domenica 8 ottobre 2017

MERDA 100% (LAVARE CON CURA). L'ultimo singolo degli U2.


Qualcuno di voi ricorda la battuta di Cochi Ponzoni, quella che fa: “Ma lo sa che lei è un mio grande ammiratore?”?
Se è così, ciò significa che siete vecchi quanto me, e quindi in grado di ricordare che, quando il comico milanese andava pronunciandola all'apice della carriera, in quel di Dublino gli U2 non erano ancora nati.

Questo fa capire quanta influenza egli abbia avuto sul gruppo irlandese, se questo, 40'anni dopo, va ad intitolare il suo ultimo singolo You're The Best Thing About Me, sei la miglior cosa di me, titolatura ponzoniana al 100%, ma portatrice, diversamente dall'originale, di infinita tristezza.
Perché messe da parte tutte quelle baggianate romantiche (l'innamorato che vive nell'altro e via dicendo), la fuffa sui riferimenti alla Motown (!) e le supposte tragedie personali (il peggiore di tutti i ricatti: la pietà), qui si sta parlando di persone prossime alla sessantina, stelle conclamate del rock (o di quel che vi resta), egocentrici di primo livello, a partire dal loro leader indiscusso, Bono, che tanto hanno coltivato il proprio ego in questi decenni dall'essersi ridotti a non vedere altro che se stessi e a convincere di ciò un po' tutti coloro che vi lavorano insieme. Non ultimo il regista (!) svedese Jonas Åkerlund, responsabile dello spaventoso videoclip.
Partiamo da qui.
L'arte del video musicale è un'arte complicata. Richiede, oltre che sensibilità, una bella dose di inconfessabile videodipendenza (per capirci: guardi incantato tutta l'opera di Stanley Kubrik, ma anche le repliche di Uomini & Donne, in entrambi i casi traendone ispirazione). Questo non è un videoclip: è, a tutti gli effetti, una marchetta, un video promozionale. Va bene se sei appena uscito da X Factor. Non va bene per nulla se sei un pluripremiato ed affermato gruppo musicale in attività. E poi: basta con gli irlandesi a New York. È storia risaputa, come quella degli italiani del Bronx. Sono storie da bandire, se l'unico utilizzo deve essere quello strumentale del luogo comune. La firma degli autografi, i selfies con i fans, l'ennesimo concerto sul rimorchio lungo la quinta strada, la skyline sullo sfondo, ammiccamenti e saluti alla folla che neanche papa Francesco. Decisamente, non ci troviamo nel territorio del non-visto, del visionario.
Musicalmente siamo davvero ai quattro soliti accordi, al punto da dubitare che quelli impiegati siano frutto di una scelta artistica. Suono la chitarra da quando ero ragazzo, e come loro sono stato un autodidatta. È tipico di questa categoria arenarsi sui famosi, soliti quattro accordi, fatte salve le eccezioni costituite dai talenti (cinque, sei, non di più, e i quattro irlandesi ne sono esclusi). Negli anni ho allargato di molto la mia concezione armonica, non per grazia ricevuta (non sono Bono), bensì attraverso la fatica dello studio. In altre parole: non c'è oratorio dove lo strimpellatore ufficiale non sia in grado di riprodurre qualsivoglia successo recente del quartetto irlandese nel giro di un pomeriggio. Pensate sia possibile con ogni altro celebre artista? Certo che no. Provate con dei brani del fu Michael Jackson – giusto per citare uno che non era propriamente di nicchia -: impazzirete molto prima di quanto pensiate.
Quanto all'analisi del testo, più che risparmiarvela, non ci penso proprio, a farla. Ci sono legioni di mentecatti cui compete questo compito. Perché a questi si rivolgono, ormai, gli U2.
Il colpo di grazia è assestato dalla foto di copertina, dove la figlia di Edge - espressione vacua, capigliatura da ospite di casa circondariale pre-Basaglia - è ritratta da Anton Corbjin in uno scatto sorprendentemente privo di ogni significato, se non quello di un'autoreferenzialità che coinvolge persino la prole. (Alla faccia della libertà di espressione, signor Corbjin! E per fortuna che che i grandi familisti, i nepotisti d'Europa siamo noi italiani, signor Evans!).
Visionarietà, profondità, sperimentazione, sensibilità. Caratteristiche una volta appartenute alla band irlandese e che oggi sono appalto di ben altre, diverse formazioni.
Come quella che ha visto coinvolti Arcade Fire ed il regista Tarik Minou, per lo strepitoso videoclip di Creature Comforts, che sarà l'oggetto del prossimo post.
Sempre che i fans degli U2 non si rivelino permalosi e mi attendano sotto casa.

domenica 1 ottobre 2017

LA VITA È CIÒ CHE NE FAI. Una vecchia 'hit' resuscitata dai Placebo.


