dal tempo della caduta del fascismo, quando il paese passò dall'essere quello del consenso pressoché totale a Mussolini ad uno di resistenti della prima ora, noi italiani, come popolo, ci siamo sempre distinti per un talento innato, felino, nell'individuare la posizione più comoda). Con l'emergenza 'Coronavirus', però, tutte le facciate sono andate in frantumi (e con esse anche i miei coglioni, ingrossati a dismisura da questa situazione che, ad oggi, 26 marzo, ha cominciato a produrre su di me il proprio, inesorabile logorio dei nervi, rendendomi quantomai irritabile). Saluti negati o accennati timidamente, sparizioni, latitanze, autoreclusioni ormai lunghe di un mese, delazioni, distanze prima sconosciute ed una sorprendente, supina ubbidienza al dettato del governo, dopo avermi inizialmente infiammato con una parvenza di educazione civica che non reputavo possibile, si sono infine rivelati in tutta la loro cruda realtà: una fottuta, meschina paura di morire (quanto di più maledettamente egoista, cioè, l'animo umano sia in grado di produrre: altro che senso civico!). Chi nutre questo tipo di timore è solitamente una persona che ritiene la propria esistenza indispensabile (Berlusconi, ad esempio, deve essere uno che, al solo sentir nominare la parola, avverte subito il bisogno di passare all'azione, possibilmente scopando, per rimuoverne, seduta stante, i nefasti effetti sulla psiche). Uno può forse chiudere un occhio se questa indispensabilità assume le sembianze - che ne so? - di un Claudio Abbado, un Yuri Chechi, un Lucio Parenzan, esistenze che davvero hanno fatto la differenza - e che, suppongo, visti i risultati raggiunti, abbiano sovente fantasticato sulla propria, specifica indispensabilità. Ma i tanti ominichhi, i travet, le casalinghe disperate, i pavidi inguaribili e gli sfigati cronici che popolano e - purtroppo - ripopolano il paese: dove pensano risieda, la loro indispensabilità? Persone morte dentro da anni, incapaci di una sola parola che venga dal cuore o dalla mente (in pratica, dei cazzari), si manifestano oggi in ogni dove ricoperti da mascherine improvvisate od acquistate a peso d'oro, nel tentativo - questo sì - davvero disperato di preservare le loro inutili esistenze. Quest'oggi ho così tanto sofferto lo stile di vita imposto dall'emergenza (mentre portavo fuori il pattume, un fottuto drone municipale ha fatto la sua comparsa sopra di me), e la modalità malata con la quale molte delle persone che conosco la stanno vivendo, che ho augurato a me stesso di contrarre il contagio, così da avere, finalmente, qualcosa di concreto da dare in pasto ai tanti incompetenti che in questi giorni sembrano aver abbandonato le fogne, qualcosa con cui giustificare la vita del cazzo che tutti sembrano avere deciso di condurre - naturalmente inconsapevoli di rendere merdosa, come conseguenza, anche quella di chi, come me, accetterebbe fin da ora l'invito per un after hours, pur di farla finita con questa recita. Forse ha ragione quello stronzo del dottor Jessen - che, dopo avere per anni trattato casi di gente con testicoli grandi come cocomeri, due cazzi e buchi del culo al posto dell'ombelico, di mostri, se ne intende -: gli italiani stanno usando l'emergenza 'Coronavirus' per farsi una bella siesta. Persino con il suo fare snob da divo della trash tv, riesce a sembrare più simpatico di Roberto Burioni (altro soggetto convinto della propria indispensabilità: ma ci rendiamo conto di pagare il canone RAI per vedere Fazio e Burioni?) Per ciò che mi riguarda, questo periodo della nostra storia nazionale resterà negli annali per il solo guizzo di vita intravisto in un paesaggio integralmente popolato da zombi (grazie, Alberto Arbasino: hai tenuto alto il concetto di cultura fino all'ultimo): il TG Quarantena di Maccio Capatonda, il modo giusto di trattare l'emergenza per quello che è veramente: "una cagata pazzesca".

WORD 2020. Un 'pippotto'.


