sabato 6 aprile 2019

VITE AL LIMITE. L'incredibile storia dei Mötley Crüe.


A quattordici anni sono stato un fan dei Mötley Crüe. Per impeto giovanile, disallineamento con la moda in auge e ribellione ai valori di famiglia – momenti, questi, che, in giovani psicologicamente sani, sovente corrispondono alla piena adolescenza. E perché, per dirla con le parole di Nikki Sixx, bassista e fondatore del gruppo, davvero, al di là della vulgata ufficiale, gli anni '80 furono “il peggior cazzo di decennio nella storia dell'uomo.”.
O, quanto meno, così lo percepivamo noi misfits.

Con il senno di poi, possiamo tranquillamente dire che non si trattò di una svista.
Mi pare iniziò tutto con il videoclip di Home Sweet Home, trasmesso con puntualità sconcertante (era il periodo dei 'Duran' e degli 'Spandau') dalle emittenti del Silvio Berlusconi, e dalla mai sufficientemente compianta Music Television. Un videoclip bruttino, fortemente autocelebrativo, pieno, però, di quegli elementi persuasivi (l'abusata triade sesso-droga-rock 'n roll) finalizzati a dimostrare come ancora si potesse ottenere 'successo' (parola chiave per correttamente leggere la vicenda artistica dei Crüe) pur non aderendo alla moda corrente.
Personalmente non potevo, al tempo, chiedere di meglio. Per quanto stupida possa sembrare una simile affermazione, finalmente mi sentivo rappresentato.
Da chi e cosa, infine, lo compresi solo in età adulta.
I Mötley Crüe non furono esattamente una band. Furono piuttosto una gang. I suoi componenti avevano in comune, prima ancora della passione per il rock 'n roll, trascorsi di abbandono, negazione, violenza, disadattamento e vagabondaggio. Spiegano la magnetica, invincibile attrazione di alcuni di loro, il cantante Vince Neil ed il bassista Nikki Sixx, per condotte di tipo criminale, tossico-dipendente e financo maniaco-sessuale, determinanti nella creazione della leggenda che ancora oggi avvolge il nome del gruppo. È alquanto probabile che, senza il successo arriso loro anche a fronte di detti eccessi, i quattro rockers avrebbero affrontato un percorso di vita più simile a quello rieducativo che di tipo artistico. La band fu quindi un modo per fuggire ad un destino che sembrava già segnato, ma che ugualmente li perseguitò per gran parte della carriera, portandoli in alcuni casi al limite con l'autodistruzione. Aprì loro un decennio di eccessi - e successi - smodati che qualunque manager di oggi non saprebbe né vorrebbe tollerare: furono gli epigoni dello stile di vita rock 'n roll.   Di levatura musicale mediocre, hanno prodotto una decina di dischi in quattro decenni scarsi di attività - incisioni stilisticamente stereotipate, caratterizzate da un buon suono e da testi improntati ad un edonismo perfettamente in linea con la condotta di vita dei suoi componenti.
La biografia dei Crüe, qui malamente riassunta, è invece rapidamente ed assai meglio raccontata nella recente produzione Netflix The Dirt, tratta dal libro omonimo del 2001. Un lungometraggio con il quale, ancora una volta, la piattaforma statunitense riesce a fornire al pubblico pagante una visione godibile (a patto di essere disponibili alla scandalo), una narrazione efficace e persuasiva pur non toccando vette di assoluta eccellenza; capace di raccontare un'era, una tendenza, un caso commerciale ed umano, senza per questo scadere nella pesantezza tipica di chi, come il sottoscritto, sebbene indirettamente, quelle vicende ha vissuto da imberbe.
In una scelta stilistica assai condivisibile, The Dirt impiega – o sarebbe meglio dire 'dispiega' – quasi per intero il bagaglio tecnico comune ad ogni regista in attività, conseguendo in tal modo il risultato di raccontare in maniera lineare e mai noiosa un intero decennio di eccessi reiterati i quali, se esposti nella forma della serie televisiva, avrebbero certo indotto lo spettatore allo zapping dopo la seconda puntata.
A differenza della maggior parte della recente, industriale realizzazione di film insulsi dedicati a musicisti di successo (biopics), The Dirt ha il pregio di non celebrare gli eccessi dei suoi protagonisti omettendone furbescamente il lato oscuro – nonostante i Mötley Crüe abbiano contribuito, si pensa anche onerosamente, alla sua produzione (e questo valga come giudizio al contrario per Bohemian Rhapsody, pellicola che solo poteva risultare accattivante a coloro che con la musica hanno un rapporto, per così dire, conflittuale). Il punto di vista prevalente è senza dubbio quello di Sixx: le introspezioni e gli approfondimenti narrativi – scarni e rapidi entrambi – interessano esclusivamente la sua vicenda personale. Ugualmente è fatto protagonista di una sequenza – l'assunzione di eroina a breve distanza dall'overdose – che non lo configura esattamente come la prossima star di Hollywood, ma che, collegata a quella del cambio di nome all'ufficio anagrafe e, ancor prima, a quella di autolesionismo in tenera età, ne fa una figura disperata e fragile con la quale lo spettatore può empatizzare senza alcun imbarazzo. Il tutto senza rinunciare a momenti di grande commozione, distanti anni-luce da qualsivoglia stile di vita rock 'n roll, come l'intimo ed ultimo sguardo tra Vince e la piccola Skylar nella stanza d'ospedale dove quest'ultima troverà la morte.
The Dirt dimostra due teorie. La prima è che qualunque storia può essere raccontata (si veda, per restare in ambito musicale, Lords Of Chaos di Jonas Åkerlund), a patto di crederci, essere capaci di fornirne una visione e – va da sé - saperla scrivere. La seconda che ancora, in Italia, la censura è in atto, non più a livello contenutistico, bensì artistico-direttoriale. Le nostre produzioni sono soggette al tabù – politicamente imposto od assecondato - del tema inenarrabile (quale sarebbe certamente considerato quello di The Dirt, qualora si trovasse nella penisola un solo direttore artistico in grado di proporlo). E non fanno eccezione le belle realizzazioni di Romanzo Criminale, Gomorra e Suburra le quali, nonostante l'ottima fattura, confermano che nel Bel Paese si può parlare, al massimo, di temi legati alle cronache interne, nell'assoluto silenzio riguardo a molti altri argomenti ed altrettanti punti di vista.
In parole povere: ristrettezza di vedute ed assoluta mancanza d'interesse per l'altro-da-sé.
Per tutto ciò che è diverso.
Attuale - no?

