Il 'direttore' del TG 40ena, Maccio Capatonda. |
giovedì 26 marzo 2020
L'ITALIA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS. Uno sfogo.
WORD 2020. Un 'pippotto'.
Chi
parla male, pensa male e vive male, diceva il protagonista di
Palombella Rossa. Giudizio tanto severo quanto profetico, a giudicare
non solo dalla sciatteria linguistica con la quale, oggi, si ignora
spudoratamente la differenza tra un sostantivo ed un aggettivo, ma
anche dalla manifesta degenerazione qualitativa dei rapporti
interpersonali, dovuta all'incapacità – cronica, quasi
un'invalidità - a comunicare il proprio pensiero - e senza
includere, in questa sommaria analisi, le omissioni dovute alle tante
nevrosi che attanagliano il vivere contemporaneo.
Ci
so fare, con le parole. O, forse, farei meglio a dire: ho imparato
ad usarle, le parole.
Ho
recentemente riletto alcuni miei scritti, risalenti a più di dieci
anni fa. Con grande imbarazzo, mi sono trovato di fronte ad una prosa
immatura ed inadeguata ai fini prepostimi (la critica musicale e di
costume), tipica delle persone con grandi velleità, ma non avvezze
alla pratica e alle regole della scrittura. Per mia fortuna, un certo
numero di buone letture ed un serio impegno autocritico seguito a
quei primi, modesti tentativi, nel tempo ne hanno mutato la forma,
rendendola così comprensibile ai più (pecche stilistiche ed una
certa pesantezza ancora permangono, ma, si sa, non c'è limite al
miglioramento). A margine di ciò, ha contribuito ad una maggiore
attenzione all'impiego delle parole la motivazione datami dai tanti apprezzamenti
ricevuti in questi primi anni di vita di Sala Colloqui – sebbene
l''eccesso di rialzo' di alcuni di essi sia stato dettato più
dall'affetto e dall'amicizia che legano me ed i miei generosi
ammiratori, che dal reale valore degli articoli apparsi sul blog.
Non
saprei dire quando l'impiego attento della parola, orale e scritta, è
divenuto, per me, di vitale importanza. Sono stato uno studente
mediocre in ogni materia sostanzialmente per l'intera durata del mio
travagliato percorso di studi. Poi, in età adulta, è successo
qualcosa. È fuori di dubbio che, al tempo del primo tentativo su
carta (la recensione di un concerto di Roger Waters), fosse la
necessità famelica di gratificazione personale a guidare lo sforzo,
allora titanico, del dare vita a qualche riga cui poter apporre la
firma (e questo dimostra come la sete di fama, quando assunta a
motore unico della creatività, sia semplicemente garanzia di
memorabili brutte figure). Penso sia cominciato tutto per questioni
legate al lavoro, quando ero addetto alla sicurezza aeroportuale ed ero soggetto all'obbligo normativo di
redigere delle relazioni di servizio. Questo genere di - chiamiamola così - composizione,
generata in ambito burocratico e militare, diede me, nella veste di
occasionale redattore, precetti elementari, presenti in ogni corso di
scrittura: rendere sempre chiaro al lettore chi ha fatto cosa,
eventualmente 'a' e 'con' chi e quando. Così, le tante
incomprensioni dovute alla prosa farraginosa ed al lessico improprio
(eufemismo) dei primi tentativi, si trasformavano in altrettanti
inviti da parte del mio capo a nuove stesure che fossero più chiare,
snelle e maggiormente consapevoli delle persone estranee ai fatti cui
le relazioni venivano inviate per conoscenza. Questo fino a quando
l'orgoglio non ha preso il sopravvento, e l'essere reputato persona
non in grado di produrre una comunicazione efficace mi è sembrato
inaccettabile e poco professionale. Imparare a scrivere, ha
comportato, per me, due obblighi: un ritorno allo studio della
grammatica e un duro lavoro di trascrizione, finalizzato ad
apprendere, attraverso testi di pregevole fattura stilistica, le
soluzioni indispensabili a tutti coloro che intendano rendersi