Nanni Moretti in Palombella Rossa.
Lui è il nostro letterario (sic).”.
Chi parla male, pensa male e vive male, diceva il protagonista di Palombella Rossa. Giudizio tanto severo quanto profetico, a giudicare non solo dalla sciatteria linguistica con la quale, oggi, si ignora spudoratamente la differenza tra un sostantivo ed un aggettivo, ma anche dalla manifesta degenerazione qualitativa dei rapporti interpersonali, dovuta all'incapacità – cronica, quasi un'invalidità - a comunicare il proprio pensiero - e senza includere, in questa sommaria analisi, le omissioni dovute alle tante nevrosi che attanagliano il vivere contemporaneo.
Ci so fare, con le parole. O, forse, farei meglio a dire: ho imparato ad usarle, le parole.
Ho recentemente riletto alcuni miei scritti, risalenti a più di dieci anni fa. Con grande imbarazzo, mi sono trovato di fronte ad una prosa immatura ed inadeguata ai fini prepostimi (la critica musicale e di costume), tipica delle persone con grandi velleità, ma non avvezze alla pratica e alle regole della scrittura. Per mia fortuna, un certo numero di buone letture ed un serio impegno autocritico seguito a quei primi, modesti tentativi, nel tempo ne hanno mutato la forma, rendendola così comprensibile ai più (pecche stilistiche ed una certa pesantezza ancora permangono, ma, si sa, non c'è limite al miglioramento). A margine di ciò, ha contribuito ad una maggiore attenzione all'impiego delle parole la motivazione datami dai tanti apprezzamenti ricevuti in questi primi anni di vita di Sala Colloqui – sebbene l''eccesso di rialzo' di alcuni di essi sia stato dettato più dall'affetto e dall'amicizia che legano me ed i miei generosi ammiratori, che dal reale valore degli articoli apparsi sul blog.
Non saprei dire quando l'impiego attento della parola, orale e scritta, è divenuto, per me, di vitale importanza. Sono stato uno studente mediocre in ogni materia sostanzialmente per l'intera durata del mio travagliato percorso di studi. Poi, in età adulta, è successo qualcosa. È fuori di dubbio che, al tempo del primo tentativo su carta (la recensione di un concerto di Roger Waters), fosse la necessità famelica di gratificazione personale a guidare lo sforzo, allora titanico, del dare vita a qualche riga cui poter apporre la firma (e questo dimostra come la sete di fama, quando assunta a motore unico della creatività, sia semplicemente garanzia di memorabili brutte figure). Penso sia cominciato tutto per questioni legate al lavoro, quando ero addetto alla sicurezza aeroportuale ed ero soggetto all'obbligo normativo di redigere delle relazioni di servizio. Questo genere di - chiamiamola così - composizione, generata in ambito burocratico e militare, diede me, nella veste di occasionale redattore, precetti elementari, presenti in ogni corso di scrittura: rendere sempre chiaro al lettore chi ha fatto cosa, eventualmente 'a' e 'con' chi e quando. Così, le tante incomprensioni dovute alla prosa farraginosa ed al lessico improprio (eufemismo) dei primi tentativi, si trasformavano in altrettanti inviti da parte del mio capo a nuove stesure che fossero più chiare, snelle e maggiormente consapevoli delle persone estranee ai fatti cui le relazioni venivano inviate per conoscenza. Questo fino a quando l'orgoglio non ha preso il sopravvento, e l'essere reputato persona non in grado di produrre una comunicazione efficace mi è sembrato inaccettabile e poco professionale. Imparare a scrivere, ha comportato, per me, due obblighi: un ritorno allo studio della grammatica e un duro lavoro di trascrizione, finalizzato ad apprendere, attraverso testi di pregevole fattura stilistica, le soluzioni indispensabili a tutti coloro che intendano rendersi comprensibili attraverso la parola scritta (una tecnica, quest'ultima, che dai tempi più remoti ha sempre portato a dei risultati: non si dimentichi, infatti, che persino un gigante come Johann Sebastian Bach affinò inizialmente la propria tecnica compositiva proprio trascrivendo le partiture di quelli che egli riteneva essere i grandi strumentisti del suo tempo, esattamente come molti di noi, in tempi più recenti, hanno fatto con quelle del rock, del pop e - per i più arditi - del jazz, sebbene con risultati imparagonabili). Anche la passione per il cinema ha contribuito - e non poco - a fornire modelli di scrittura cui, ancora oggi, sento di attingere incessantemente. La prima sceneggiatura con la quale mi sono confrontato - tanto e tale era stato l'entusiasmo per la pellicola che ne dava sfoggio - fu American Beauty, il bellissimo film di Sam Mendes del 1999, scritta dalle mani di Alan Ball il quale, oltre a fornire un modello esemplare, fu per me la porta verso la scoperta di suoi colleghi altrettanto meritevoli di plauso, quali Aaron Sorkin e Grant Heslov - e la prova vivente che, al prezzo di grandi sforzi, è possibile iniziare una carriera anche dopo i 40 (Ball era quasi sul lastrico quando riuscì a vendere la sceneggiatura che, l'anno seguente, fruttò lui un meritatissimo premio Oscar). Mi sorprende che testi di questa fattura - penso, ad esempio, a The Social Network, del primo, e a Good Night and Good Luck del secondo) trovino spazio esclusivamente nelle scuole di cinema, nel mentre vengono del tutto trascurati dai programmi di insegnamento di scrittura e di lingua Inglese sia alle medie che alle superiori (quando, risaputamente, i giovani ricevono l'imprinting che maggiormente caratterizzarà i loro sforzi in questi comparti nei massimi percorsi di studio come nella vita adulta). Ad oggi, mi sento di dire, pochi altri testi possono mostrare altrettanto efficacemente come si scrive un dialogo (bando all'esterofilia: è giusto ricordare in questa sede due cavalli di razza nostrani quali Paolo Sorrentino ed Umberto Contarello, le cui mani hanno prodotto La Grande Bellezza, una delle sceneggiature più brillanti del cinema italiano di sempre, creativi cui va tributato il plauso per il dialogo della terrazza tra il protagonista Gep e la sua amica Stefania, un scambio al fulmicotone che vale da solo l'intero film).