lunedì 11 marzo 2019

HOT FOR TEACHER 2. Vittorio Feltri e l'etica (mancante) della responsabilità.

Vediamo di capirci, senza grandi giri di parole.

Per Vittorio Feltri, giornalista e direttore di Libero, se un'insegnante da alla luce un figlio il cui concepimento ha avuto luogo in sede di ripetizioni con l'allievo tredicenne (è accaduto in quel di Prato), quest'ultimo, semplicemente, si è fatto una sana scopata, né più né meno, e può ringraziare il cielo per lo straordinario anticipo con cui ha avuto accesso alle gioie terrene rispetto alla media dei coetanei. Questo quanto scritto, in soldoni, nel suo editoriale della domenica.

Punto.

Pier Paolo Pasolini, che nella sua opera di poeta, scrittore, saggista, regista cinematografico e teatrale si confrontò spesso con il tema dello scandalo, visto sia come fenomeno sensibile che come oggetto di analisi, sosteneva che 'moralista' è colui che rifiuta non solo lo scandalo, ma anche, e soprattutto, il farsi scandalizzare, l'accettare di farsi scandalizzare.

Pertanto, in omaggio alla lezione pasoliniana, considerando me stesso come persona aperta allo scandalo, mi asterrò da un giudizio morale sull'uomo e sul professionista Feltri: se sono queste le fantasie che gli permettono di vivere l'esistenza come dotata di senso e foriera di gratificazioni, ben venga. La scelta e e ciò che ne consegue, umanamente e penalmente, sono affar suo e solo suo.

Dal punto di vista etico, invece, qualche giudizio va emesso.

Il nostro paese, è utile ricordarlo, è quello dove orge di lusso in stile Eyes Wide Shut hanno avuto luogo a livello governativo - e, più in generale, di potere - con una tracotanza ed una  reiterazione tali da portarne le gesta in sede giudiziaria (il processo Bunga-bunga) con le conseguenze che sappiamo (a meno che non si legga Libero o Il Giornale). (Avendo appena citato Pasolini, è anche utile ricordare come egli avesse profeticamente previsto ed analizzato nelle sue nefande conseguenze proprio questo tipo di degrado etico del potere e dei suoi rappresentanti, nel film Salò O Le 120 Giornate di Sodoma, del 1975.). Pertanto, un così ampio spostamento del confine del lecito da parte della categoria che, piaccia o no, è ancora, per tradizione, quella da cui deve venire l'esempio, ha comportato tutta una serie di assestamenti nel campo dei costumi civili e politici che l'editoriale di Feltri, debitamente intitolato 'Una prof ha un figlio dall'allievo 14enne. Scandalo? Non direi.', ben rappresenta.

Prova di questo nuovo assetto etico, la candida lettura fattane stamane (10 marzo), durante la rassegna-stampa, da Angela Mauro dell'Huffington Post nostrano: senza, cioè, fare la benché minima piega. Come leggendo un pezzo sulla Festa dell'Unità o sull'Isola dei Famosi. E, quando richiamata ai propri doveri etici da un radioascoltatore disgustato, intervenuto telefonicamente, con l'aggiunta: "Caro signore: siamo in democrazia.". Capite? Capite quale pasta umana l'Ordine dei giornalisti ritiene adeguato al ruolo? Quale sia il concetto di democrazia che abita la testa di una professionista regolarmente iscritta all'albo?

Nell'editoriale in questione, Feltri ha sparato ad alzo-zero. Oltre alla conclusione riportata in apertura di questo scritto, il direttore di Libero sostiene che, se proprio si vuole contestare la condotta della frizzante insegnante, le si dovrebbe imputare la mancata assunzione di un'anticoncezionale che avrebbe di certo evitato la seccatura del riconoscimento e del conseguente mantenimento del piccolo. Per il resto, non ha ucciso nessuno, dice il nostro (ed anche qui va sottolineato lo sconcertante silenzio di Mauro, sebbene la versione di Feltri sia palesemente sessista e pure a ridosso della giornata della donna). Non è, questo, un perfetto esempio di irresponsabilità?