comprensibili attraverso la parola scritta (una tecnica, quest'ultima, che dai tempi più remoti ha sempre portato a dei risultati: non si dimentichi, infatti, che persino un gigante come Johann Sebastian Bach affinò inizialmente la propria tecnica compositiva proprio trascrivendo le partiture di quelli che egli riteneva essere i grandi strumentisti del suo tempo, esattamente come molti di noi, in tempi più recenti, hanno fatto con quelle del rock, del pop e - per i più arditi - del jazz, sebbene con risultati imparagonabili). Anche la passione per il cinema ha contribuito - e non poco - a fornire modelli di scrittura cui, ancora oggi, sento di attingere incessantemente. La prima sceneggiatura con la quale mi sono confrontato - tanto e tale era stato l'entusiasmo per la pellicola che ne dava sfoggio - fu American Beauty, il bellissimo film di Sam Mendes del 1999, scritta dalle mani di Alan Ball il quale, oltre a fornire un modello esemplare, fu per me la porta verso la scoperta di suoi colleghi altrettanto meritevoli di plauso, quali Aaron Sorkin e Grant Heslov - e la prova vivente che, al prezzo di grandi sforzi, è possibile iniziare una carriera anche dopo i 40 (Ball era quasi sul lastrico quando riuscì a vendere la sceneggiatura che, l'anno seguente, fruttò lui un meritatissimo premio Oscar). Mi sorprende che testi di questa fattura - penso, ad esempio, a The Social Network, del primo, e a Good Night and Good Luck del secondo) trovino spazio esclusivamente nelle scuole di cinema, nel mentre vengono del tutto trascurati dai programmi di insegnamento di scrittura e di lingua Inglese sia alle medie che alle superiori (quando, risaputamente, i giovani ricevono l'imprinting che maggiormente caratterizzarà i loro sforzi in questi comparti nei massimi percorsi di studio come nella vita adulta). Ad oggi, mi sento di dire, pochi altri testi possono mostrare altrettanto efficacemente come si scrive un dialogo (bando all'esterofilia: è giusto ricordare in questa sede due cavalli di razza nostrani quali Paolo Sorrentino ed Umberto Contarello, le cui mani hanno prodotto La Grande Bellezza, una delle sceneggiature più brillanti del cinema italiano di sempre, creativi cui va tributato il plauso per il dialogo della terrazza tra il protagonista Gep e la sua amica Stefania, un scambio al fulmicotone che vale da solo l'intero film).
Il risultato di tutto questo, per concludere, è la frase riportata in apertura. Professionisti da migliaia di euro al mese che si esprimono come semianalfabeti (quali di fatto sono), e che in questo modo tradiscono disamore per la propria attività e quella altrui.
Non è un lapsus: sono errori ripetuti in assoluta inconsapevolezza, e, sovente, mai corretti dagli astanti.
Il risultato di tutto questo, per concludere, è la frase riportata in apertura. Professionisti da migliaia di euro al mese che si esprimono come semianalfabeti (quali di fatto sono), e che in questo modo tradiscono disamore per la propria attività e quella altrui.
Non è un lapsus: sono errori ripetuti in assoluta inconsapevolezza, e, sovente, mai corretti dagli astanti.
giovedì 12 marzo 2020
NOTTE HORROR. Il 'monologo' di Diletta Leotta a Sanremo.
"Essere o non essere? Questo, è il problema." |
Per
tutti questi motivi, quando YouTube, giorni fa, mi ha proposto
'monologo di Diletta Leotta a Sanremo' per mezzo il suo
fantasmagorico algoritmo, la curiosità ha avuto il sopravvento,
facendomi così avventurare in sei minuti di imbarazzo, seguiti da giudizi
sessisti bestemmiati a voce bassa che non mi è stato possibile trattenere.
Da tempo, al Festival di Sanremo, va di moda impiegare il termine con evidente abuso. Nessuno dei suoi ospiti – e prego tutti di risparmiarmi la descrizione del tipo umano che maggiormente alletta la dirigenza artistica della manifestazione – tiene un discorso: fanno monologhi. Come Laurence Oliver.