Il risultato di tutto questo, per concludere, è la frase riportata in apertura. Professionisti da migliaia di euro al mese che si esprimono come semianalfabeti (quali di fatto sono),  e che in questo modo tradiscono disamore per la propria attività  e quella altrui.

Non è un lapsus: sono errori ripetuti in assoluta inconsapevolezza, e, sovente, mai corretti dagli astanti.

giovedì 12 marzo 2020

NOTTE HORROR. Il 'monologo' di Diletta Leotta a Sanremo.


"Essere o non essere? Questo, è il problema."
Ho frequentato il teatro di prosa per un tempo sufficiente a poter dire, con cognizione di causa, che il monologo è genere squisitamente teatrale, nel quale gli attori chiamati ad interpretarlo sono portati, per tradizione, alla propria, massima espressione virtuosistica, similmente a quanto avviene in musica con l'assolo. Si da per scontato che esso – il monologo – sia tributato al più bravo, al fuoriclasse della compagnia, e che da quest'ultimo sia spesso visto come riconoscimento della propria eccellenza, sovente conseguita al prezzo di grandi sacrifici, tipici di questa particolare scelta di vita. Si pensi – per fornire, qui, un esempio pop – alla performance di Jack Nicholson in The Shining di Stanley Kubrick, dove la pazzia crescente del protagonista è resa attraverso i tanti monologhi presenti nella sceneggiatura, e che ancora oggi, a 40'anni di distanza, rappresenta la più grande interpretazione nella carriera dell'attore statunitense (e quanto il cinema abbia mutuato dal teatro di prosa, e sia in qualche modo ed esso debitore, è argomento esaustivamente trattato ed appurato). Esternamente a questi ambiti, però, il termine vanta un'accezione prevalentemente negativa, in quanto connota spietatamente l'atteggiamento di coloro di parlano come da un pulpito, sordi alle parole altrui ed incapaci di dialogare. Per nuovamente esemplificare: il papa, quando parla, tiene un discorso. Piaccia o no, ne ha titolo e, sovente, l'autorità. Ma dire che ha fatto un monologo è invece diplomaticamente irrispettoso ed obiettivamente infamante. Implica un parlare addosso più tipico dei suoi predecessori medievali che dei prelati assurti in tempi moderni al soglio pontificio. Similmente, dire che qualcuno ha fatto un monologo, non è esattamente un complimento.
Per tutti questi motivi, quando YouTube, giorni fa, mi ha proposto 'monologo di Diletta Leotta a Sanremo' per mezzo il suo fantasmagorico algoritmo, la curiosità ha avuto il sopravvento, facendomi così avventurare in sei minuti di imbarazzo, seguiti da giudizi sessisti bestemmiati a voce bassa che non mi è stato possibile trattenere.

