Il nuovo calendario di Padre Pio. |
venerdì 22 maggio 2020
IT'S HIS OWN LIFE. L'ingloriosa fine di Bon Jovi.
giovedì 21 maggio 2020
ZABRISKIE POINT-ARONA. Il viaggio esistenziale di Anton Corbjin.
Dave Gahan ed Ippolita Santarelli ad Arona, nel 1987. |
Più che un pioniere del video musicale, Anton Corbjin è stato tra i primi registi ad impiegare in questo nuovo media contenuti autorali, intendendo con ciò quelle soluzioni tecniche e stilitiche che, già parte del vocabolario cinematografico, nell'incontro con la musica di artisti giovani e talentuosi come quelli per i quali il fotografo olandese ha lavorato fin dagli esordi, assumevano nuovi significati legati alla contemporaneità.
Passa gli anni '80 nel settore, realizzando per Echo & The Bunnymen e Depeche Mode, due cioè dei gruppi più vitali e creativi della scena britannica post-punk, videoclips di pregevolissima fattura, più qulche lavoro occasionale per David Sylvian e Nick Cave. Nella veste di fotografo, si rende autore di scatti epocali tra i quali spicca, senza ombra di dubbio, quello per la copertina di The Joshua Tree, degli U2.
E proprio da qui intendo partire per raccontare, in breve, questo aneddoto - passatomi per caso dall'amico Fabrizio, e meritevole di essere tramandato per la sua eccezionalità.
La fascinazione di Corbjin per il rizoma vegetale e le conseguenti implicazioni filosofiche è manifesta e ricorrente nell'anno che va tra il dicembre del 1986 - quando ritrae gli U2 nel deserto del Mojave - e quello successivo, arco di tempo che, tra primavera ed estate, gli permette di immortalare il cantante Dave Gahan e l'attrice italiana Ippolita Santarelli sotto il vecchio platano di Corso Marconi, ad Arona, per il videoclip di Behind The Wheel, vero e proprio sequel di Never Let Me Down Again, girato invece nelle lande della Danimarca per mano dello stesso Corbjin (particolare che fa di Music For The Masses qualcosa di abbastanza simile ad un concept-album, ma questa è un'altra storia). Nel fotogramma-icona del video, è facilmente riconoscibile, per chi, come me, vi è cresciuto e per coloro che hanno familiarità con il Lago Maggiore, l'incantevole tratto di costa che fronteggia il castello di Angera.
Ho dovuto attendere il 50'esimo compleanno, per venire a conoscenza di un evento che ha visto protagonista la nostra città e del quale nessuno sembra avere mai parlato. Senza polemica alcuna, mi chiedo persino se qualcuno se ne sia quanto meno accorto. I Depeche Mode erano già, al tempo, un gruppo famoso a livello internazionale, ed Anton Corbjin il fotografo che aveva lanciato gli U2 in un immaginario mitico e leggendario che avrebbe segnato per sempre la loro carriera. Per quanto sobrio lo si possa immaginare, in termini di produzione, vi sarà stato un minimo di trambusto, all'arrivo della troupe, come tutti coloro che si interessano a cinema e fotografia ben sanno. Potrebbero bene aver girato la breve sequenza alle prime ore del mattino, e questo spiegherebbe l'invisibilità che l'evento ha mantenuto limitatamente alla cittadinanza (i siti web dei fans più famelici, presentano il dato come acquisito da tempo). O, ancora, potrebbero aver fatto leva su di un provincialismo dato per certo, in grado di garantire loro la stessa indifferenza tributata ai servizi fotografici dei matrimoni. Si ricordano sagre, mercati, apparizioni fugaci di politici, stelle del cinema e dello sport, bravate di varia natura e persino incidenti stradali, esondazioni, calamità naturali varie, ma nulla - dico, nulla - che riporti questo particolare evento.
Quello, per Corbjin, era solo l'inizio di una carriera che, per l'intero decennio successivo, avrebbe dato vita alle immagini più rappresentative ed influenti dell'era moderna. Un sguardo oscuro il cui fine era proprio l'emersione dell'ombra di coloro che, va riconosciuto, ebbero il coraggio di esporsi di fronte al suo obiettivo come alla macchina da presa. Un percorso artistico che culminerà, nel 2007, nel bellissimo e straziante suo primo lungometraggio: Control.
Mi piace pensare che un artista di questa levatura sia riuscito, in tempi non sospetti, a cogliere, di questa incantevole sponda (il nostro patrimonio più prezioso), luci ed ombre che non fossero quelle di passeggiate con gelato od aperitivi vista-lago.