E così è capitato anche alla nostra di tenerne uno. Sulla bellezza (un argomento così ricco di asperità che persino i filosofi, quando si occupano di estetica, si guardano bene dell'affrontare con la guardia abbassata). Avevo già avuto qualche sospetto quando, in una recente pubblicità di intimo, Leotta è apparsa in uno spot con tette strizzate e zero battute. Nemmeno uno slogan striminzito (curioso, per una che solo qualche mese dopo riceve un invito a monologare).
Ora, che un uomo, di questi tempi, attacchi una bella figa perché parla, si sa, non porta lontano (a proposito: congratulazioni alle donne di MeToo, che giusto ieri hanno assicurato Harvey Weinstein a 23, meritati anni di reclusione, dopo averlo denunciato in branco e non prima di essersi assicurate rendita a Hollywood e proprietà a Laurel Canyon). Invito pertanto tutti voi a munirvi di un sacchetto per il vomito e a visionare in autonomia il filmato del monologo in questione, che trovate di seguito (se poi ne avete voglia, fatevi due risate leggendo i commenti disparati che questa performance ha scatenato).
Da tempo, al Festival di Sanremo, va di moda impiegare il termine con evidente abuso. Nessuno dei suoi ospiti – e prego tutti di risparmiarmi la descrizione del tipo umano che maggiormente alletta la dirigenza artistica della manifestazione – tiene un discorso: fanno monologhi. Come Laurence Oliver.
E così è capitato anche alla nostra di tenerne uno. Sulla bellezza (un argomento così ricco di asperità che persino i filosofi, quando si occupano di estetica, si guardano bene dell'affrontare con la guardia abbassata). Avevo già avuto qualche sospetto quando, in una recente pubblicità di intimo, Leotta è apparsa in uno spot con tette strizzate e zero battute. Nemmeno uno slogan striminzito (curioso, per una che solo qualche mese dopo riceve un invito a monologare).
Ora, che un uomo, di questi tempi, attacchi una bella figa perché parla, si sa, non porta lontano (a proposito: congratulazioni alle donne di MeToo, che giusto ieri hanno assicurato Harvey Weinstein a 23, meritati anni di reclusione, dopo averlo denunciato in branco e non prima di essersi assicurate rendita a Hollywood e proprietà a Laurel Canyon). Invito pertanto tutti voi a munirvi di un sacchetto per il vomito e a visionare in autonomia il filmato del monologo in questione, che trovate di seguito (se poi ne avete voglia, fatevi due risate leggendo i commenti disparati che questa performance ha scatenato).
Personalmente, rimango con un dubbio – per quanto tutt'altro che
amletico -: ma, gli autori del Festival di Sanremo, chi sono?
Scrivono queste mostruosità perché vi credono, o più
semplicemente, attagliano forma e contenuto al tipo di pubblico cui
sanno bene di rivolgersi (quesito retorico: la risposta esatta è la
numero due)? Quanto a Diletta Leotta, colpisce l'assoluta assenza di
vergogna con la quale si è fatta il processo in diretta televisiva,
naturalmente assolvendosi con formula piena (io so' io e voi nun
siete 'n cazzo). Ha solo un alibi: l'aver ricevuto un tale compenso
da permettersi, dopo questa figura barbina, di farsi dimenticare per
un po', magari svernando ai tropici in una struttura sei stelle deluxe (da dove è però certo verrà inviato via social
un numero di scatti con maglietta bagnata che nemmeno Salgado
in tutta la sua carriera ha numericamente mai fatto).
Dobbiamo,
però, essere onesti. Né il Festival né la prestazione di Leotta
sono risultati un insuccesso. Tutt'altro. Ottimi indici di ascolto e grande
favore per musica, i testi ed ospiti.
Al
che si giunge al nocciolo della questione: il pubblico di Sanremo e
quello della televisione generalista.
Il
primo è vecchio, decaduto, figlio mediocre di quella piccola e borghesia
imprenditoriale che, in tempi non sospetti, ha fatto
dell'Italia quello che non era: un paese industrializzato. Che in una manifestazione come il
Festival vedeva davvero il meritato svago dalle lunghe, spesso dure, giornate di
lavoro - e nella presenza all'Ariston l'attestazione di un benessere consolidato. Ha vissuto nell'unica incarnazione concessagli, il baüscia, protagonista della trasformazione della Costa Smeralda in un arcipelago di località da pappone con prezzi da usura, e della riviera di ponente in un buen ritiro a poche miglia dalla salvezza fiscale. Pretendere anche solo un pensiero da una categoria che altro non ha saputo concepire se non il proprio, particolare interesse, è pia illusione. Che la stessa partorisca un pensiero critico di fronte ad un delirio come quello appena ascoltato, fantascienza.
