martedì 9 giugno 2020

TRISTE, SOLITARIO Y FINAL. La difficoltà di rapportarsi agli altri.


Il miglior amico dell'uomo: Charlie Brown.
Mia moglie, psicoterapeuta dal cuore grande, sostiene che, con molta probabilità, io sia un solitario mascherato. Tesi tutt'altra che balzana, considerato quanto - specie dopo i recenti assestamenti sociali post-lockdown -, sempre più, io, fatichi a trovarmi a mio agio con le persone (“Alcuni si trovano meglio con gli animali, non sono uomini della ragione”, cantava Morgan ne Lo Psicopatico). Molto meglio passare il tempo al computer tentando di scrivere qualcosa di decente per questo blog – che penso rappresenti abbastanza fedelmente buona parte di luci ed ombre della mia persona.
Da un lato, la manifesta incapacità dell'uomo moderno nel fronteggiare anche la più modesta delle solitudini è fonte di infinite disgrazie, tutte rubricabili alla voce effetto-farfalla. Se le perone, cioè, stessero un po' più spesso a casa propria, il numero delle disgrazie che, ad oggi, affliggono l'umanità, risulterebbe ridotto di molto. È una tesi che da ragione più alla saggezza popolare e al grande Maestro Mimmo Rapetto che alle scienze sociali, lo so. Le donne vittime di violenza domestica – gesto che ha registrato una drammatica impennata, durante la reclusione di questi mesi -, certo non sarebbero d'accordo. Ma questa è un'altra storia.
C'è poi tutto uno scoramento dovuto ai tanti, piccoli segnali che ogni santo giorno giungono a confermare quanto meglio si stia, da soli, se il livello di condivisione e di empatia è quello dato da un radioascoltatore, giusto stamane, al filo diretto di Radio 3: “Chiamo dalle Dolomiti, ma tendo a specificare che mi ritengo un cittadino del mondo”. Cioè: in un pianeta in subbuglio, scosso da crisi sociali, economiche, umanitarie e financo sanitarie; in una Europa che, nella difficoltà, come istintiva reazione, ha chiuso molte della sue frontiere; in un paese – il nostro – dove il Coronavirus ha portato alla luce abissali – e, a mio parere, insanabili - divisioni regionali, il nostro bravo connazionale – il cui cervello, uno si aspetta, dovrebbe meglio di altri funzionare, data la straordinaria qualità dell'aria delle Alpi Orientali – se ne esce con una presa di posizione, sterile, anacronistica e banale come quella riportata. E, uno, dove trova la forza, la positività, per uscire di casa, nella speranza di poter fare due chiacchiere che non siano assimilabili a questo infimo livello di riflessione?
Da tempo, poi - sempre per portare acqua al mulino dell'isolazionismo -, il costume civile della presentazione risulta letteralmente scomparso, assente, spesso, anche nelle persone dalle quali ci si aspetta di vederlo praticato. Ciò tradisce un certo tasso di disillusione, penso, riguardo la sua effettiva utilità. Sotto sotto molte persone sono convinte, e a ragione, dell'assoluta anonimità della chiacchiera. Se un qualsiasi parere o presa di posizione è assimilabile per banalità a milioni di altri, va da sé che è inutile conoscere nome, cognome e biografia di chi se ne è fatto latore. Risulterebbero, né più né meno, riconducibili e quelli dei tanti Kevin e Sharon che abitano luoghi di lavoro, social networks, gruppi chat e bar diurni del paese.
Ancora pescando in quel lago prosciugato che è divenuto il bacino degli ascoltatori di Radio 3, la rassegna-stampa di stamane ha riservato due perle nere da collezione – con ricavato, beninteso, anch'esso da devolvere alla causa sempre più nobile del voluntary lockdown, la reclusione volontaria (per la mia generazione, suonerà sempre meglio, se detto prima in quella lingua morta che è, oggi, l'Inglese). A denunciare, oltre alla suddetta trasformazione antropologica, la drammatica assenza di argomenti e l'incapacità di giudizio (tratti che, ne converrete, non fungono propriamente da stimolo nel facilitare i contatti umani) è giunto un radioascoltatore che, scevro da ogni preoccupazione interpretativa riguardo le drammatiche notizie lette poco prima del suo intervento, ha bellamente chiesto, in diretta, al giornalista incaricato delle conduzione settimanale: “Lei, in cosa crede?”. Un quesito che poteva risultare esplosivo, in termini conoscitivi, se posto, ad esempio, a Miles Davis, a Edward Snowden, a Chesley Sullenberger, esistenze straordinarie che stimolano la curiosità a conoscerne il pensiero al di la dei rispettivi campi di eccellenza. Ma certo non ad un giornalista, per quanto qualificato. Un simile quesito dice tutto dello sconcertante disorientamento causato nelle persone da questa epoca. Persone che si suppongono adulte, professionalmente in carriera, magari investite da ruoli educativi (genitori ed insegnanti) o di grande esperienza di vita (gli anziani). Chiedere in cosa creda ad un perfetto sconosciuto quale è chiunque si appresti ad una rassegna-stampa, sia essa radiofonica o televisiva, nella veste di titolare o di ospite, sta a significare il vuoto spaventoso nel quale brancolano le persone (le stesse, ricordiamolo, che saremmo tenuti a frequentare per non cadere nel misantropismo). Lo chiedono perché loro stesse, per prime, ignorano in cosa credano e se in qualcosa sia possibile credere (tematiche fondamentali, certo, ma alle quali la filosofia ha dato attente risposte essendovici arrovellata fin dal suo nascere). Non dimentichiamo che, questo è ancora un paese che si rivolge ai singoli giornalisti utilizzando l'appellativo di dottore (e questa è l'altra perla). In una simile scelta sta scritta tutta l'arretratezza culturale degli italiani, si scorge il ragionier Fantozzi che abita in loro e che parla per loro.
E con simili presupposti, ditemi: dove lo trovo, io, l'entusiasmo per uscire?
Come disse Giorgio Gaber, in tempi non sospetti, ad ammiratori che intendevano attaccar bottone, avendolo visto al tavolo del ristorante in compagnia di Paolo Villaggio: “Non intendiamo fare comunella.”.
Ecco.

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