Mi è venuto subito da pensare che con un articolo così, nel North Carolina, per dirne una, quasi sicuramente finisci in galera. Ma questa è solo una considerazione marginale. Da noi non solo non ci finisci, in galera, ma è anche probabile ti venga tributato un bell'applauso. Questa sì è la vera conseguenza di vent'anni di berlusconismo: la quasi totale corruzione dei costumi che ha interessato la nostra società nella sua interezza, dalla politica all'informazione, dai cosiddetti opinionisti alla pubblica opinione.

"Lascereste mai vostra figlia di quattro anni con quest'uomo?", ironizzava Charles Bukowski, quasi certamente riferendosi a se stesso.

No. Non la lasceremmo, caro vecchio Hank.

Come non lasceremmo una qualsiasi testata giornalistica in mano ad uno come Feltri.

Ma quella era la California. Questa la Padania.

In conclusione: se leggi Libero e ti ci riconosci, te lo meriti.

sabato 2 marzo 2019

COMBATTERE LA CHIACCHIERA. Una serata con Alessandro M. Carnelli.

È da tempo che avverto in me il disagio, l'apatia e l'insoddisfazione determinati da quest'epoca di chiacchiera imperante ad ogni livello.

Si ha davvero l'impressione, ascoltando le persone negli immancabili sermoni quotidiani, che la chiacchiera da Bar Mario, sdoganata nel bel paese quasi trent'anni fa dall'omonima canzone di Ligabue, sia ormai divenuta un vero e proprio codice di riconoscimento, similmente ai cori da stadio dei tifosi del calcio o alla danza maori dei rugbisti neozelandesi, per una categoria umana - i cosiddetti tuttologi - vasta come un'area di consenso maggioritario. E il bar il contesto naturale, l'habitat - dove detto codice si imprime e sviluppa, odierna e depauperata versione del caffè letterario.

Vi chiederete - si spera - perché qusto riferimento, alto, al caffè letterario: perché Alessandro Maria Carnelli, amico, direttore d'orchestra, musicologo e conferenziere del quale ho già avuto modo di scrivere in un precedente post, è esattamente il tipo di persona che avreste potuto incontrarvi all'interno, se solo il suo concepimento fosse avvenuto con anticipo di un secolo. Colto, appassionato, realista, attento alle avanguardie, e dotato di un senso dell'umorismo pronto e tagliente a protezione dagli incanti dei falsi profeti.

Pagato pegno all'italica pratica dell'inchino (che si spera possa tradursi in inviti a gratuitamente imbucarsi alle prossime stagioni sinfoniche che lo vedranno sul podio), quella di ieri sera con Alessandro Carnelli, la conferenza dal titolo 'Notte Trasfigurata: donna e società nella musica e nella cultura della mitteleuropa di primo '900. Conversazione con Alessandro Maria Carnelli', è stata l'equivalente di una vera e propria gita in montagna, dove gli intervenuti hanno potuto respirare a pieni polmoni, per un'ora e mezza abbondante, l'aria purissima di chi parla non per chissà quale imposizione, bensì per naturale vocazione: per scelta, competenza ed inossidabile cognizione di causa. Esattamente i tratti che molte (troppe) istituzioni, culturali e non, non riescono più a garantire.

Voluta dalla Consulta Femminile di Arona (alla quale va, come minimo, il plauso per il coraggio ed il gusto della scelta) in vista dell'8 marzo, la serata si è articolata in una esposizione a braccio inframmezzata dall'analisi di esempi dell'iconografia dell'epoca in analisi, e dagli ascolti - meravigliosi - da Tristano e Isotta di Richard Wagner e Notte Trasfigurata di Arnold Schönberg, interrotti con enorme sofferenza dal Maestro per questioni di tempo - argomenti, tutti,  pescati a piene mani dal lavoro che, lungo questi ultimi anni, Alessandro Carnelli ha svolto sul tema, sfociato nel notevole ed apprezzato saggio 'Il labirinto e l'intrico dei viottoli: Verklärte Nacht, di Arnold Schönberg', e nel disco Towards Verklärte Nacht, registrazione di rara coerenza programmatica e particolare bellezza.

Alessandro Carnelli ha affrontato un argomento che nell'italietta 2019 può serenamente dirsi impopolare e difficile. Lo ha fatto con chiarezza espositiva, senza inciampi, con la propria personale volontà (da grande divulgatore) a mettersi sul piano degli intervenuti, così catturando l'attenzione anche dei più malmessi (io: ero morto di sonno).

Sui contenuti dell'esposizione non mi esprimerò, pena il rovinare il bel lavoro fatto dal Maestro: rimando tutti di cuore alla lettura del libro e all'ascolto della registrazione che non solo possono arricchire chiunque vi si accosti con un minimo di disposizione ad apprendere e doverosa umiltà, ma anche costituire un ottima idea per un regalo speciale, diverso, da darsi, possibilmente, a soggetti meritevoli di cotanta cura e raffinatezza.

Sulle conclusioni, invece, dirò, per trasparenza, a cosa sono giunto, visto che da un incontro di questo tipo si spera di tornare a casa almeno un po' scossi nelle proprie personali certezze.