Il secondo, invece, è il popolino ormai stracotto da decenni di palinsesti televisivi a guida unica, completamente defraudato di ogni possibità di scelta razionale, ma non per questo incolpevole della propria situazione. È il teledipedente così come profetizzato da David Foster Wallace, privo degli strumenti culturali - metalinguistici - necessari a leggere tra le righe, ad interpretare parole ed azioni.
Con un siffatto pubblico, Diletta Leotta non ha nulla da temere.
Considerato il successo, c'è da attendersi il bis, con un bel monologo sul sesso.
Il secondo, invece, è il popolino ormai stracotto da decenni di palinsesti televisivi a guida unica, completamente defraudato di ogni possibità di scelta razionale, ma non per questo incolpevole della propria situazione. È il teledipedente così come profetizzato da David Foster Wallace, privo degli strumenti culturali - metalinguistici - necessari a leggere tra le righe, ad interpretare parole ed azioni.
Con un siffatto pubblico, Diletta Leotta non ha nulla da temere.
Considerato il successo, c'è da attendersi il bis, con un bel monologo sul sesso.
Speriamo, almeno, ci risparmi gli esempi con nonna Elena.
giovedì 5 marzo 2020
PESCATO DEL GIORNO. Le Sardine in pasto a Maria De Filippi.
Le Sardine ad 'Amici'. |
Ecco: quell'ora è arrivata davvero.
“Una
decisione forte che rivendichiamo
e che ci dà l’opportunità di parlare ai giovani e di portare i
nostri valori in un programma che premia il talento.”.
Una decisione forte. Un programma che premia il talento. I loro
valori.
Avevo
già scritto male delle Sardine già tempo fa, su Facebook, prima di
chiudere definitivamente l'account,
così consegnandomi ad un solipsismo divenuto
funzionale alla mia attuale condizione di fuori-casta a tutto tondo.
E
già allora, al tempo della loro comparsa sulla scena politica, le
avevo date per spacciate. Profezia oggi confermata dalla
sottomissione di Mattia Santori - leader maximo del movimento - e compagni a sua maestà Maria De Filippi ad appena il sesto mese
di vita. In fasce, praticamente.
Mi
rendo conto, qui, della necessità di essere quanto mai chiaro.
Sono
un 50'enne che, in questo specifico frangente, sta tenendo a giudizio
dei giovani che, potenzialmente, potrebbero essere suoi figli.
Sono
anni che attendo di imbattermi in un giovane con attributi così
virili da mettermi a tacere al primo round. Questo è, per me,
uno dei compiti delle nuove generazioni: fottere a morte quella
precedente. Presentarle il conto e chiedere spiegazioni. Metterla di
fronte alle proprie, innegabili responsabilità, e ad una nuova,
diversa visione della vita.
Mettiamola
così, allora: se questi tre venduti dell'ultima ora che sono i
rappresentanti delle Sardine credono davvero di poter parlare ad uno
come me e, magari, persino di riuscire a persuaderlo con il loro vuoto spinto, beh: si sopravvalutano davvero.
La
realtà, però, è un'altra. E cioè che i nostri eroi ben se ne
guardino dal voler persuadere uno come me. Hanno altre e ben più
ambiziose mire da perseguire. Tre giovani che non dopo anni ed anni di
militanza, dopo essersi per bene scottati e scontrati, bensì sul
nascere del proprio movimento calano le brache di fronte a Maria De
Filippi, accettandone supinamente l'invito; che si fanno irretire
così facilmente dalla promessa di uno spazio libero; che, non paghi
di questa palese sottomissione, cerchino persino di sdoganarla ai
nostri occhi presentandola come meritocratica, dialogica, valoriale
e, nel suo insieme, financo coraggiosa, fa solo pensare una cosa: che
i nostri tre eroi abbiano le idee molto chiare su come scalare il
sistema, in culo ai meriti, senza doverne chiedere conto a nessuno –
tantomeno ai coetanei che dicono di rappresentare – ed in barba ai
valori (“la bellezza”, sì, buonanotte) fino a quel moneto
professati.