Peccato che Brian Molko abbia ormai da tempo ceduto ad atteggiamenti da primadonna: egoici, presuntuosi, accentranti (forte, in questo, del fatto che la propria band, a 20'anni buoni dal debutto, sia ancora viva e vegeta).
Sarebbe bello parlare con lui, infatti, da persone normali, dei presupposti che lo hanno portato, insieme al suo gruppo, a realizzare una delle covers più belle, azzeccate e significative degli ultimi tempi.
Life's What You Make It, successo anni '80 degli ormai artisticamente defunti Talk Talk, è stata riproposta dai Placebo, nel giugno scorso, corredata da un video di notevole spessore autorale e politico, affidato dagli stessi a Sasha Rainbow, video artist già apprezzata per arditezze registiche in ambito musicale e pubblicitario (mi chiedo: Gabriele Muccino guarda mai i videoclips dei suoi colleghi prima di realizzare quelle cose terribili con Lorenzo Jovanotti?).
La coesione assolutamente perfetta creata da questa factory tutta britannica (arrendiamoci: quando si parla di rock il paese della Brexit è ancora il riferimento d'obbligo) è tale da costringere ad un'analisi congiunta del progetto – similmente, per citare un esempio, a quanto accadde quasi 40'anni fa con The Wall dei Pink Floyd, in seguito al film di Alan Parker.
Il set, in esterna, è ambientato ad Agbogbloshie, sobborgo di Accra, Ghana. Nella bellissima fotografia, e nel montaggio alla moviola, donne, uomini, ragazzini e bestiame sono ripresi nel corso di una surreale attività di differenziaggio in un'immensa discarica a cielo aperto. I titoli di coda spiegano che Agbogbloshie è stimata come la più grande discarica tecnologica del mondo. La devastazione ambientale, sociale ed urbana cui si assiste atterriti per i sei minuti scarsi del videoclip è l'indiretto risultato di ogni computer, televisore, cellulare, tablet, reader, cuffia, pad, auricolare, smartwatch e qualsivoglia gadget costantemente presente in tutti i negozi di tutte le nostre città, da noi rottamato a favore di un nuovo modello. A livello registico, escludendo l'iniziale zoom inverso di matrice kubrikiana (il Maestro è ormai una presenza inconscia in tutti coloro che siedono creativamente dietro una cinepresa), non assistiamo alle arditezze cui si è accennato in apertura (si veda, al proposito, l'ansiogeno video che Sasha Rainbow ha realizzato per il brano Electric Bones di Natalie Findlay). Va qui premiata l'intuizione di conferire alla cover una veste non iconografica (i membri della band non sono presenti nel filmato), bensì quella di una coraggiosa scelta politica e civile.
Fin qui, fattura delle immagini a parte, nulla che non sia già stato mostrato e denunciato dal più intransigente e militante giornalismo d'inchiesta.
Con questa versione di Life's What You Make It, però, il discorso prende una piega del tutto inaspettata.
A livello sonoro, rispetto all'originale, è assente ogni traccia di strumento acustico (il giro di pianoforte e la batteria). Armonicamente fedele alla versione dei suoi autori - con l'esclusione della voce, limpidissima - ogni strumento è proposto con una propria, sofisticata campionatura. Campionature – ed eccoci sul pezzo, come si suol dire – ottenute, magistralmente, proprio con quella componentistica che, nella ripresa aerea a chiusura del video, vediamo occupare una superficie nel mondo occidentale normalmente assegnata ad un centro urbano di media grandezza. La voce di Brian Molko (missata in maniera a dir poco magica), oltre a conferire un nuovo peso specifico al testo di Mark Hollis (visionario al tempo della stesura, distopico ad una lettura odierna), instilla un senso di pura bellezza su di un panorama umano apocalittico, con quel vocativo “Baby” alternativamente rivolto a noi ascoltatori – e fruitori di gadgets elettronici – e, per estensione, alle creature che popolano la discarica, in un inquietante affratellamento (avremmo potuto esserci noi tutti ad Agbogbloshie, in un altro corso storico). In altre parole, si è di fronte ad una estetizzazione, di notevole livello, del grottesco. Ciò che appaga il nostro ascolto è prodotto da quello stesso scarto che vediamo stazionare nel sobborgo ghanese. Ciò che può aiutarci a dare un senso al vivere è lo stesso oggetto che soffoca e toglie la vita. Anche qui va apprezzata l'intuizione del gruppo inglese: l'avere avvertito che ad una nuova veste sonora sarebbe corrisposto un nuovo, più attuale ed urgente messaggio.
La vita è ciò che ne fai. Life's What You Make It. Non è effettivamente così, ad ogni livello, in ogni ambito, per ogni singola esistenza? Pensiamoci. È un'asserzione le cui conseguenze, in determinati contesti, potrebbero rivelarsi devastanti. Ma tutti, con uno sforzo, possiamo verificarne l'attendibilità, almeno per ciò che riguarda le nostre singole esistenze.
In un'epoca di radicalizzazioni come la nostra è una riflessione che dovremmo compiere spesso.
E che sia una canzone a ricordarci questo, è solo il segno che l'arte è ancora viva.
Parla a noi.

mercoledì 27 settembre 2017

RIDERE IN FACCIA A 'STO CAZZO. La comicità da bar di Giorgio Panariello.