Si fa un gran parlare, a livello politico, di quote rosa (termine villano e fuorviante) come fosse una scoperta scientifica di lor signori, bellamente ignorando come la grande cultura mitteleuropea della Vienna di fine secolo, per mezzo dei suoi migliori esponenti, avesse già inquadrato il problema esattamente negli stessi termini con cui si pone oggi a noi moderni - che  con la definizione 'quote rosa' cerchiamo appunto di rivendicarne la paternità e financo la ricerca di una soluzione (!), in una sorta di buio anno zero, incapaci di riconoscere che senza una svolta genuinamente culturale questo paese, al massimo, passerà dalle quote rosa a quelle nere, nere come le camice che già marciarono per le strade della civilissima Europa quasi un secolo fa e che oggi si tingono magari di altri colori, ma che sotto sempre nere rimangono.

La conversazione con Alessandro Carnelli mi ha ricordato due esempi che vado subito a riportare - e che spero non urtino la sensibilità del Maestro, quando si vedrà ad essi accostato senza previa autorizzazione.

Il primo è Aldo Carotenuto, defunto docente di Psicologia presso La Sapienza di Roma, quando sosteneva: "Per qualunque disciplina, nel momento in cui esponiamo un problema, per quanto complesso e oscura possa essere, se veramente ne abbiamo compreso il nucleo la relativa descrizione sarà necessariamente chiara ed esauriente.".

Il secondo è la figura del professore descritta da Massimo Recalcati ne L'Ora di Lezione. "L'insegnamento non dipende da una retorica o, come si dice oggi, da una capacità o da una tecnica di comunicazione, ma dal carisma di chi parla, ovvero da come sa rendere vivi, far vibrare gli enunciati che trasmette. Dipende dalla forza enigmatica della sua enunciazione.".

Ieri sera ho pensato che sarebbe stato bello, se avessi avuto, da studente ignorante quale sono stato, un insegnante così.

Poi, però, mi è tornata alla mente anche una frase che lo stesso Maestro riportò nel mentre io e lui si parlava seduti su una panchina, mesi fa. Mi diceva del giudizio lapidario che un commerciante della città (Arona) aveva espresso in sua presenza riguardo l'impatto sulla cittadinanza di alcune recenti iniziative culturali: "Certo che questi eventi, di lavoro, non ne portano.".

Ecco. In un'Italia culturalmente siffatta, che legge Fabrizio Corona ed è incapace di concepire la cultura svincolata da un bilancio di esercizio, serate come quella di ieri hanno l'efficacia di un vaccino esavalente.

Buon lavoro, Maestro. E grazie.

domenica 25 novembre 2018

L'UOMO SENZA INCONSCIO. Rocco Siffredi e la sconcertante replica a Mario Adinolfi.


Un conoscente, incontratomi per caso, ha insistito affinché gli concedessi di mostrarmi un documento audiovisivo dai contenuti ritenuti - sembra di capire - di assoluta rilevanza critica.
Siccome mi interessa vedere fin dove si può arrivare quanto a vacuità, e dato il mio constante risultare, in questi frangenti, un inguaribile pusillanime, ho acconsentito alla richiesta.
Si trattava del recente scontro a distanza, avvenuto sulle frequenze dell'emittente radiofonica Radio24, tra Mario Adinolfi, esponente dell'imbarazzante partito politico Il Popolo Della Famiglia, e Rocco Siffredi, pornostar da tempo ufficialmente sdoganata dalla televisione pubblica e privata – che in Italia sono la stessa cosa –, in preparazione del grande passo storico del pornazzo in prima serata.
Sembra dunque che il primo (Adinolfi) abbia proposto, coerentemente con la propria posizione e ruolo politici, l'esilio forzato, il bando, del secondo (Siffredi), ritenuto (il secondo) moralmente riprovevole (dal primo), corruttore dei santi precetti per la costituzione e la conduzione di una famiglia che voglia dirsi (per il primo) degna di questo nome.
E la risposta di Siffredi a tale, becera provocazione non si è fatta attendere. Con un messaggio vocale inviato alla trasmissione La Zanzara, condotta dagli amabili furbacchioni Giuseppe Cruciani e David Parenzo, il pornoattore marchigiano ha difeso, con stile a dir poco personalissimo, le proprie posizioni.