Sono
probabilmente andati a scuola meno di Greta Thunberg, ma si sentono
investiti (da chi?) della missione di portare noi la luce (quale?).
Richiamano tutti alla pratica della bellezza, ma all'uscita del film
di Sorrentino stavano, probabilmente, alla proiezione de I Guardiani
Della Galassia.
Qui
i casi sono due. O il seguito delle Sardine (duole persino conferire
loro la maiuscola) è ben più malmesso dei loro fedifraghi leaders
– e per questo non si rende conto del vuoto assoluto che li
caratterizza – o, più semplicemente, sono come loro e li seguono
nella sola speranza di poter salire presto sul carro dei vincitori
(pia illusione, visto come gli attuali padroni del vapore li hanno
già inquadrati ed irregimentati).
Maria
De Filippi è la personificazione di quel potere mediatico,
orwelliano, onnivoro e predatorio, negli ultimi decenni promosso
fortemente dalla politica, che ha messo la generazione delle Sardine
nella condizione indubbiamente disperata nella quale si trova oggi. È
la regina incontrastata dei palinsesti tutti, concorrenza compresa –
che ben si guarda anche solo dal pensare di interferire con una
particolare prima serata presentata o voluta dalla nostra. Dispone –
a suo indiscutibile piacimento - di un format per ogni tipo di
subcultura dominante: la pietà (C'è Posta per Te), l'arrivismo
(Amici), l'infatuazione (Uomini & Donne). E tutti di grandissimo
successo. Regna per censo, insomma, ed i suoi talenti – gli stessi
che si sforza di individuare strenuamente nei partecipanti di 'Amici' - sono ai più sconosciuti. Giusto ieri l'altro, Nicola Porro (non propriamente la personificazione del giornalismo d'inchiesta, ma va da sé che questo passa, il convento) si è permesso una critica all'acqua di rose ad 'Amici' e De Filippi, proprio sul tema dell'invito fatto alle Sardine. Apriti cielo. Replica immediata di De Filippi e, l'indomani, scuse di Porro e redazione. Insomma: chi tocca, muore.
Che
le Sardine, per mezzo dei propri rappresentanti, cedano così
mollemente al ricatto del sistema (o da noi o porte chiuse) e lo
facciano con parole di elogio per colei che così munificamente lo rappresenta, è un segno che non lascia speranza sull'effettivo valore di quest'ultima generazione.
lunedì 2 marzo 2020
OUT OF ENGLAND. Gli italiani e l'Inglese dopo la Brexit.
Lo 'Union Jack' secondo l'artista britannico Banksy. |
lunedì 9 dicembre 2019
JOIE DE VIVRE. Il mio, personale ricordo di Michel Petrucciani.
È davvero sorprendente come la
radio, nel fiume pressoché ininterrotto di quella verbosità
insensata che caratterizza ormai, uniformemente, ogni suo canale, sia
ancora in grado di donare momenti di pura bellezza e grande stupore a
chi, come il sottoscritto, ancora l'ascolta con una passione d'altri
tempi.
È successo stamane (5 dicembre),
all'alba, su quell'isola che non c'è che è il terzo canale RAI (riconosco, da me insistentemente citato, come ne fossi un
azionista, ma va da sé che lì, e solo lì, è avvenuto il
miracolo).
Ricorre infatti quest'oggi – ma ne
ero completamente dimentico – il ventesimo anniversario della
scomparsa di Michel Petrucciani (per chi non lo conoscesse, un
incantevole pianista jazz francese cui la natura aveva dato tutto ciò
che abbisogna ad un essere umano per eccellere in campo musicale,
avendo però la stessa privatolo dalla nascita di quella condizione di sana
e robusta costituzione essenziale per la longevità, così
imponendogli una scomparsa prematura sia dal punto di vista musicale
sia da quello biologico).
Quando ti devi alzare all'alba per
recarti al lavoro, la voce radiofonica è una fonte di
conforto non di poco conto, sebbene, come accennato in apertura, il
nonsense sia sempre in agguato.
