Il miglior amico dell'uomo: Charlie Brown. |
Da
un lato, la manifesta incapacità dell'uomo moderno nel fronteggiare
anche la più modesta delle solitudini è fonte di infinite
disgrazie, tutte rubricabili alla voce effetto-farfalla. Se le
perone, cioè, stessero un po' più spesso a casa propria, il numero
delle disgrazie che, ad oggi, affliggono l'umanità, risulterebbe
ridotto di molto. È una tesi che da ragione più alla saggezza
popolare e al grande Maestro Mimmo Rapetto che alle scienze sociali, lo so.
Le donne vittime di violenza domestica – gesto che ha registrato
una drammatica impennata, durante la reclusione di questi mesi -,
certo non sarebbero d'accordo. Ma questa è un'altra storia.
C'è
poi tutto uno scoramento dovuto ai tanti, piccoli segnali che ogni
santo giorno giungono a confermare quanto meglio si stia, da soli, se
il livello di condivisione e di empatia è quello dato da un
radioascoltatore, giusto stamane, al filo diretto di Radio 3: “Chiamo
dalle Dolomiti, ma tendo a specificare che mi ritengo un cittadino
del mondo”. Cioè: in un pianeta in subbuglio, scosso da crisi
sociali, economiche, umanitarie e financo sanitarie; in una Europa
che, nella difficoltà, come istintiva reazione, ha chiuso molte
della sue frontiere; in un paese – il nostro – dove il
Coronavirus ha portato alla luce abissali – e, a mio parere,
insanabili - divisioni regionali, il nostro bravo connazionale – il
cui cervello, uno si aspetta, dovrebbe meglio di altri funzionare,
data la straordinaria qualità dell'aria delle Alpi Orientali – se
ne esce con una presa di posizione, sterile, anacronistica e banale
come quella riportata. E, uno, dove trova la forza, la positività,
per uscire di casa, nella speranza di poter fare due chiacchiere che
non siano assimilabili a questo infimo livello di riflessione?
Da
tempo, poi - sempre per portare acqua al mulino dell'isolazionismo -,
il costume civile della presentazione risulta letteralmente
scomparso, assente, spesso, anche nelle persone dalle quali ci si
aspetta di vederlo praticato. Ciò tradisce un certo tasso di
disillusione, penso, riguardo la sua effettiva utilità. Sotto sotto
molte persone sono convinte, e a ragione, dell'assoluta anonimità
della chiacchiera. Se un qualsiasi parere o presa di posizione è
assimilabile per banalità a milioni di altri, va da sé che è
inutile conoscere nome, cognome e biografia di chi se ne è fatto
latore. Risulterebbero, né più né meno, riconducibili e quelli dei
tanti Kevin e Sharon che abitano luoghi di lavoro, social
networks, gruppi chat e bar diurni del paese.
Ancora
pescando in quel lago prosciugato che è divenuto il bacino degli
ascoltatori di Radio 3, la rassegna-stampa di stamane ha riservato
due perle nere da collezione – con ricavato, beninteso, anch'esso
da devolvere alla causa sempre più nobile del voluntary
lockdown, la reclusione volontaria (per la mia
generazione, suonerà sempre meglio, se detto prima in quella lingua
morta che è, oggi, l'Inglese). A denunciare, oltre alla suddetta
trasformazione antropologica, la drammatica assenza di argomenti e
l'incapacità di giudizio (tratti che, ne converrete, non fungono
propriamente da stimolo nel facilitare i contatti umani) è giunto un
radioascoltatore che, scevro da ogni preoccupazione interpretativa
riguardo le drammatiche notizie lette poco prima del suo intervento,
ha bellamente chiesto, in diretta, al giornalista incaricato delle
conduzione settimanale: “Lei, in cosa crede?”. Un quesito che
poteva risultare esplosivo, in termini conoscitivi, se posto, ad
esempio, a Miles Davis, a Edward Snowden, a Chesley Sullenberger,
esistenze
straordinarie che stimolano la curiosità a conoscerne il pensiero al
di la dei rispettivi campi di eccellenza. Ma
certo non ad un giornalista, per quanto qualificato. Un simile quesito dice
tutto dello sconcertante disorientamento causato nelle persone da
questa epoca. Persone che si suppongono adulte, professionalmente in
carriera, magari investite da ruoli educativi (genitori ed
insegnanti) o di grande esperienza di vita (gli anziani). Chiedere in
cosa creda ad un perfetto sconosciuto quale è chiunque si appresti
ad una rassegna-stampa, sia essa radiofonica o televisiva, nella
veste di titolare o di ospite, sta a significare il vuoto spaventoso
nel quale brancolano le persone (le stesse, ricordiamolo, che saremmo
tenuti a frequentare per non cadere nel misantropismo). Lo chiedono
perché loro stesse, per prime, ignorano in cosa credano e se in
qualcosa sia possibile credere (tematiche fondamentali, certo, ma
alle quali la filosofia ha dato attente risposte essendovici
arrovellata fin dal suo nascere). Non dimentichiamo che, questo è
ancora un paese che si rivolge ai singoli giornalisti utilizzando
l'appellativo di dottore (e questa è l'altra perla). In una simile
scelta sta scritta tutta l'arretratezza culturale degli italiani, si
scorge il ragionier Fantozzi che abita in loro e che parla per
loro.
E
con simili presupposti, ditemi: dove lo trovo, io, l'entusiasmo per uscire?
Come
disse Giorgio Gaber, in tempi non sospetti, ad ammiratori che
intendevano attaccar bottone, avendolo visto al tavolo del ristorante
in compagnia di Paolo Villaggio: “Non intendiamo fare comunella.”.
Ecco.