Dopo infatti averlo ingiuriato per interposta persona (“... mi dicono: 'Rocco: ma rispondi a 'sto stronzo'), scoperto il ruolo politico di Adinolfi, Siffredi si è lanciato in una difesa a spada tratta della propria famiglia (“... fantastica, bellissima, ragazzi stupendi, tutti e due laureati.”) che avrebbe suscitato imbarazzo persino nel meridione degli anni '70. Corregge subito il tiro, tradendo una certa delusione nei confronti degli 'stupendi ragazzi' (“... nessuno dei due vuol fare il pornostar [sic], non so il perché.”), per poi scivolare allegramente in un lapsus sulla cui interpretazione si preferisce sorvolare (“... qui non hanno ripreso [sic] da me.”).
In un'ottica da Orsolina, la polemica poteva tranquillamente chiudersi qui. Invece è proprio a questo punto che a Siffredi scende la catena, come si suol dire, e l'autodifesa finisce con lo sconfinare pesantemente nel penale. Insinua che i travagliati trascorsi coniugali di Adinolfi siano da attribuirsi ad omosessualità repressa, e lo dice inciampando in un congiuntivo con il quale sembra non avere un rapporto facile (“... penso che Lei, nel Suo inconscio... sogni che io... ti incula [sic].”). Perso definitivamente il controllo, allora, il Rocco nazionale passa prima al 'tu' (“Sono convinto che tu vuoi essere inculato da me.”) e quindi alla stoccata finale (“... se mi piace il tuo culo, ti inculo. No problem.”).
Voglio sperare, a questo punto, che tra i lettori di questo disperato blog ve ne siano alcuni pienamente consapevoli delle assai dolorose conseguenze di natura correttivo-carceraria che, in alcuni luoghi del mondo, seguirebbero per direttissima a parole come queste.
Riassumiamo. Abbiamo una star del porno la quale, sebbene da anni risieda all'estero, combatte come un Savoia contro un improbabile esilio. Difende strenuamente la propria famiglia, trascurando però del tutto di citare la consorte, per concentrarsi esclusivamente sui due figli maschi. Considera il conseguimento della laurea da parte di questi un traguardo di cui andare orgoglioso, ma si dice stupito del totale disinteresse degli stessi per l'arte (!) paterna. Da prova di considerare l'omosessualità altrui con il massimo discredito, mentre per la sodomia praticata a fini risolutivi, come egli propone per il contenzioso con Adinolfi, sembra riservare una connotazione virile unita un certo tasso di sadico piacere – dovuto, quest'ultimo, all'umiliazione inflitta alla vittima dalla resa pubblica (radiofonica nello specifico) della minaccia.
Insomma, impiegato nella pornografia cinematografica da decenni, Siffredi sembra del tutto ignorare, quantomeno quando provocato sul piano personale, i comportamenti sociocriminali che la diffusione planetaria di quel materiale, da egli copiosamente prodotto, improntato ed interpretato, ha causato: mi riferisco al sexting, e più in generale all'odierna, concreta possibilità, da parte di qualsivoglia soggetto, di manipolare a fini ricattatori o squalificanti immagini di un privato dove, va da sé, ancora è possibile fare della propria persona ciò che si vuole. Esattamente il comportamento da egli tenuto nei confronti di Adinolfi. Ad occhi distaccati, Siffredi sembra proprio aderire al profilo di uomo senza inconscio teorizzato da Massimo Recalcati nel libro omonimo: completamente slatentizzato e pertanto sprovvisto di una sede psichica capace di accogliere gli aspetti oscuri della personalità. In parole povere, incapace a mentire. Condannato alla verità.
Siffredi si batte contro l'aggregato di stampo tradizionale proposto da Adinolfi e dagli altri fenomenali sostenitori del family day, ma ciò che in realtà sogna – e predica - è proprio una bella famiglia stile Mulino Bianco: esaltazione del fallo paterno, orgoglio smisurato per i figli maschi, ostentazione della consorte, incarnazione della propria persona nel modello comportamentale e professionale da imporre alla prole.
Vuoi vedere che la minacciata sodomizzazione di Adinolfi è in realtà l'ennesimo pensiero volato libero dalla testa di Siffredi?