Satira è quando prendi in giro chi è più ricco di te.
Parodia è quando prendi in giro chi è più intelligente di te.
Avanspettacolo è quando fai entrambe le cose calandoti le brache.

(Daniele Luttazzi)
L'odio che provo per Giorgio Panariello non ha precedenti, in me. Può essere che ciò mi classifichi come essere moralmente riprovevole (metto cioè i campo la massima intolleranza per un comico tralasciando soggetti maggiormente meritevoli – guerrafondai, politici, capitani coraggiosi, furbetti del quartierino, demagoghi, faccendieri , preti pedofili, banchieri e chi più ne ha più ne metta, l'elenco è lungo).
Sta di fatto che vedere la sua faccia sui manifesti affissi ovunque a promuovere il suo prossimo spettacolo – e senza inserire nel computo l'onnipresenza televisiva di portata berlusconiana, dovuta a quella merda di spot per la telefonia -, ha di colpo rinnovato in me tutto il disgusto per questo personaggio (perché tale è, Panariello) e per lo straordinario successo che da anni gli viene stagionalmente tributato.
Mi irrita perché vedo in lui, nel suo volto, nelle sue espressioni, quell'Italia che ne ride stupidamente divertita (cosa aspettano a consegnarci l'autore della battuta questo Fabri mi sfibra?). Un'Italia con la quale non mi sento fratello, in sintonia, sempre più ottusamente lanciata in direzione del modello conformistico corrente.
L'umorismo di Giorgio Panariello è un umorismo paraculo, privo di qualsivoglia giudizio critico, piglio, reattività. È il simpaticone del bar assurto a star, ad indiscussa celebrità nazional-popolare (caratterizzazioni tute presenti in Bagnomaria, lo spaventoso film del '99 che il nostro ebbe persino la sfrontatezza di dirigere), sorta di Tognella del Centro-Italia. Nel migliore dei casi, la battuta, o la parvenza di questa, si riduce ad un accenno, ad un sottinteso (considerato poi il suo pubblico, frainteso), soffocato sul nascere dalla risata isterica indotta dall'aver pure pagato per un simile, triste spettacolo. Gli spots realizzati per Wind (che Dio la stramaledica) rappresentano i contesti dove meglio viene esercitata la sua arte da avanspettacolo, di questo comico ritenuto indispensabile, dove si palesa tutta l'invidia che non può non caratterizzare intimamente ogni commediante non schierato (il Giorgio nazionale avrebbe ucciso per essere Jack Sparrow).
Se poi si pensa che l'antidoto a questa comicità corporea (la stessa che porta allo sfottò del compagno di classe sovrappeso, cari genitori) è considerato Maurizio Crozza, viene meno ogni speranza. Di quanto inerte sia il nostro 'antidoto' ne è misura quella stessa, identica onnipresenza con la quale anche il comico di La7 abita il martellamento pubblicitario televisivo. La7 lo ha assunto in tacita sostituzione di Daniele Luttazzi – scelta indegna di una direzione artistica o di rete che sia, caso meritevole non solo di un post, ma financo di una tesi di laurea. Un comico che, ignaro di stagioni di Bagaglino, esercita ancora la sua (?) critica attraverso l'imitazione caricaturale.
E qui dovrei passare all'attacco di un altro, insopportabile toscanaccio, Leonardo Pieraccioni. E Ceccherini, e Benigni, e le nuove leve di Zelig, Colorado Café, l'orrore di Made In Sud, tutte manifestazioni di come - checché se ne dica - gli italiani sono sempre meno capaci di ridere, di autoironia.
A proposito: avete mai fatto caso alla somiglianza espressiva e somatica di Maurizio Crozza con Pierluigi Bersani?

giovedì 21 settembre 2017

PROVA D'ORCHESTRA. Al Settembre Musicale con mia figlia.