Da tempo, al Festival di Sanremo, va di moda impiegare il termine con evidente abuso. Nessuno dei suoi ospiti – e prego tutti di risparmiarmi la descrizione del tipo umano che maggiormente alletta la dirigenza artistica della manifestazione – tiene un discorso: fanno monologhi. Come Laurence Oliver.

E così è capitato anche alla nostra di tenerne uno. Sulla bellezza (un argomento così ricco di asperità che persino i filosofi, quando si occupano di estetica, si guardano bene dell'affrontare con la guardia abbassata). Avevo già avuto qualche sospetto quando, in una recente pubblicità di intimo, Leotta è apparsa in uno spot con tette strizzate e zero battute. Nemmeno uno slogan striminzito (curioso, per una che solo qualche mese dopo riceve un invito a monologare).

Ora, che un uomo, di questi tempi, attacchi una bella figa perché parla, si sa, non porta lontano (a proposito: congratulazioni alle donne di MeToo, che giusto ieri hanno assicurato Harvey Weinstein a 23, meritati anni di reclusione, dopo averlo denunciato in branco e non prima di essersi assicurate rendita a Hollywood e proprietà a Laurel Canyon). Invito pertanto tutti voi a munirvi di un sacchetto per il vomito e a visionare in autonomia il filmato del monologo in questione, che trovate di seguito (se poi ne avete voglia, fatevi due risate leggendo i commenti disparati che questa performance ha scatenato).

Personalmente, rimango con un dubbio – per quanto tutt'altro che amletico -: ma, gli autori del Festival di Sanremo, chi sono? Scrivono queste mostruosità perché vi credono, o più semplicemente, attagliano forma e contenuto al tipo di pubblico cui sanno bene di rivolgersi (quesito retorico: la risposta esatta è la numero due)? Quanto a Diletta Leotta, colpisce l'assoluta assenza di vergogna con la quale si è fatta il processo in diretta televisiva, naturalmente assolvendosi con formula piena (io so' io e voi nun siete 'n cazzo). Ha solo un alibi: l'aver ricevuto un tale compenso da permettersi, dopo questa figura barbina, di farsi dimenticare per un po', magari svernando ai tropici in una struttura sei stelle deluxe (da dove è però certo verrà inviato via social un numero di scatti con maglietta bagnata che nemmeno Salgado in tutta la sua carriera ha numericamente mai fatto).

Dobbiamo, però, essere onesti. Né il Festival né la prestazione di Leotta sono risultati un insuccesso. Tutt'altro. Ottimi indici di ascolto e grande favore per musica, i testi ed ospiti.
Al che si giunge al nocciolo della questione: il pubblico di Sanremo e quello della televisione generalista.
Il primo è vecchio, decaduto, figlio mediocre di quella piccola e borghesia imprenditoriale che, in tempi non sospetti, ha fatto dell'Italia quello che non era: un paese industrializzato. Che in una manifestazione come il Festival vedeva davvero il meritato svago dalle lunghe, spesso dure, giornate di lavoro - e nella presenza all'Ariston l'attestazione di un benessere consolidato. Ha vissuto nell'unica incarnazione concessagli, il baüscia, protagonista della trasformazione della Costa Smeralda in un arcipelago di località da pappone con prezzi da usura, e della riviera di ponente in un buen ritiro a poche miglia dalla salvezza fiscale. Pretendere anche solo un pensiero da una categoria che altro non ha saputo concepire se non il proprio, particolare interesse, è pia illusione. Che la stessa partorisca un pensiero critico di fronte ad un delirio come quello appena ascoltato, fantascienza.

Il secondo, invece, è il popolino ormai stracotto da decenni di palinsesti televisivi a guida unica, completamente defraudato di ogni possibità di scelta razionale, ma non per questo incolpevole della propria situazione. È il teledipedente così come profetizzato da David Foster Wallace, privo degli strumenti culturali - metalinguistici - necessari a leggere tra le righe, ad interpretare parole ed azioni.

Con un siffatto pubblico, Diletta Leotta non ha nulla da temere.

Considerato il successo, c'è da attendersi il bis, con un bel monologo sul sesso.
Speriamo, almeno, ci risparmi gli esempi con nonna Elena.

giovedì 5 marzo 2020

PESCATO DEL GIORNO. Le Sardine in pasto a Maria De Filippi.