domenica 4 novembre 2018

PRIMA DI EIACULARE ('BEFORE YOU COME'). I giovani italiani e l'Inglese.


Un'attenta classe di scuola superiore.
Due anni fa circa, una conoscente ha lasciato il cosiddetto 'posto fisso' per una carriera nell'insegnamento, avendo regolarmente passato il concorso per l'inserimento in ruolo. Materia: Inglese. Assegnazione: scuola superiore (istituto per geometri ed agrario).

La rivedo e subito chiedo come va, a scuola. Risponde di sentirsi molto giù, molto abbacchiata. Da diverso tempo ha la netta 'impressione di trovarsi di fronte a giovani che, per l'Inglese, non hanno interesse alcuno. Dice di passare quasi interamente il tempo assegnatole a riportare ordine all'interno di classi ingestibili. Ed ingestibili principalmente per il suo rappresentare una materia per la quale non è avvertito alcun tipo di trasporto.
Quindi anche la preparazione meticolosa delle lezioni, spesso effettuata a casa ed a scapito della famiglia (è coniugata e madre di due), si riduce ad un'ulteriore mortificazione intellettuale.
Condizione che non fa bene né a chi la subisce (il singolo docente) né a chi vi contribuisce direttamente (gli alunni) o indirettamente (la direzione scolastica): nulla è infatti più devastante per la scuola e per i suoi fruitori di un corpo docente umiliato nelle intenzioni.
Il marito, persona arguta e dai modi spicci che spesso mi fa dono di spunti ed osservazioni di notevole rilevanza, commenta anch'egli sconsolato. “Questi giovani del cazzo, proprio non li capisco. Mi chiedo cos'abbiano nella testa. Come è possibile, a diciotto anni, non capire che senza l'Inglese, oggi, sei un semianalfabeta anche se poi consegui una laurea? È come pretendere di praticare uno sport a livello agonistico disdegnando però la corsa. 'Sai, io non corro. Della corsa non me ne frega niente. Mi interessa solo giocare.' Nell'inconscio di questi ragazzi c'è Diego Armando Maradona, e non Samantha Cristoforetti. E se pensi così, sei un fallito. Sei un fallito già a diciotto anni.”
Ha ragione.
Devo a questo punto dichiarare, non senza imbarazzi, che, da tempo immemore, sono considerato alla quasi unanimità un ottimo parlante Inglese, sia per ciò che riguarda la forma sia per la pronuncia. Ad onore del vero va aggiunto che, in un paese che con l'Inglese ha non pochi problemi, godere di una simile considerazione non fa curriculum. Ma tant'è. In verità, a me sembra anzitutto di avere avuto la fortuna di una seconda lingua che amo, la cui imposizione è stata, quindi, sempre vissuta con gioia. E poi quella dell'avere sempre nutrito degli interessi per materie e discipline che nel mondo anglofono hanno conosciuto eccellenze di prim'ordine. Sto parlando del cinema e della musica. Ma, da qui all'essere considerato un buon parlante, ne passa.
Detto ciò, il fatto che dei giovani mostrino, oltre ad una totale assenza di vergogna per i comportamenti messi in atto, un così manifesto disinteresse nei confronti di una materia che, almeno nelle loro vite, può fare la differenza, si iscrive, forse, all'interno di una problematica ben più vasta – e determinante – di quella del sapere: l'area del dsiderio.
È tempo che, personalmente, noto come i giovani, almeno nei miei confronti, risultino connotati da una totale assenza di manifestazione del desiderio. Sembrano davvero non desiderare nulla. Ma è chiaro che non è così, che non può essere così (a meno di tare mentali invalidanti). Ne ha parlato magistralmente Massimo Recalcati qualche settimana fa in un incontro dedicato proprio al desiderio. Ha molto a che vedere con il tipo di crescita vissuta, e quindi con l'apporto che in tal senso è stato fornito dai genitori. Mamma e papà ti hanno detto che, al mondo, conta solo una lingua e -guarda caso – è quella tua? Mi si lasci ricordare che anche il differenziarsi dal modello genitoriale può essere fatto oggetto di desiderio.
Qui non si tratta di stabilire il primato di una lingua – nel caso dell'Inglese già fortemente compromesso dagli attuali assetti geopolitici e dalla condotta morale delle nazioni che a tale primato hanno contribuito, e cioè Stati Uniti e Gran Bretagna. Si tratta di riconoscere, con opportunistica intelligenza, che l'Inglese è, e rimane ancora, la prima delle seconde lingue, quella obbligatoria. Quella dalla quale poi muovere verso un'esigenza linguistica più specifica, maggiormente legata alle proprie personali propensioni e competenze.
Non si spiega forse così lo sconcertante provincialismo dei giovani - per non parlare di quello del paese? Non comprendere, cioè, che esiste una conoscenza che esula dai confini nazionali nei quali si è stati catapultati a nascere, vivere od entrambe le cose? E che quindi è necessario un passe-partout in grado di consentire l'attraversamento quanto più agevole di detti confini, oltre i quali potrebbe trovarsi la vocazione di ognuno?
Suona come una patetica sferzata alla fuga dei cervelli, lo so. Ma lungi da me non solo il promuoverla: anche l'assumere il fenomeno ad esempio e soluzione. Resto convinto che i cervelli di questo paese non siano realmente in fuga, ma che risiedano, silenziosi, nei suoi confini, mortificati come la nostra insegnante d'Inglese, sostituiti politicamente, ai comandi, da intelligenze modestissime ed immeritevoli. Ugualmente, anche questo sommerso di intelligenza nostrana non può mostrarsi indifferente alla questione dell'Inglese, specie in un'ottica comunitaria linguisticamente composita come la nostra – e giusto per non allargare troppo il discorso.
Oggi ci vogliono più palle per rimanere che per andarsene.
Nessuna fottuta statistica potrà persuadermi del contrario.

martedì 30 ottobre 2018

LA PRIMA IMPRESSIONE. Scegliere un film in tivù.