Ieri l'altro, mia figlia ha ricevuto quello che si può definire un vero e proprio battesimo musicale. Invitata ufficialmente dal Maestro ed amico Alessandro Carnelli, ha potuto assistere – ospite unico ed indisturbato - alle prove dell'Orchestra del Settembre Musicale, diretta dal Maestro stesso. In programma, il grande sinfonismo tedesco: Ouverture, Scherzo e Finale di Schumann, e la bellissima sinfonia n°5 detta La Riforma di Mendelssohn. Pagine che mettono alla prova musicisti ed ascoltatori. Figuriamoci un putto.
Piccola ha retto bene per un'ora e mezza. Ha avuto un picco positivo nel Finale Schumanniano, quando si è alzata in piedi a dirigere, ed uno negativo all'attacco – da groppo alla gola – della Riforma, quando ha invece assunto una difensiva postura fetale. Nell'insieme si è trattato, per lei, di un frontale, un urto improvviso, senza preparazione, con il bello nella sua forma ed accezione più alte. Le istruzioni che il Maestro Carnelli ha dato agli orchestrali nei punti più critici delle due partiture, sono state seguite con stupore ed una sequela di domande a mamma e papà – che questi gireranno umilmente al Maestro, quando ne avranno occasione.
Vi chiederete – domanda legittima – perché io metta in bella mostra quelli che sono, a tutti gli effetti, affari di famiglia, 'cosa nostra'. Crescere un essere umano non è cosa semplice. Non sono certo il primo ad averlo scoperto né l'unico ad averlo detto. Il fatto, semplicemente, è che, come padre, mi trovo proprio in questa fase: la semina di quelli che – si spera – un domani saranno i suoi riferimenti sentimentali, emozionali, valoriali ed estetici. Uno sforzo immane finalizzato ad evitare che una sera, nell'età più critica, essa aspetti papino, tra il chiaro e lo scuro, per un regolamento di conti alla Harry Callahan (chissà se sono poi davvero questi i motivi dietro ai parenticidi?). Il tentativo di lasciare alla tua creatura un'eredità che le permetta di soprassedere al giudizio su tutta quella meschinità e quella bassezza di cui ti sei reso protagonista, e venuta inevitabilmente alla luce nel corso degli anni. Quindi, per tornare a noi, la risposta è: per dare un suggerimento, parlarne e condividere un momento bello.
Detto ciò, penso che, da questo punto di vista, l'alfabetizzazione musicale sia propedeutica, quando non fondamentale, alla crescita intellettuale di un individuo. Non ci si rende spesso conto di quanto materiale sonoro venga incessantemente sottoposto alla nostra attenzione, nella stragrande maggioranza dei casi con finalità del tutto distanti da quelle artistico-espressive. Non essere in grado di interpretare adeguatamente questo tipo di veicolazione significa abbandonarsi di fatto ad un lavaggio del cervello non difforme da quello cui viene sottoposto il giovane Alex in Arancia Meccanica (guarda caso, tramite l'ascolto forzato dello Scherzo dalla 'nona' di Beethoven).
Certo: non tutti hanno la fortuna di poter godere di un'amicizia come quella nostra con Alessandro Carnelli (quanti di voi, me compreso, da piccoli hanno mai sentito parlare del classico amico di mamma e papà come di quel signore che fa il direttore d'orchestra? L'istruzione pubblica dovrebbe consentire un'educazione ad armi pari anche in ambito musicale). Alessandro, oltre ad essere un amico di gioventù, è stato un compagno di studi, sodale di diverse avventure musicali, non ultima – sono certo concorderà – la missione di ben 24 anni fa in quel di Torino proprio per assistere alle prove del grande Claudio Abbado con i Berliner Philarmoniker. Ho la presunzione di affermare, con quasi assoluta certezza, di essere stato, quel giorno, testimone unico del momento nel quale ad Alessandro risultò finalmente chiara la vocazione alla carriera direttoriale. Vederlo oggi sul podio offrire alla mia piccola l'opportunità meravigliosa che a suo padre toccò solo in età adulta, è un privilegio e un gioia. Grazie a lui, un cerchio si chiude, in coerente continuità con l'attitudine culturale e formativa che fu del suo (nostro) amato Claudio Abbado.
L'educazione sentimentale dei giovani – in questo caso giovanissimi – ha un solo percorso praticabile, ed è quello che passa attraverso i genitori. Se questi sono incapaci non dico di spiegare (non v'è nulla che un essere di cinque anni sia in grado di comprendere razionalmente, per non dire di quanto sono insopportabili i genitori che spiegano tutto), bensì di vivere con serenità l'insorgere dei propri sentimenti, il rischio è quello dell'anaffettività. Ricordo ancora con orrore il famigerato test psico-attitudinale per l'idoneità al servizio di leva. “Ti viene spesso da piangere?”. Certo che no! Mammolette e froci tutti, se si piange. La messa al bando statale di ogni sentimento. Parte delle conseguenze di questa educazione è consultabile quotidianamente sulle pagine di 'cronaca' e di 'nera'.
L'altra sera, per tornare al discorso iniziale, mi è stato difficile trattenere le lacrime quando il Maestro e l'orchestra hanno attaccato il bellissimo primo movimento della sinfonia di Mendelssohn, e sono giunti quei tre accordi finiti poi nel Parsifal (straordinario caso di citazione al contrario: la prima volta li ho sentiti, infatti, nell'opera di Wagner, e solo successivamente nell'originale de La Riforma). Penso due cose, al riguardo. La prima: quando tiri le cuoia in pace con te stesso (se ti sarai potuto concedere questo lusso), quello che senti sono proprio gli accordi del Graal. Secondo: se una musica così divina non muove nulla in te, hai un problema. Proprio grazie alla musica, mi è stato possibile, negli anni, liberarmi di un'ingiusta vergogna.
Mentre scrivo, piccola ha perso il suo primo dente.