Le Sardine ad 'Amici'.
Qualcuno ricorda la gag strepitosa di Bill Murray in Lost In Translation quando, al termine di una giornata interamente passata a ripetere lo slogan della pubblicità per la quale il protagonista è stato ingaggiato, all'educata richiesta di uno sconosciuto riguardo l'ora, risponde: "È l'ora di Santori."?
Ecco: quell'ora è arrivata davvero.
Una decisione forte che rivendichiamo e che ci dà l’opportunità di parlare ai giovani e di portare i nostri valori in un programma che premia il talento.”.
Una decisione forte. Un programma che premia il talento. I loro valori.
Avevo già scritto male delle Sardine già tempo fa, su Facebook, prima di chiudere definitivamente l'account, così consegnandomi ad un solipsismo divenuto funzionale alla mia attuale condizione di fuori-casta a tutto tondo.
E già allora, al tempo della loro comparsa sulla scena politica, le avevo date per spacciate. Profezia oggi confermata dalla sottomissione di Mattia Santori - leader maximo del movimento - e compagni a sua maestà Maria De Filippi ad appena il sesto mese di vita. In fasce, praticamente.
Mi rendo conto, qui, della necessità di essere quanto mai chiaro.
Sono un 50'enne che, in questo specifico frangente, sta tenendo a giudizio dei giovani che, potenzialmente, potrebbero essere suoi figli.
Sono anni che attendo di imbattermi in un giovane con attributi così virili da mettermi a tacere al primo round. Questo è, per me, uno dei compiti delle nuove generazioni: fottere a morte quella precedente. Presentarle il conto e chiedere spiegazioni. Metterla di fronte alle proprie, innegabili responsabilità, e ad una nuova, diversa visione della vita.
Mettiamola così, allora: se questi tre venduti dell'ultima ora che sono i rappresentanti delle Sardine credono davvero di poter parlare ad uno come me e, magari, persino di riuscire a persuaderlo con il loro vuoto spinto, beh: si sopravvalutano davvero.
La realtà, però, è un'altra. E cioè che i nostri eroi ben se ne guardino dal voler persuadere uno come me. Hanno altre e ben più ambiziose mire da perseguire. Tre giovani che non dopo anni ed anni di militanza, dopo essersi per bene scottati e scontrati, bensì sul nascere del proprio movimento calano le brache di fronte a Maria De Filippi, accettandone supinamente l'invito; che si fanno irretire così facilmente dalla promessa di uno spazio libero; che, non paghi di questa palese sottomissione, cerchino persino di sdoganarla ai nostri occhi presentandola come meritocratica, dialogica, valoriale e, nel suo insieme, financo coraggiosa, fa solo pensare una cosa: che i nostri tre eroi abbiano le idee molto chiare su come scalare il sistema, in culo ai meriti, senza doverne chiedere conto a nessuno – tantomeno ai coetanei che dicono di rappresentare – ed in barba ai valori (“la bellezza”, sì, buonanotte) fino a quel moneto professati.
Sono probabilmente andati a scuola meno di Greta Thunberg, ma si sentono investiti (da chi?) della missione di portare noi la luce (quale?). Richiamano tutti alla pratica della bellezza, ma all'uscita del film di Sorrentino stavano, probabilmente, alla proiezione de I Guardiani Della Galassia.
Qui i casi sono due. O il seguito delle Sardine (duole persino conferire loro la maiuscola) è ben più malmesso dei loro fedifraghi leaders – e per questo non si rende conto del vuoto assoluto che li caratterizza – o, più semplicemente, sono come loro e li seguono nella sola speranza di poter salire presto sul carro dei vincitori (pia illusione, visto come gli attuali padroni del vapore li hanno già inquadrati ed irregimentati).
Maria De Filippi è la personificazione di quel potere mediatico, orwelliano, onnivoro e predatorio, negli ultimi decenni promosso fortemente dalla politica, che ha messo la generazione delle Sardine nella condizione indubbiamente disperata nella quale si trova oggi. È la regina incontrastata dei palinsesti tutti, concorrenza compresa – che ben si guarda anche solo dal pensare di interferire con una particolare prima serata presentata o voluta dalla nostra. Dispone – a suo indiscutibile piacimento - di un format per ogni tipo di subcultura dominante: la pietà (C'è Posta per Te), l'arrivismo (Amici), l'infatuazione (Uomini & Donne). E tutti di grandissimo successo. Regna per censo, insomma, ed i suoi talenti – gli stessi che si sforza di individuare strenuamente nei partecipanti di 'Amici' - sono ai più sconosciuti. Giusto ieri l'altro, Nicola Porro (non propriamente la personificazione del giornalismo d'inchiesta, ma va da sé che questo passa, il convento) si è permesso una critica all'acqua di rose ad 'Amici' e De Filippi, proprio sul tema dell'invito fatto alle Sardine. Apriti cielo. Replica immediata di De Filippi e, l'indomani, scuse di Porro e redazione. Insomma: chi tocca, muore.
Che le Sardine, per mezzo dei propri rappresentanti, cedano così mollemente al ricatto del sistema (o da noi o porte chiuse) e lo facciano con parole di elogio per colei che così munificamente lo rappresenta, è un segno che non lascia speranza sull'effettivo valore di quest'ultima generazione.

