martedì 2 giugno 2020

UNA COSA SERIA. La drammatica attualità di 'Full Metal Jacket'.


Matthew Modine nei panni di Soldato Joker.
Nel vuoto di senso crescente che caratterizza questa fase storica, imbattersi in colpi di genio – come è capitato ieri l'altro – è qualcosa che mi commuove. Tutto ciò connota il vostro umile estensore come un anziano, una persona che lentamente va perdendo il controllo sulla propria emotività e sul proprio corpo. Ma ben venga: voglio morire restando capace di provare qualcosa. E qualunque sentimento è buono, pur di mantenere uno status di dignità umana.
Stavo svolgendo un modesto lavoro di ricerca per un canovaccio radiofonico (sì: ho velleità autoriali), quando ho avuto necessità di visionare alcune sequenze tratte da Full Metal Jacket, il film di Stanley Kubrick del 1987, ed altre ancora da, invece, Stanley Kubrick: A Life In Pictures, documentario voluto e diretto da Jan Harlan, storico produttore dei film del grande regista statunitense, e caratterizzato dalla vera e propria perla che è la narrazione fuori campo affidata a Tom Cruise (è una visione che, naturalmente, consiglio a tutti, per ritrovare la giusta misura di cosa sia davvero un grande talento, un genio, in un tempo dove si tende a riconoscere come tali persone, in realtà, senza arte né parte).
Sono settimane che, causa reclusione da Coronavirus, mi tocca sorbire il pippotto delle stazioni Mediaset sull'attendibilità della loro informazione ("Le notizie sono una cosa seria. Fidati dei professionisti dell`informazione. Scegli gli editori responsabili, gli editori veri. Scegli la serietà."). Ora, non mi dilungherò, sull'argomento. Come venne giustamente specificato al tempo dell'uscita di Videocracy – Basta Apparire, di Erik Gandini (era il 2009), se ancora, i cittadini italiani, di fronte ad un simile messaggio, necessitano di spiegazioni, ciò significa semplicemente che il danno non solo è fatto, ma persino irreversibile.
Ed è così, quindi, che, come specificato in apertura, mi sono trovato con gli occhi lucidi, quando ho avuto davanti a me, in tutta la sua magnificenza, la sequenza dove i soldati protagonisti del film vengono intervistati dalla troupe dell'esercito nel bel mezzo della battaglia di Hue, e il grande Kubrick decide di includere nell'inquadratura, come fosse un personaggio a sé, la telecamera che insiste sugli intervistati in maniera che si potrebbe dire minacciosa. Venne realizzata sul finire del 1986, cioè in tempi non sospetti, quando tutti, tranne forse Orson Wells, eravamo persuasi della bontà dell'informazione che ci veniva somministrata, della sua assoluta imparzialità come dell'etica da cui muoveva. Eravamo a otto anni da The Truman Show e a quattordici da Grande Fratello, e già questo genio immortale ci stava educatamente, sottilmente mettendo in guardia dal pericolo della propaganda televisiva, dalla possibilità di una deformazione pressoché integrale della notizia come della realtà. Si potrebbe persino dire che con quell'ennesimo colpo di genio anticipò il discorso sul potere ipnotico, persuasivo, e tossicomaniacale dell'informazione che, dieci anni più tardi, sarà la colonna portante del romanzo di un suo pari: Infinite Jest, di David Foster Wallace.
First to go – Last to know. We will defend to the death your right to be misinformed”, recita uno striscione nella sequenza della riunione di redazione. Un Inglese intenzionalmente bizzarro, quello impiegato, che, con un po' di coraggio, può essere tradotto, per quelle capre ignoranti che sono ormai gli italiani, come segue: i primi a muoversi, gli ultimi a sapere, difenderemo alla morte il vostro diritto ad essere disinformati.
Rattristano, i tanti travisamenti dei quali è stata oggetto la pellicola nel nostro paese come, va riconosciuto, in molti altri. È un Vietnam-movie, non è realistico, non è storicamente corretto, è ridicolo, sul fronte le cose non andavano così e via di questo passo. Il messaggio a riguardo di propaganda e manipolazione mediatica, invece – solo uno dei tanti contenuti nel film –, sembra sistematicamente passare inosservato.
Può ben essere che l'inconscio italico, a fronte della vergognosa accettazione del verbo televisivo berlusconiano, ormai lunga di oltre 30'anni, abbia operato una tutto sommato sana rimozione, e non si renda quindi conto del livello di acritica, supina sottomissione alla notizia – la news – al quale è in realtà sceso.
L'opinione pubblica è esattamente come il soldato Joker: partito alla ricerca della verità – il più nobile dei tentativi di approdo al senso della vita -, fa ritorno dal fronte in una muta disumana, irriconoscibile.
È la nota più dolente di questo film immortale.
Ma non più dolente della stupidità, della violenza, dell'assenza di empatia e della sostanziale incapacità di amare oggi circolanti.

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