martedì 12 settembre 2017

MAMMA MIA! Quando tua madre prevarica.


Mi sia concessa qualche parola su mamma Anna, quella che, scritta una lettera aperta a Lorenzo Jovanotti, imputandogli ironicamente – dice lei – la sterilità della figlia (Caro Lorenzo Jovanotti, sappi che ti ritengo in parte responsabile del fatto che io non sia ancora diventata nonna.”), sta godendo del suo momento di celebrità web, con tanto di apprezzamenti e attacchi all'insegna della cattiveria gratuita – o cyberbullying.
A parte la morbosità di una madre che, ironicamente o no, si occupa della vita sessual-riproduttiva, sessual-godereccia o sessual-sentimentale della figlia, è chiaro che pargoletta, in casa, non deve aver trovato molte alternative discografiche al Jovanotti. Un mio professore delle superiori – stronzo, ma sempre sul pezzo, colto e competente – disse, a riguardo dell'allora nascente fenomeno Cherubini: “Se ascolti Jovanotti, te lo meriti.”. È l'equivalente musicale del fenomeno Volo, sebbene quest'ultimo sia di più recente fabbricazione: se è questo che mamma e papà ti fanno trovare sugli scaffali della libreria, hai voglia risalire.
I miei gusti musicali, in famiglia, non sono mai stati oggetto di condivisione (troppo estremi, troppo sofisticati per un contesto musicalmente analfabeta). Me la immagino proprio, mia madre, che scrive una lettera a, che ne so, Tom Araya (“Sa, signor Araya, penso sia colpa sua se la fedina penale di mio figlio, che ascolta incessantemente la Sua musica, è lunga come uno scontrino dell'Ikea”, ecc., ecc.). Ma è questo il punto di forza psicologico dei gusti musicali di gioventù: ti differenziano da mamma e papà. Ti offrono una prima opportunità in quella direzione. Qui siamo di fronte, invece, ad una coppia di genitori che lungi dal deprecare i gusti della figlia, si sostituiscono a questa scrivendo al suo idolo, e se ne vanno a celebrare l'anniversario di matrimonio a Cortona (paese di residenza del Cherubini). Non posso, in questo frangente, esimermi dal citare che questo tipo di dinamica è stato tecnicamente descritto da Massimo Recalcati ne Le Mani Della Madre, al capitolo La Madre Narcisitica. Buona lettura, quindi.
Mamma Anna si lamenta - sempre ironicamente, dice lei – dell'eccessiva idealizzazione del partner maschile riscontrabile in ogni santo disco di Jovanotti. Intanto, per fare l'ironica, ha in tal modo affermato che i dischi dell'idolo di sua figlia sono tutti uguali, profetizzando persino che tale sarà il prossimo (Tu, caro il mio Lorenzo, che fai? Pubblichi un altro cd….e allora dillo che vuoi rovinarci!”). E difatti, per scongiurare questa gufata, il sito web di Radio DeeJay - l'emittente che, lanciato il Cherubini 30'anni or sono, ne detiene da allora una considerevole quota azionaria - è corsa a comunicarci che questo disco sarà prodotto da niente meno che Rick Rubin, re Mida della produzione, l'eminenza grigia dietro molti tra i più importanti dischi degli ultimi 35 anni. Insomma: una serie di porte viene spalancata con sconsiderata irruenza.
Dal momento che Rick Rubin ha effettivamente prodotto alcuni tra i miei dischi preferiti di sempre, mi sembra proprio che noi si sia di fronte alla conclamata fine dell'innocenza. Se un personaggio come lui, dopo avere firmato registrazioni eccellenti per Run DMC, Slayer, Damien Rice, Metallica, Red Hot Chili Peppers, The Cult, Johnny Cash, God Lives Underwater e quanto altro di meglio vi sia in circolazione; se un personaggio così, dicevo, finisce col produrre l'ultimo disco di Lorenzo (non il personaggio di Guzzanti: Cherubini), significa che, una volta staccato l'assegno secondo le istruzioni impartite, il signor Rubin è disposto a produrre anche il complesso dell'oratorio e vaffanculo a tutto.
A chi la pensa come me, mamma Anna ha dato del “leone da tastiera”, definizione - questa sì – ironica, ma non in grado di metterla a sufficiente riparo da critiche fondate.
Dopo attenta valutazione, invece, di concerto con il proprio ufficio-stampa a camere riunite, è giunta, immancabile, la risposta di Jovanotti, a sostegno – figuriamoci – dell'incompresa mamma Anna. Entrambi a sottolineare che si trattava di uno scherzo, naturalmente non compreso da tutti quelli come me.
Ma non è quello che faceva, a giorni alterni, Silvio Berlusconi quando ci amministrava? Non era sempre il fraintendimento a caratterizzare la nostra disapprovazione alle sua 'barzellette' – ricordate? -?
Dov'erano, a quel tempo, Jovanotti e mamma Anna? Occupati, forse, a contattare il signor Rubin?