Il profetico, e compianto, Ragionier Fantozzi. 
Sono sempre più frequenti le discussioni in stile Casa Vianello tra me e mia moglie quando, in preda allo zapping serale, si sceglie o scarta un film valutandone la qualità sulla base di pochi, fugaci secondi di visione.
La verità è che sovente il grande cinema si è caratterizzato per sequenze iniziali di impatto così grande - rapide, spettacolari, visionarie - da rendere la differenza con gli altri prodotti del settore individuabile al semplice colpo d'occhio. Quindi, se di queste pellicole si è fatto uso ed abuso, scegliere attraverso lo zapping diventa un gioco facile come le selezioni di X Factor (“Basta così, grazie. Avanti un altro!”).
Al fine, allora, di giustificare l'apparentemente riprovevole costume coniugale dello zapping, da divano, ecco le...
DIECI PIÙ STUPEFACENTI SEQUENZE D'APERTURA DEL CINEMA MODERNO!
Dieci pellicole il cui inizio, da solo, vale l'intero biglietto, costringendo lo spettatore ad immergersi nella loro visione per intero pure avesse luogo un attacco termonucleare.
10) Trainspotting.
Nulla di più politico delle parole fuori campo del protagonista Marc Renton ha mai affrontato lo spettatore in maniera così diretta - nel mentre la colonna sonora di Iggy Pop ne fa, tecnicamente, un'apologia di reato. E quando, appena investito da un'autovettura, il nostro volge lo sguardo in camera, è difficile - se non impossibile - non sentirsi individualmente chiamati in causa. Stracult.
9) Halloween.
È obiettivamente difficile non esaltarsi quando la cinematografia horror distrugge quel tipo di concezione della vita che sta alla base del family day, dei suoi ideatori e dei suoi cultori. Dopo i vampiri, le creature di Mary Shelley, gli zombi di Halperin e quelli di Romero, John Carpenter, già al quinto minuto di proiezione, presenta al pubblico il suo nuovo mostro: il seienne Michael Myers.
8) I Love Radio Rock.
Quadretti di un Inghilterra per bene, tradizionalista, piccolo borghese ed ipocrita. Ma quando la voce di Seymour Hoffman lancia All Day And All Of The Night dei Kinks, la spinta eversiva del rock 'n roll è avvertita dallo spettatore come davvero fosse la prima volta. Ottima prova del regista e sceneggiatore Richard Curtis, che incassa così un parziale perdono per lo stucchevole Love Actually di sei anni prima.
7) Antichrist.
Descrivere una tragedia quale la perdita di un figlio in fasce, e farlo per mezzo delle sole immagini e della musica di Händel, dando vita ad una sequenza che è un capolavoro, è cosa da genio. E Lars Von Trier lo è a pieno titolo. Rendere bello persino ciò che è considerato il massimo orrore, non è forse il compito più alto dell'arte? E poi, cos'altro ti puoi aspettare da un danese depresso che rifiuta le cure?
6) Mission Impossible 2.
Nei cinque minuti al cardiopalma dove lo spettatore viene persuaso che l'agente Hunt sia chiaramente già impegnato in una nuova missione, l'arrivo di un messaggio stravolge il contesto, svelando che quello visto è solo il momento di una vacanza non autorizzata. Quando poi, a chiudere la sequenza, giunge il tema del film originale variato dai Limp Bizkit, e realizzi che quelli sono solo i titoli di testa, l'applauso scaturisce incontrollato.
5) Magnolia.
C'è tutto, nel prologo di questo incredibile film: cinefilia, scrittura, visione, modernità, surrealismo e la splendida regia di un Paul Anderson non ancora trentenne. Il caso del suicidio-omicidio di Sydney Barringer è una sequenza da vero culto, merce rara allora come oggi. Quando poi, sullo schermo nero, partono le note di One di Aimee Mann, non si può che restarne ammaliati.
4) Grindhouse.
Siedi in poltrona e, giustamente, ciò che ti aspetti di vedere è un film di Quentin Tarantino. Quel che in realtà appare, invece, è il trailer farlocco di un b movie in stile primi anni '70. Sembra un viaggio nel tempo, o una videocassetta pirata. Perfetta estetizzazione del cattivo gusto di un mondo ormai scomparso, rappresenta, senza dubbio, il più grande colpo di genio nella carriera del regista americano.
3) Fight Club.
Zoom
inverso dal mirino di una semiautomatica: la canna in bocca ad un malcapitato, un viso tumefatto, l'oscurità di un loft disabitato, una calma voce fuori campo dai toni apocalittici e un intero quartiere cablato al plastico. L'arma viene retratta. E chi scopriamo averla in pugno? Van Damme? Vin Diesel? Steven Seagal? Charles Bronson? Mecché. Il più amato dalle donne di tutto il mondo, il 'bello' di Hollywood, l'uomo dei sogni: Brad Pitt – qui nel suo primo grande ruolo, un completo fuori di testa, situazionista ed autodistruttivo: il saponificatore Tyler Durden. Yeah.
2) Non è un Paese per Vecchi.
Ci si interroga spesso sulla violenza dilagante negli Stati Uniti d'America. Altrettanto spesso ci si ritrova senza risposta. Eppure i grandissimi fratelli Coen, Ethan e Joel, nelle tre sequenze e nel dialogo da brivido che aprono questo film prossimo alla perfezione assoluta ne avevano dato una spiegazione persuasiva ed umanissima già dieci e più anni fa. E quando dalla macchina della polizia scende la sagoma di Javier Bardem, è necessario un cambio di intimo a portata di mano.
And the winner is...
1) THE SHINING.
Già al primo fotogramma, al sopraggiungere della musica di Wendy Carlos, si è catapultati nel sovrumano, in una natura incantevole e spaventosa dove la presenza umana sembra appunto non essere contemplata, ridotta alle minuscole dimensioni del maggiolino dei Torrance in viaggio verso il richiamo dell'Overlook Hotel. L'utilizzo pionieristico della steadycam permette a Stanley Kubrick la realizzazione di un piano sequenza inquietante, il cui punto di vista rimane ignoto, così aggiungendo inquietudine all'inquietudine. E la vicenda non ha ancora avuto inizio. Capolavoro assoluto.

mercoledì 10 ottobre 2018

LI MORTACCI TUA. I 50'anni de La Notte Dei Morti Viventi.