Ed ecco allora che, data l'ora
spaventosa dell'uscita di casa - corrispondente, oggi, ad una fascia
oraria dove ogni emittente, persino la più scalcinata e provinciale,
dispone di un format mattutino e consolatorio dedicato a tutti
coloro che abitualmente od occasionalmente sono costretti a tirare la
carretta al cantar del gallo - mi sintonizzo su Radio Rai 3, dove, va
riconosciuto, è possibile sentirsi un poco più protetti, in termini
contenutistici, rispetto agli abissi della concorrenza.
È una fascia oraria di repliche,
puntualmente seguite da proposte di ascolto in ambito classico di
musiche legate tra loro da una parola differente giorno per giorno.
La parola di oggi era vita.
Nonostante l'ora piccola, la
conduttrice sembra d'improvviso riprendersi, come se qualcosa,
finalmente, l'avesse risvegliata dalla noia di palinsesti a volte
troppo uguali. Ricorda agli ascoltatori del triste anniversario.
Aggiunge che la parola del giorno ben si adatta all'opera del
pianista francese, avendola egli amata così tanto, la vita, da
averle persino perdonato la malattia che questa gli aveva donato in
nascita. Senza ulteriori preamboli, parte Brazilian-like, dal
vivo. E non c'è null'altro che io possa fare, in quel momento, che
accostare, occhi lucidi, e farmi avvolgere per qualche minuto da
questa musica viva, ricca, meravigliosa.
Ho avuto l'onore e la fortuna di
sentire Petrucciani dal vivo due volte. La prima, mi sembra, intorno
al 1997, in occasione di un'esibizione privata con finalità benefica
per i Lions del Lago Maggiore. Insieme ad un amico attraversai i
binari di un tratto di ferrovia per poi arrampicarmi (!) sul costone
della cappella privata, sede del concerto. Fummo issati all'interno
della proprietà dagli addetti alla sicurezza, spaventati, più che
dall'incursione, dall'eventualità, verosimile, di una caduta
all'indietro sui binari, con sopraggiungere fatale di treno merci
transalpino in transito notturno. Al fine di non turbare il clima
ormai consolidato dell'evento, ci fu consentito di restare, ma
all'esterno della struttura. Data la stagione mite, le finestre
stavano aperte. Ci posizionammo come profughi su quella del retro,
che il caso volle fosse a non più di tre metri dal pianoforte.
Praticamente, sul palco. Fu come un sogno. In uno degli spasmi
dell'esecuzione, Petrucciani riuscì a fotografare i nostri volti,
continuando a suonare del tutto indisturbato. Anzi: forse persino
galvanizzato dai nostri sguardi imploranti. Lo capimmo quando, al
termine, ci riuscì di entrare e raggiungerlo.
“Hey, ragazzi: si sta meglio fuori,
no? È più fresco che qui.”.
Petrucciani parlava italiano.
“Michel: complimenti. È stato
bellissimo.”
“Grazie, ragazzi.”
Alzò la mano dal suo metro scarso di
altezza e diede noi un cinque, contraccambiato con ammirazione
assoluta ed un'invidia demoniaca per il livello sconcertante di
quanto avevamo appena sentito.
La seconda volta fu nell'anno della
sua scomparsa, il 1999. Ad Arona. Parco della Rocca Borromea. Nel
solito luglio caldissimo. In quello che sarebbe poi diventato
l'ultimo concerto italiano di Petrucciani. Una scadenza della quale
egli solo, probabilmente, era consapevole, ma che in nessun modo
riuscì ad intaccare quella gioia del fare musica e quell'amore per
la vita che così fortemente hanno caratterizzato tutte le esecuzioni
della sua carriera. Accompagnato da una formazione di superstar
del jazz, quando queste compresero che la sua improvvisazione stava
debordando, aveva l'urgenza di comunicare qualcosa che non poteva più
essere contenuto, con grande discrezione si fecero indietro e lo
lasciarono suonare solo per circa un quarto d'ora, immerso nella
bellezza della creazione, gratificato dall'incanto e dalla commozione
del pubblico.
