A
quattordici anni sono stato un fan dei Mötley Crüe. Per
impeto giovanile, disallineamento con la moda in auge e ribellione ai
valori di famiglia – momenti, questi, che, in giovani
psicologicamente sani, sovente corrispondono alla piena adolescenza.
E perché, per dirla con le parole di Nikki Sixx, bassista e
fondatore del gruppo, davvero, al di là della vulgata ufficiale, gli anni '80 furono “il peggior cazzo di
decennio nella storia dell'uomo.”.
O,
quanto meno, così lo percepivamo noi misfits.
Con il senno di poi, possiamo tranquillamente dire che non si trattò di una svista.
Con il senno di poi, possiamo tranquillamente dire che non si trattò di una svista.
Mi pare iniziò tutto con il videoclip di Home Sweet Home,
trasmesso con puntualità sconcertante (era il periodo dei 'Duran' e
degli 'Spandau') dalle emittenti del Silvio Berlusconi, e dalla mai
sufficientemente compianta Music Television.
Un videoclip bruttino,
fortemente autocelebrativo, pieno, però, di quegli elementi
persuasivi (l'abusata triade sesso-droga-rock 'n roll)
finalizzati a dimostrare come ancora si potesse ottenere 'successo'
(parola chiave per correttamente leggere la vicenda artistica dei
Crüe) pur non aderendo alla moda corrente.
Personalmente
non potevo, al tempo, chiedere di meglio. Per quanto stupida possa
sembrare una simile affermazione, finalmente mi sentivo
rappresentato.
Da chi e cosa, infine, lo compresi solo in
età adulta.
I
Mötley Crüe non furono esattamente una band.
Furono piuttosto una gang.
I suoi componenti avevano in comune, prima ancora della passione per
il rock 'n roll,
trascorsi di abbandono, negazione, violenza, disadattamento e
vagabondaggio. Spiegano la magnetica, invincibile attrazione di
alcuni di loro, il cantante Vince Neil ed il bassista Nikki Sixx, per
condotte di tipo criminale, tossico-dipendente e financo
maniaco-sessuale, determinanti nella creazione della leggenda che
ancora oggi avvolge il nome del gruppo. È alquanto probabile che,
senza il successo arriso loro anche a fronte di detti eccessi, i
quattro rockers
avrebbero affrontato un percorso di vita più simile a quello
rieducativo che di tipo artistico. La band
fu quindi un modo per fuggire ad un destino che sembrava già
segnato, ma che ugualmente li perseguitò per gran parte della
carriera, portandoli in alcuni casi al limite con l'autodistruzione. Aprì loro un decennio di eccessi - e successi - smodati che qualunque manager di oggi non saprebbe né vorrebbe tollerare: furono gli epigoni dello stile di vita rock 'n roll. Di levatura musicale mediocre, hanno prodotto una decina di dischi in quattro decenni scarsi di attività - incisioni stilisticamente stereotipate,
caratterizzate da un buon suono e da testi improntati ad un edonismo
perfettamente in linea con la condotta di vita dei suoi componenti.
La
biografia dei Crüe, qui malamente riassunta, è invece rapidamente
ed assai meglio raccontata nella recente produzione Netflix The
Dirt, tratta dal libro omonimo
del 2001. Un lungometraggio con il quale, ancora una volta, la
piattaforma statunitense riesce a fornire al pubblico pagante una
visione godibile (a patto di essere disponibili alla scandalo), una
narrazione efficace e persuasiva pur non toccando vette di assoluta
eccellenza; capace di raccontare un'era, una tendenza, un caso
commerciale ed umano, senza per questo scadere nella pesantezza
tipica di chi, come il sottoscritto, sebbene indirettamente, quelle
vicende ha vissuto da imberbe.
In
una scelta stilistica assai condivisibile, The Dirt
impiega – o sarebbe meglio dire 'dispiega' – quasi per intero il
bagaglio tecnico comune ad ogni regista in attività, conseguendo in
tal modo il risultato di raccontare in maniera lineare e mai noiosa
un intero decennio di eccessi reiterati i quali, se esposti nella forma
della serie televisiva, avrebbero certo indotto lo spettatore allo
zapping dopo la
seconda puntata.
A
differenza della maggior parte della recente, industriale
realizzazione di film insulsi dedicati a musicisti di successo
(biopics), The
Dirt ha il pregio di non
celebrare gli eccessi dei suoi protagonisti omettendone furbescamente
il lato oscuro – nonostante i Mötley Crüe abbiano contribuito, si
pensa anche onerosamente, alla sua produzione (e questo valga come
giudizio al contrario per Bohemian Rhapsody, pellicola che solo
poteva risultare accattivante a coloro che con la musica hanno un
rapporto, per così dire, conflittuale). Il punto di vista prevalente
è senza dubbio quello di Sixx: le introspezioni e gli
approfondimenti narrativi – scarni e rapidi entrambi – interessano
esclusivamente la sua vicenda personale. Ugualmente è fatto protagonista
di una sequenza – l'assunzione di eroina a breve distanza
dall'overdose – che
non lo configura esattamente come la prossima star
di Hollywood, ma che, collegata a quella del cambio di nome
all'ufficio anagrafe e, ancor prima, a quella di autolesionismo in
tenera età, ne fa una figura disperata e fragile con la quale lo
spettatore può empatizzare senza alcun imbarazzo. Il tutto senza
rinunciare a momenti di grande commozione, distanti anni-luce da
qualsivoglia stile di vita rock 'n roll,
come l'intimo ed ultimo sguardo tra Vince e la piccola Skylar nella
stanza d'ospedale dove quest'ultima troverà la morte.
The
Dirt dimostra due teorie. La
prima è che qualunque storia può essere raccontata (si veda, per
restare in ambito musicale, Lords Of Chaos
di Jonas Åkerlund),
a patto di crederci, essere capaci di fornirne una visione e – va
da sé - saperla scrivere. La seconda che ancora, in Italia, la
censura è in atto, non più a livello contenutistico, bensì
artistico-direttoriale. Le nostre produzioni sono soggette al tabù –
politicamente imposto od assecondato - del tema inenarrabile (quale
sarebbe certamente considerato quello di The Dirt,
qualora si trovasse nella penisola un solo direttore artistico in
grado di proporlo). E non fanno eccezione le belle realizzazioni di
Romanzo Criminale, Gomorra e Suburra le quali, nonostante l'ottima
fattura, confermano che nel Bel Paese si può parlare, al massimo, di
temi legati alle cronache interne, nell'assoluto silenzio riguardo a
molti altri argomenti ed altrettanti punti di vista.
In
parole povere: ristrettezza di vedute ed assoluta mancanza d'interesse per l'altro-da-sé.
Per
tutto ciò che è diverso.
Attuale
- no?
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