Che abbia voluto associare questo panorama ad un brano che parla di abbandono, dovrebbe fare riflettere - e, penso, inorgoglire - noi aronesi.
E proprio da qui intendo partire per raccontare, in breve, questo aneddoto - passatomi per caso dall'amico Fabrizio, e meritevole di essere tramandato per la sua eccezionalità.
La fascinazione di Corbjin per il rizoma vegetale e le conseguenti implicazioni filosofiche è manifesta e ricorrente nell'anno che va tra il dicembre del 1986 - quando ritrae gli U2 nel deserto del Mojave - e quello successivo, arco di tempo che, tra primavera ed estate, gli permette di immortalare il cantante Dave Gahan e l'attrice italiana Ippolita Santarelli sotto il vecchio platano di Corso Marconi, ad Arona, per il videoclip di Behind The Wheel, vero e proprio sequel di Never Let Me Down Again, girato invece nelle lande della Danimarca per mano dello stesso Corbjin (particolare che fa di Music For The Masses qualcosa di abbastanza simile ad un concept-album, ma questa è un'altra storia). Nel fotogramma-icona del video, è facilmente riconoscibile, per chi, come me, vi è cresciuto e per coloro che hanno familiarità con il Lago Maggiore, l'incantevole tratto di costa che fronteggia il castello di Angera.
Ho dovuto attendere il 50'esimo compleanno, per venire a conoscenza di un evento che ha visto protagonista la nostra città e del quale nessuno sembra avere mai parlato. Senza polemica alcuna, mi chiedo persino se qualcuno se ne sia quanto meno accorto. I Depeche Mode erano già, al tempo, un gruppo famoso a livello internazionale, ed Anton Corbjin il fotografo che aveva lanciato gli U2 in un immaginario mitico e leggendario che avrebbe segnato per sempre la loro carriera. Per quanto sobrio lo si possa immaginare, in termini di produzione, vi sarà stato un minimo di trambusto, all'arrivo della troupe, come tutti coloro che si interessano a cinema e fotografia ben sanno. Potrebbero bene aver girato la breve sequenza alle prime ore del mattino, e questo spiegherebbe l'invisibilità che l'evento ha mantenuto limitatamente alla cittadinanza (i siti web dei fans più famelici, presentano il dato come acquisito da tempo). O, ancora, potrebbero aver fatto leva su di un provincialismo dato per certo, in grado di garantire loro la stessa indifferenza tributata ai servizi fotografici dei matrimoni. Si ricordano sagre, mercati, apparizioni fugaci di politici, stelle del cinema e dello sport, bravate di varia natura e persino incidenti stradali, esondazioni, calamità naturali varie, ma nulla - dico, nulla - che riporti questo particolare evento.
Quello, per Corbjin, era solo l'inizio di una carriera che, per l'intero decennio successivo, avrebbe dato vita alle immagini più rappresentative ed influenti dell'era moderna. Un sguardo oscuro il cui fine era proprio l'emersione dell'ombra di coloro che, va riconosciuto, ebbero il coraggio di esporsi di fronte al suo obiettivo come alla macchina da presa. Un percorso artistico che culminerà, nel 2007, nel bellissimo e straziante suo primo lungometraggio: Control.
Mi piace pensare che un artista di questa levatura sia riuscito, in tempi non sospetti, a cogliere, di questa incantevole sponda (il nostro patrimonio più prezioso), luci ed ombre che non fossero quelle di passeggiate con gelato od aperitivi vista-lago.
Che abbia voluto associare questo panorama ad un brano che parla di abbandono, dovrebbe fare riflettere - e, penso, inorgoglire - noi aronesi.
martedì 19 maggio 2020
MEN IN BLACK. Quando Mike Bongiorno intervistò i Depeche Mode.
Mike Bongiorno ed alcuni ripetenti inglesi nel 1983. |
Premesso
che, di questi tempi, niente e nessuno può più vantare una status
di sacralità, di intoccabilità, di esenzione dalla critica o dal
giudizio - sempre, beninteso, che coloro che intendono violare queste
condizioni, un tempo dettate dalla tradizione e oggi semplicemente
decadute, se ne assumano la piena responsabilità (“Chi è senza
peccato, scagli la prima pietra.”, Giovanni 8,3).