sabato 9 settembre 2017

THE BEST. Ovvero: come incappai nell'arte meravigliosa di Brad Mehldau.


Sono anni che, sapendo del mio amore per la musica, mi sento chiedere: “Stefano: qual è, secondo te,  il più bravo musicista del mondo?”. Quesito irritante quanto stupido, al quale però, oggi, fornirò risposta, nella speranza di chiudere definitivamente con l'argomento. Il più bravo musicista che abbia mai sentito è Brad Mehldau.
Una sera di molti anni fa (era il 2003), nel mentre provvedevo al lavaggio-piatti, ero sintonizzato con la radio sul terzo canale della RAI. Era in onda l'esibizione di un pianista che, da solo, stava suonando su di un ritmo ostinato. Non conoscevo il brano in esecuzione. Sembrava vagamente un pezzo pianistico di Paul Hindemith. Rimasi incantato. I piatti cominciarono a puzzare, ma dovevo scoprire chi fosse l'autore di quella musica, e chi l'esecutore che, con taglio netto e suono definitissimo, ne stava dando interpretazione. Per una decina di minuti questo misterioso pianista suonò tutto sincopato, per accordi, preciso come una lama di rasoio. Raramente, prima di allora, avevo sentito eseguire della musica con così tanta convinzione, con un pathos che filtrava persino dalla radio, in una maniera così viva. Terminata l'esecuzione, il conduttore rammentò agli ascoltatori che si stava trasmettendo in diretta il concerto del trio jazz del pianista americano Brad Mehldau.
Il figlio di puttana, quindi, stava improvvisando.
Mesi dopo, sui muri della mia città apparvero, puntuali, i manifesti di Lago Maggiore Jazz (magnifica manifestazione, oggi defunta per mancanza di fondi). Lessi: Brad Mehldau Trio, ingresso gratuito.
Non dovevamo essere più di 60, quella sera. Una ventina di aficionados, qualche ficcanaso ed altra gente che passava di lì per caso. Il concerto fu in tutto e per tutto all'altezza delle aspettative in me generate da quel primo, sconvolgente incontro radiofonico. Grazie al clamore-zero, mia moglie ed io riuscimmo senza fatica ad aggirare il palco per una stretta di mano e i complimenti di prammatica. Ci trovammo di fronte ad un nerd sul metro e 90, soporifero ed ipermagnetico. Aveva quello scazzo controllato tipico di chi sa fare bene il proprio lavoro senza esserne consapevole più di troppo.

(ESTRATTO, IN VERSIONE ITALIANA, DAL COLLOQUIO TRA LO SPETTATORE STEFANO PARENZAN DI ARONA, PIEMONTE, E L'ARTISTA BRAD MEHLDAU DI HARTFORD, CONNECTICUT)

- Complimenti, signor Mehldau. Un concerto davvero splendido.

 - Grazie. Mi fa molto piacere.

- Signor Mehldau, io ho una formazione classica alle spalle, proprio come Lei. Ho studiato chitarra classica. Ma amo molto anche il jazz. Mi farebbe piacere se Volesse essere così gentile da elargirmi un consiglio al riguardo.
- Ehm... beh... suona sempre ciò che ti piace, ciò che ami di più. Io faccio così. In questo periodo sto studiando molto Paul Hindemith, e nelle mie improvvisazioni cerco di impiegare il suo stile. Ecco.
- Grazie, signor Mehldau.
- Prego.
- A presto.
- Riguardati.