Michel Petrucciani, è morto a soli
36 anni, lasciando dietro di sé, oltre al compianto per la perdita
di una grande voce – in senso naturalmente lato - della musica, un
esempio di dedizione alle proprie, naturali, predisposizioni che
davvero meriterebbe di essere proposto ai nostri giovani.
In un tempo dove il format
unico televisivo tenta insistentemente di persuaderci che basti un
po' di faccia tosta e quattro accordi di chitarra per sentirsi
attribuire un non meglio specificato 'talento x', la vicenda musicale
di Petrucciani può essere il miglior antidoto per riportare il
giusto ordine nelle nostre menti e nei nostri cuori.
martedì 26 novembre 2019
RESPECT THE COCK. La capacità di motivare.
Tom Cruise in Magnolia, di P.T. Anderson. |
Motivare significa, in un'ottica psicologica, adoperarsi ad
attivare nell'altro quelle capacità che gli sono proprie, al fine di
conseguire, nel migliore dei modi, l'obiettivo preposto.
Probabile che l'avvento del motivatore lo si sia avuto in ambito sportivo con la
figura del moderno allenatore di stampo statunitense (da cui i
termini, ottusamente mutuati dall'Inglese, di coach e mister), tecnicamente preparato, ma anche dotato di una filosofia, volgarmente detta vincente, e di una visione forte, persuasiva, della vita.
(Il
tutor stesso può
essere inteso come figura motivazionale in quanto, sorto nelle scuole
di recupero, ancora oggi, ha il compito, ideale, di creare
nell'allievo recalcitrante un meccanismo di autostima ed un metodo di
apprendimento, più che di inculcare nozioni molto più facilmente
apprendibili in autonomia una volta conseguite le condizione espresse nei due precedenti
punti.).
Si
può quindi facilmente cadere nel tranello di credere l'insegnante un
motivatore, con il consguente, pericoloso sbilanciamento della
responsabilità dell'apprendimento dall'allievo al
docente. Da un punto di vista tecnico, è sicuramente sbagliato. Da
quello psicologico (lo ha spiegato benissimo Massimo Recalcati ne
L'Ora Di Lezione) l'insegnamento è un rapporto a due, e certo, se il
fine è quello di innamorarsi del sapere, serve, in chi apprende, una
buona dose di motivazione, sempre intesa come riconoscimento di
capacità uniche attraverso le quali può svolgersi ogni
trasmissione.
Detto questo, il
motivatore può umiliare? No.
Di
fronte ad un problema, il motivatore può sicuramente esprimere il
proprio biasimo, le proprie riserve, la propria disapprovazione,
sempre però vincolando il giudizio non al mancato raggiungimento del
fine preposto (umiliazione), bensì al non aver impiegato quelle
qualità personali che sono in ognuno (motivazione) e che solo se
messe in campo possono portare a risultati caratterizzati da uno
stile (gratificazione), non stupida ripetizione di gesti o parole.
Ad
esempio. Il motivatore che affronta il soggetto riversandogli addosso
voci e giudizi terzi, nel tentativo, si presume, di generare una
reazione di orgoglio, confonde se stesso con il galvanizzatore, il
cui compito è quello di attivare l'azione nel soggetto ad ogni costo
e condizione, prestando, pertanto, un pessimo servizio alla causa
motivazionale.
Nella
fase iniziale, il rapporto motivatore/soggetto è sbilanciato a
favore del primo. Qui lo sport, ancora una volta, è foriero di esempi. Vi sono molti
atleti, specie negli sport di squadra, il cui potenziale fatica ad
esprimenrsi in campo perché messi in difficoltà dal pubblico,
dall'avversario, perché timorosi di essere pesantemente giudicati
per un errore o per la propria giovane età. Ecco: in questi casi, la
dipendenza da un buon motivatore (allenatore) è quasi totale. Ma è
anche chiaro che un simile rapporto può avere solo una durata
limitata, deve risolversi con la crescita del soggetto in direzione
della massima autonomia.
Forse
il peggior motivatore è proprio colui che, attraverso l'impiego
delle cosiddette mezze verità, vincola a sé anziché liberare,
impedendo in tal modo l'espressione di potenziali che potrebbero,
invece, fare la differenza (come sempre accade con un apporto
genuinamente personale).
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