lunedì 2 marzo 2020

OUT OF ENGLAND. Gli italiani e l'Inglese dopo la Brexit.


Lo 'Union Jack' secondo l'artista britannico Banksy.
Giorni fa, Boris Johnson, il primo ministro inglese, ha reso noti i requisiti che, nell'Inghilterra post-brexit, verranno ritenuti essenziali ai fini dell'ottenimento di un visto UK per soggiorno o lavoro. La lingua inglese sarà un requisito imprescindibile, e questo mi ha fatto subito pensare ai tanti italiani residenti a vario titolo, certificato o millantato, nel Regno Unito. Quelli, per capirci, che “vado a Londra” e puntualmente si accampano a Camden, circondati di connazionali, a perpetrare il mito infamante dell'italiano medio. Per costoro si annuncia una stretta che renderà il futuro lavorativo e residenziale alquanto incerto. Quale sarà il livello di capacità linguistica necessario ad evitare un imbarazzante - quanto improbabile – rimpatrio? Quello di Johnson, elitario e sudista, od il semplice, formale livello basic ottenibile con uno sforzo intellettuale minimo? Sono quasi certo che nemmeno il ministero competente sia in grado, in questo momento, di rispondere a questo semplice quesito. La mia impressione è che nel Regno Unito non vi sia grande chiarezza sul da farsi, in questa fase storica, e che le parole di Johnson non valgano più delle sparate di Matteo Salvini. È l'euforia del momento, a dettarle. Ben altra cosa è farne un programma serio di controllo degli accessi. D'altronde, gli stessi inglesi sono i primi a non saper pronunciare senza scadere nel ridicolo due parole che non appartengano alla lingua madre: hanno solo avuto la grande fortuna di vederla imposta come seconda lingua per il resto del mondo. Vedremo. Per tornare ai nostri “cervelli in fuga”, ad assistere a certe prestazioni linguistiche, si ha davvero l'impressione che molti di essi - alcuni, senza dubbio, eccellenze assai gradite all'estero - in tutto siano stati impegnati fuorché nello studio dell'Inglese, vera e propria bestia nera di ogni italiano, da sempre. Si pensi, ad esempio, al caso scandaloso di Radio Freccia, emittente di musica rock con ottimi ascolti in termini numerici, i cui conduttori, quotidianamente, danno prova di un rapporto con l'Inglese a dir poco travagliato (occuparsi di musica rock senza conoscere l'Inglese è come voler approfondire la musica di Richard Wagner bellamente ignorando il Tedesco: impossibile). Giorni fa, la conduttrice di turno propone agli ascoltatori la lettura dell'ennesima biografia di musicista rock (genere letterariamente ignobile, ma va da sé che ad un pubblico come quello di Radio Freccia difficilmente altre e migliori letture possono essere sottoposte). Attenzione: non lo fa con la consueta edizione tradotta: si arrischia a consigliarne l'originale in Inglese. Il lavoro, ennesimo resoconto degli eccessi pre-pensionamento di Ozzy Osbourne, reca il titolo The Nine Lives Of Ozzy Osbourne. La nostra conduttrice lo legge, ma sbagliandone marchianamente la pronuncia (“livs”). Lancia quindi un ascolto in tema e, terminato questo, torna con slancio inconsapevole alla sua bella marchetta. Ripete