(FINE DELL' ESTRATTO DI CUI SOPRA)
Hai capito? Paul Hindemith. Beccato. Certo: più facile a dirsi che a farsi.
Sono passati quasi quindici anni. Brad Mehldau non è più solo un talentuosissimo pianista di nicchia: è una superstar del jazz, contesa dai più importanti festivals del mondo.
Da allora non ho più smesso di ascoltarlo e seguirlo.
Ascoltarlo. Le registrazioni, alcune delle quali davvero splendide (i volumi di The Art Of The Trio ed Elegiac Cycle, il suo capolavoro, dischi obbligatori per chiunque ami realmente la musica), sono quelle che, meglio di ogni parola, lo descrivono. Esiste inoltre un bellissimo documentario, dalla serie Portraits, realizzato dal canale europeo ARTE, che consiglio a tutti di vedere, e che è un vero documento di militanza musicale. Vi è ritratto un Brad Mehldau giovanissimo in azione con il suo trio. Le performances sono strepitose, e le interviste che le inframmezzano un vero e proprio sguardo su di un talento raro e vulnerabile, colto allo svanire dell'innocenza. Scoprirete, in entrambi i casi, che è difficile non commuoversi di fronte a così tanta bellezza.
Seguirlo. Sul proprio sito web, dove, episodicamente, esterna il proprio pensiero per iscritto – e che è esattamente ciò che ha fatto qualche settimana fa, alla luce della tragica marcia dei suprematisti bianchi a Charlottesville VA. Perché questo artista straordinario, oltre a talento e pensiero, vanta anche una coscienza alquanto reattiva. Americana. Artistica. Etica. Politica. È perfettamente consapevole, cioè, che i ceffi che hanno sfilato in Virginia palesando anacronisticamente il desiderio di eliminare la presenza nera dal territorio statunitense, attentano proprio alle differenze che hanno generato quell'arte meravigliosa della quale egli è, al momento, uno dei massimi esponenti. Scrive: “Per ciò che riguarda Charlottesville, mi schiero con le tante persone sconcertate dalle parole poco chiare di Trump nei confronti dei neonazisti, e con coloro che protestano contro i neonazisti. Non accetto questo relativismo morale. Alla fine, tutti abbiamo visto la reale violenza che proviene dal campo neonazista. L'amoralità di Trump è un aspetto della sua facciata sostanzialmente narcisistica e della sua stupidità. Non ha la capacità per generare empatia, e di conseguenza nulla di buono farà per il paese o per il mondo. Ciò può cambiare solo con una radicale trasformazione del suo carattere. Penso sia possibile. Nel frattempo, teniamoci impegnati fino a quando verrà indagato o costretto alle dimissioni.”
Non riesco a non pensare all'irruzione dei militanti di Forza Nuova nella chiesa del Pistoiese. Vi vedo un parallelo inquietante.
Brad Mehldau è un romantico che suona jazz.
Imbattendosi in una sua foto recente, e ricordandosi di quel breve incontro dopo il concerto aronese, mia moglie è rimasta colpita dal rivedere in essa l'immagine di un uomo visibilmente invecchiato. E qui sta il nocciolo della riflessione.
Contrariamente a quanto asserito dal luogo comune, quello della musica è un mestiere duro. Richiede impegno, fatica, studio continuo, ed una dose di sofferenza in diretta proporzione con la sensibilità in gioco. Non sorprende, quindi, che il giovane incontrato in quel luglio di tanti anni fa sia stato sostituito da una figura più sciupata, incanutita, invecchiata, sebbene con dignità. Qui non stiamo parlando di musicisti che, azzeccata una formula, hanno poi optato per una carriera di rendita. Parliamo di un musicista vero, come ve ne sono pochi, che realmente ricrea e dona la propria arte, giorno dopo giorno, concerto dopo concerto, disco dopo disco. E quando c'è sincerità c'è anche, ogni volta, un piccola parte di sé destinata a perdersi nell'atto del donare. Per questa ragione i musicisti invecchiano e gli istrioni rimangono congelati nell'età e nei costumi.
La grandezza di Brad Mehldau consiste nell'avere portato la propria tecnica ad un punto dove il gesto - la mano che corre sulla tastiera - non è più avvertito, e la musica scaturisce dai soli cuore e mente.
Un vero e proprio balsamo per le nostre anime, sempre più minacciate dall'aridità di un mondo insensibile.

domenica 27 agosto 2017

HAPPY. La Ricerca Della Felicità rivisto a distanza di un decennio.