Stamane mi sono alzato di buon'ora e, guardatomi allo specchio dopo aver indossato l'amato grembiale da massaia, ho notato quanto ormai il mio aspetto esteriore, in certe fasce orarie, risulti sempre più simile a quello dei carnefici di Hostel, la brutale – ma psicologicamente sottile – pellicola di Eli Roth, datata 2005.
Pagato pegno al precetto della confessione - che in un blog degno di questo nome, checché se ne dica, non può mancare –, devo però riconoscere di essermi anche subito ricordato, vuoi a seguito dell'immagine riflessa, vuoi per dono di una cinefilia della quale sempre più vado fiero, che quest'anno ricorre il 50º anniversario dell'uscita nelle sale de La Notte Dei Morti Viventi (Night Of The Living Dead), di George Romero.
In verità, il rimando alla figura oggi sdoganata, istituzionalizzata e abusata dello zombie credo non sia stato provocato tanto dalla ragioni sopra esposte, quanto dalla visione – altrettanto deprimente – che ogni santo giorno, dacché mia figlia ha cominciato la scuola dell'obbligo - ed io, nella veste di genitore-accompagnatore, ne assicuro la consegna alle cure dell'istituzione - mi si para davanti, la mattina: una popolazione in affanno nello sforzo di assolvere ai propri doveri lavorativi, professionali, coniugali, sentimentali, genitoriali, ludopatologici, pensionistici, monomaniacali e chi più ne ha più ne metta. Costumi e malcostumi assunti ad aspetto distintivo: una massa che nella postura, nell'andatura a volte scomposta, negli sguardi, nei messaggi smozzicati, nell'aggressività spesso trattenuta a fatica, sempre più somiglia ai 'ritornanti' di Romero – il quale non intendeva certo profetizzare, al tempo, questa deriva mortifera della società, ma il cui inconscio ebbe sicuramente la meglio.
Sta di fatto che, come insieme antropologico, noi tutti si somiglia molto più 'a li mortacci' che a valorosi combattenti olimpici. Anzi: con la nostra più marcata mutazione, palesemente avvenuta nella direzione di una crescita dell'aggressività e dell'ansia – e che, nel caso di noi italiani, ha persino trovato dignità culturale grazie al saggio cult di Alberto Arbasino, Paesaggi Italiani Con Zombie, del 1998 -, si è non poco contribuito alla caratterizzazione dello zombie seguìto al prototipo proposto nella saga romeriana. La Casa (Evil Dead), Resident Evil, Homecoming, Rec, Quel Treno Per Busan (Train To Busan), World War Z , L'Alba Dei Morti Dementi (Shaun Of The Dead) e Planet Terror (ultimo, questo, ma non ultimo, lo zombie movie più straordinario mai realizzato da parte di un talento che, ad oggi, ancora non gode di un apprezzamento proporzionato alla propria reale grandezza: Robert Rodriguez), sono esempi forse non sempre lampanti, ma significativi, della considerevole perdita di informazione – culturale e genetica – del cosiddetto uomo-massa.
Di recente, un marchio dell'industria dolciaria ha pubblicizzato in televisione il proprio prodotto per la prima colazione per mezzo di un spot che vede protagonista proprio una famiglia nucleare dalle fattezze post mortem, disperatamente intenta a mutare la propria condizione di disfacimento per mezzo del magico frollino-antidoto. (Traduzione: la mattina, pucciate il biscotto. Ma quante ne conoscono, 'sti pubblicitari?). A dimostrazione di come la percezione di un certo malessere della specie si sia ormai diffusa e stereotipata.
Quindi?
Quindi siamo passati dallo sfottò al dato di fatto. Dal dire “mi sembri uno zombie” al pensarlo per davvero. Nel tempo, dai mostri di Romero – mostri che, ricordiamo, hanno le nostre esatte fattezze – abbiamo mutuato tutta una serie di caratteristiche: dal muoversi in massa all'assunzione di atteggiamenti aggressivi; dall'aspetto sciupato alla sciatteria; dall'ossessione per l'alimentazione alla frequentazione inconscia dei centri commerciali; dal vagare senza meta quando soli alla pena suscitata in coloro che assistono a questo andare ramingo.
Non è mia intenzione dipingere la società tutta in maniera univoca – via d'uscita semplicistica e scientificamente priva di ogni fondamento -: mi permetto di osservare, semplicemente, come la grande fatica del vivere quotidiano – quella che accomuna molti di noi – sia per alcuni aspetti mirata ad arginare lo sfacelo che Romero e i suoi epigoni, con risultati spesso alterni, hanno mostrato noi sugli schermi in questi lunghi, travagliati cinquant'anni.
Voglio pertanto chiudere con una nota di speranza.
Ho recentemente rivisto il già citato Planet Terror, film-capolavoro che solo un folle come il suo regista (Rodriguez) ed un molestatore come il suo produttore (Harvey Weinstein) potevano realizzare. Per tutti coloro che se ne infischiano o non hanno lo stomaco per visionarlo, ma soprattuto per tutti coloro – e sono tanti – che hanno apprezzato il post su Tartarughina Luz, ecco, in breve, il finale della pellicola. Istruito a difendersi dall'eventuale aggressione da parte del padre mutato in zombie, il piccolo Tony (interpretato dal figlio di Rodriguez) rimane vittima di un colpo accidentalmente partito dalla pistola affidatagli dalla madre. Il regista ha sempre affermato che, dal punto di vista personale, questa sequenza rappresenta l'elemento maggiormente orrifico del film, e per tale motivo venne realizzata per mezzo del solo montaggio. Al fine di tutelare ulteriormente la sensibilità del figlio, comprensibilmente desideroso di vedersi finalmente proiettato sul grande schermo, scelse allora di girare una seconda versione della vicenda di Tony (visionabile, oggi, tra glie extras del DVD), dove il piccolo è portato in salvo dalla madre e subito dopo, in riprese incantevoli, è visto intento a giocare con una tartarughina su una spiaggia dell'amato Messico.
Ecco. Non si tratta di cedere all'evidenza: si tratta di riconoscere un certo, raggiunto decadimento e di fare il possibile, come persone, per opporvisi.
Non servono forse a questo, i mostri?

Un gruppo di allegri genitori al parco cittadino (foto AP).