il titolo con l'identico errore. Altra sviolinata sul madman e quindi via con nuovi ascolti. Si noti questo. Tra l'errore e la sua ripetizione, passano svariati minuti. Un arco di tempo più che sufficiente a qualunque essere umano con un bagaglio culturale ordinario per accorgersi delle brutta figura e suggerirne la correzione. Intervento che, nel caso in questione, però, non ha luogo, facendo sospettare identici problemi con l'Inglese vi siano anche da parte di redazione e regia. Questa, a mio parere, è l'Italia. Una nazione che da una parte si sopravvaluta (esempio ne è il numero via via crescente dei cosiddetti 'tuttologi'), dall'altra una che nutre, a propria difesa, la malcelata certezza che il prossimo sia sempre un inetto o un cretino. Non si spiegano in altro modo, le figure barbine che gli italiani fanno quotidianamente, quando tocca loro di impiegare l'Inglese. Molti dicono che queste sono da attribuirsi alla mancanza d'amore per la lingua di Shakespeare. Anche a voler seguire questa logica infantile, perché, allora, impegnarsi in tutti quegli ambiti dove l'Inglese è la lingua ufficiale? Ingegneri, musicisti, scienziati, astronauti, piloti, tecnici informatici, medici con alti livelli di specializzazione: come può essere possibile ricoprire questi ruoli senza avere dimestichezza con l'Inglese? È come odiare il latino e poi iscriversi al liceo classico. In occasione della recente cerimonia di consegna dei Globe Awards (gli Oscars di serie b conferiti dalla stampa estera residente a Hollywood), Ricky Gervais, nel mostrarsi stupito per l'ennesimo invito a presentarne la serata (causa l'ironia spietata e tagliente messa in campo nelle precedenti occasioni), ha dichiarato: “Per mia fortuna, la stampa estera di Hollywood, a malapena parla Inglese.” (“Lucky for me, the Hollywood foreign press can barely speak English.”). Il problema è quindi condiviso, e non esclusivo del 'bel paese'. Ugualmente, trovo irritante l'atteggiamento degli italiani quando hanno a che fare con l'Inglese: denota provincialismo – che, a ben vedere, è uno dei nostri grandi problemi, quello con le più gravose conseguenze su tutto il resto. Per nostra fortuna, questa situazione è destinata a non durare a lungo. La Cina sempre più imporrà al mondo, similmente a quanto fatto 75 anni fa dagli Stati Uniti d'America, la propria egemonia, fino a quando la lingua di Confucio diverrà ufficialmente ciò che oggi l'Inglese fatica sempre più ad essere: una lingua franca, in grado di garantire quel minimo di informazione senza il quale il mondo globalizzato, come noi tutti lo conosciamo, non può esistere. Quelli come me, a ragion veduta, saranno considerati dei matusa, tutti ripiegati su di una lingua dei tempi che furono, di quando eravamo giovani, esattamente come io ed i miei compagni vedevamo gli insegnanti di Francese negli anni '80, quando l'insorgere del bilinguismo anglosassone cominciava a farsi largo a spallate. Io stesso, quest'oggi, non saprei scrivere il nome di un solo uomo politico cinese – a riprova che la selezione è già cominciata. God save the Queen, musi gialli.