A distanza di oltre dieci anni, ho rivisto La Ricerca Della Felicità, il film che sancì l'ingresso di Gabriele Muccino nel circuito delle mega-produzioni statunitensi.
Molto acqua è passata sotto i ponti, da allora. Per il mondo (il film, che narra della risalita dalla rovina finanziaria, venne girato due anni prima del fallimento di Lehman Bros.). Per Muccino (il Gabriele nazionale è, in quel di Hollywood, un resident director apprezzato e premiato). Per chi scrive (sono padre di una bambina che ha, oggi, la stessa età del piccolo co-protagonista).
TRAMA
San Francisco, 1981. Chris Gardner è un uomo di colore, impiegato nel settore delle vendite. Gli affari non vanno bene, peggiorano a vista d'occhio. La sua precaria situazione sentimentale collassa, e ai problemi occupazionali si aggiunge la custodia del figlio. Per i due ha inizio un'inesorabile discesa verso l'indigenza, con tanto di sfratto, notti all'addiaccio, mense e dormitori pubblici. Chris non si arrende, però: oltre a chiudere con le pregresse situazioni debitorie, conquista a fatica (deve affrontare un lungo stage non retribuito) un impiego dignitoso dal quale ha inizio la personale riscossa. I titoli di coda raccontano allo spettatore che, nel 2006, il protagonista ha realizzato una fortuna milionaria vendendo una quota dell'azienda di investimenti da egli fondata 20 anni prima. Quella di Chris Gardner è una storia vera. The end.
SVOLGIMENTO
La rappresentazione che Gabriele Muccino fornisce di questa vicenda, sebbene apprezzabile da un punto di vista tecnico, non è di natura meramente cinematografica, bensì teatrale, un debole presente già allora nella sua produzione come in tantissimo altro cinema (si riveda, a suffragio di questa tesi, la bella sequenza di meta-arte in Ricordati di Me, che tanto deve a Magnolia di Paul T. Anderson, dove la narrazione trova svolgimento e risoluzione nel corso di una recita teatrale; e non si dimentichi che è proprio dopo avere visto questo film che Will Smith ha espresso il desiderio di essere diretto da Muccino). Questa del suo esordio americano è, a tutti gli effetti, una riuscita rappresentazione edificante e moraleggiante come piace agli Yankees, ma priva – si suppone per scelta - di quella visione che dovrebbe, invece, essere propria di un'opera cinematografica. Narrazioni. Racconti. Molto ben fatti. Ma nessuna visione spiccatamente cinematografica.
La felicità sbandierata nel titolo (fedele all'originale The Pursuit Of Happyness) è qui candidamente confusa con la dignità (ma va da sé che, quando accetti di farti produrre per 55 milioni di dollari da una major statunitense e sei all'esordio in quel contesto, certe debolezze vanno accettate acriticamente). I fantasmi dei padri fondatori distorcono la visione USA delle cose. Felicità è, per l'americano medio, il successo lavorativo conseguito attraverso l'adeguamento al sistema, esentando quest'ultimo da qualsivoglia critica. È questo il messaggio che trapela dalla pellicola: il sistema che abbandona padre e figlio all'indigenza, è lo stesso che permette al protagonista di ottenere un posto di lavoro degno di questo nome. Non v'è ricerca alcuna: solo un mettersi al riparo nelle pieghe subdolamente confortevoli del sistema. Sebbene il protagonista affermi, sul finale, che la difficilissima, sfiancante, conquista del posto di lavoro rappresenti per lui quello che realmente è la felicità (significativo il fatto che la battuta venga pronunciata su di una sequenza dove Chris Gardner, fresco di assunzione, scende fiero in strada per unirsi alla massa fino a scomparire quasi del tutto), quella cui si assiste è in realtà ben altro tipo di ricerca. Questo padre che, di fronte al figlio, lotta per essere un padre della legge e un padre capace di fornire una testimonianza (la definizione è di Massimo Recalcati), per fare sì che l'ultimo faro nella notte del suo piccolo non si spenga lasciandolo senza speranza; che sa offrirgli protezione; che sa preservare la sua innocenza; che non rinuncia allo studio e alla crescita personale persino nel più tragico dei frangenti – e grandiosamente interpretato da Will Smith, in primi piani di profonda disperazione umana ed immensa dignità genitoriale, capaci di fornire allo spettatore la vera misura morale di questa vicenda -; questo padre è, piuttosto, alla 'ricerca della dignità' - intento nobile ed umanissimo che consegue, prima ancora che con sé stesso, agli occhi imploranti del suo piccolo.
È impensabile che un'icona come Will Smith non abbia intravisto, nell'accettare questo ruolo, anche un'occasione per riaffermare il proprio orgoglio nero (Opportunismo, il suo, del tutto giustificato, comprensibile e condivisibile. Si ricordi, infatti, che il film venne girato un anno dopo l'attraversamento di New Orleans da parte dell'uragano Katrina, evento che, oltre al passare agli annali per la straordinaria scia di morte lasciata lungo il cammino, definitivamente chiarì al mondo intero quello che era al momento il peso specifico della comunità nera negli Stati Uniti d'America: nullo.).
La Ricerca Della Felicità sembra proprio un film il cui messaggio è sfuggito di mano ai suoi stessi autori.
La Ricerca Della Felicità è un film sul padre.