lunedì 9 dicembre 2019

JOIE DE VIVRE. Il mio, personale ricordo di Michel Petrucciani.

 L'immenso Michel Petrucciani.
È davvero sorprendente come la radio, nel fiume pressoché ininterrotto di quella verbosità insensata che caratterizza ormai, uniformemente, ogni suo canale, sia ancora in grado di donare momenti di pura bellezza e grande stupore a chi, come il sottoscritto, ancora l'ascolta con una passione d'altri tempi.
È successo stamane (5 dicembre), all'alba, su quell'isola che non c'è che è il terzo canale RAI (riconosco, da me insistentemente citato, come ne fossi un azionista, ma va da sé che lì, e solo lì, è avvenuto il miracolo).
Ricorre infatti quest'oggi – ma ne ero completamente dimentico – il ventesimo anniversario della scomparsa di Michel Petrucciani (per chi non lo conoscesse, un incantevole pianista jazz francese cui la natura aveva dato tutto ciò che abbisogna ad un essere umano per eccellere in campo musicale, avendo però la stessa privatolo dalla nascita di quella condizione di sana e robusta costituzione essenziale per la longevità, così imponendogli una scomparsa prematura sia dal punto di vista musicale sia da quello biologico).
Quando ti devi alzare all'alba per recarti al lavoro, la voce radiofonica è una fonte di conforto non di poco conto, sebbene, come accennato in apertura, il nonsense sia sempre in agguato.
Ed ecco allora che, data l'ora spaventosa dell'uscita di casa - corrispondente, oggi, ad una fascia oraria dove ogni emittente, persino la più scalcinata e provinciale, dispone di un format mattutino e consolatorio dedicato a tutti coloro che abitualmente od occasionalmente sono costretti a tirare la carretta al cantar del gallo - mi sintonizzo su Radio Rai 3, dove, va riconosciuto, è possibile sentirsi un poco più protetti, in termini contenutistici, rispetto agli abissi della concorrenza.
È una fascia oraria di repliche, puntualmente seguite da proposte di ascolto in ambito classico di musiche legate tra loro da una parola differente giorno per giorno.
La parola di oggi era vita.
Nonostante l'ora piccola, la conduttrice sembra d'improvviso riprendersi, come se qualcosa, finalmente, l'avesse risvegliata dalla noia di palinsesti a volte troppo uguali. Ricorda agli ascoltatori del triste anniversario. Aggiunge che la parola del giorno ben si adatta all'opera del pianista francese, avendola egli amata così tanto, la vita, da averle persino perdonato la malattia che questa gli aveva donato in nascita. Senza ulteriori preamboli, parte Brazilian-like, dal vivo. E non c'è null'altro che io possa fare, in quel momento, che accostare, occhi lucidi, e farmi avvolgere per qualche minuto da questa musica viva, ricca, meravigliosa.
Ho avuto l'onore e la fortuna di sentire Petrucciani dal vivo due volte. La prima, mi sembra, intorno al 1997, in occasione di un'esibizione privata con finalità benefica per i Lions del Lago Maggiore. Insieme ad un amico attraversai i binari di un tratto di ferrovia per poi arrampicarmi (!) sul costone della cappella privata, sede del concerto. Fummo issati all'interno della proprietà dagli addetti alla sicurezza, spaventati, più che dall'incursione, dall'eventualità, verosimile, di una caduta all'indietro sui binari, con sopraggiungere fatale di treno merci transalpino in transito notturno. Al fine di non turbare il clima ormai consolidato dell'evento, ci fu consentito di restare, ma all'esterno della struttura. Data la stagione mite, le finestre stavano aperte. Ci posizionammo come profughi su quella del retro, che il caso volle fosse a non più di tre metri dal pianoforte. Praticamente, sul palco. Fu come un sogno. In uno degli spasmi dell'esecuzione, Petrucciani riuscì a fotografare i nostri volti, continuando a suonare del tutto indisturbato. Anzi: forse persino galvanizzato dai nostri sguardi imploranti. Lo capimmo quando, al termine, ci riuscì di entrare e raggiungerlo.
“Hey, ragazzi: si sta meglio fuori, no? È più fresco che qui.”.
Petrucciani parlava italiano.
“Michel: complimenti. È stato bellissimo.”
“Grazie, ragazzi.”
Alzò la mano dal suo metro scarso di altezza e diede noi un cinque, contraccambiato con ammirazione assoluta ed un'invidia demoniaca per il livello sconcertante di quanto avevamo appena sentito.
La seconda volta fu nell'anno della sua scomparsa, il 1999. Ad Arona. Parco della Rocca Borromea. Nel solito luglio caldissimo. In quello che sarebbe poi diventato l'ultimo concerto italiano di Petrucciani. Una scadenza della quale egli solo, probabilmente, era consapevole, ma che in nessun modo riuscì ad intaccare quella gioia del fare musica e quell'amore per la vita che così fortemente hanno caratterizzato tutte le esecuzioni della sua carriera. Accompagnato da una formazione di superstar del jazz, quando queste compresero che la sua improvvisazione stava debordando, aveva l'urgenza di comunicare qualcosa che non poteva più essere contenuto, con grande discrezione si fecero indietro e lo lasciarono suonare solo per circa un quarto d'ora, immerso nella bellezza della creazione, gratificato dall'incanto e dalla commozione del pubblico.
Michel Petrucciani, è morto a soli 36 anni, lasciando dietro di sé, oltre al compianto per la perdita di una grande voce – in senso naturalmente lato - della musica, un esempio di dedizione alle proprie, naturali, predisposizioni che davvero meriterebbe di essere proposto ai nostri giovani.
In un tempo dove il format unico televisivo tenta insistentemente di persuaderci che basti un po' di faccia tosta e quattro accordi di chitarra per sentirsi attribuire un non meglio specificato 'talento x', la vicenda musicale di Petrucciani può essere il miglior antidoto per riportare il giusto ordine nelle nostre menti e nei nostri cuori.