L'emergenza
per il Coronavirus ha definitivamente spento in me ogni traccia di
quello che ero fino a non molto tempo fa: una persona che, cresciuta
in una casa dove il capofamiglia ogni santo giorno leggeva il
Corriere della Sera dalla prima all'ultima pagina necrologi inclusi,
ha creduto a proprie spese negli pseudovalori della modernità quali
l'informazione e la rassegna-stampa (che è come dire la serie e il
suo spin-off). Oggi la quotidianità mi sembra così meschina,
inutile, priva di stimoli, da permettermi serenamente di ignorarla.
“Too much information”, cantavano i Duran Duran nel loro disco
più bello (e lo era veramente).
E
così eccomi a vagare tra libri già letti, dischi già ascoltati,
film già visti. Tutto pregevole, sia chiaro. Ma tutto nel regno del
déjà entendu. Con un'unica eccezione: i milioni di video di
repertorio presenti su You Tube.
In
passato, gli storici, dai più modesti ai più autorevoli,
risiedevano più o meno stabilmente, per motivi professionali
all'interno di biblioteche, archivi, fondazioni, istituti privati o
di stato, uniche menti in grado di unire in maniera intrinsecamente
coerente la mole spesso straordinaria dei documenti custoditi dalle
istituzioni citate. La storia che è stata impartita alla mia
generazione (1970) è, in parte, frutto di quel tipo di attività
storiografica.
Oggi,
come molti di noi ben sanno, la storia ha, nelle persone, un peso ed
una prospettiva ben diversi: la storia di cui ci nutriamo è infatti
una storia mediata (filtrata, cioè, dai media, televisione e
rete, in primis).
Può
risultare sconcertante, ma per ciò che riguarda il costume, per
quanto inconsciamente, siamo molto più influenzati da quella che è
stata l'opera – chiamiamola così – di un Mike Bongiorno che da
quella di un Italo Calvino (giusto per citare un nome che si pensa
culturalmente influente).
Un
esempio? Ecco qui.
Nel
lontano 1982, l'anchorman più celebre d'Italia era titolare
di un gioco a premi prodotto e trasmesso da Canale 5, che molti forse
ricorderanno per il titolo dalla grande presa emotiva: Superflash.
Era il tentativo - riuscitissimo – di espropriare la RAI del
monopolio trasmissivo e produttivo, offrendo agli italiani
televisivamente imberbi - ma già preda di un insidioso analfabetismo
di ritorno - un polpettone fatto di attualità, cultura generale e
spettacolo. Nel 1983, gli autori del programma invitarono alla
trasmissione i Depeche Mode, giovanissimi e ancora sconosciuti, in
Italia. Ma già il quartetto che di lì al 1996, cioè tredici anni
più tardi, non avrebbe sbagliato un disco. Dopo l'esibizione,
rigorosamente in playback come era d'uso nella televisione
italiana dell'epoca, i quattro, timidissimi ed ignari di quanto sta
per accadere loro, vengono dati in pasto al Mike nazionale per
l'intervista di rito. Dati l'evidente gap generazionale e la
sostanziale mancanza di seguito nel paese, Mike opta per il
trattamento 'bimbiminkia'. In sequenza: si prende gioco della parlata
di Dave (“Dave. Davide. Lui lo dice con un po' di accento.”);
libera la propria omofobia chiedendo a Martin se è un ragazzo o una
ragazza (“Are you a boy or a girl?”), salvo ritrattare (“I was
kidding.”); si prende gioco della pettinatura di Andy (“Sembra
Stanlio.”); elegge Dave a portavoce del gruppo, dando degli
ignoranti agli altri tre (“Questo deve essere il ragazzo più
intelligente dei quattro.”); pone domande imbarazzanti (“Siete
ragazzi moderni, ma vi vestite di nero – che è tanto triste. Why
don't you wear red, yellow, green?”) ed arriva financo a toccare
incuriosito i capelli di Dave, con fare da padre-padrone. Il tutto in
un misto imprevedibile di Inglese ed italiano che spiazza
completamente i quattro rendendoli impotenti di fronte a quello che,
suppongo, doveva essere apparso loro un anormale, e non un
presentatore. Gran finale: “Altre cose non hanno, da dire, perché
sono dei bravi ragazzi.”.
Cioè:
dei 20'enni che si presentano, negli anni '80, ad eseguire un brano
dal contenuto e dal suono di Everything Counts, per Bongiorno,
altre cose non avevano, da dire (al contrario, immaginiamo a questo punto, di
Bandolero con il suo Paris Latino od Irene Cara con What A
Feeling, fenomeni da baraccone probabilmente sottoterra già da
tempo e che proprio in quei giorni dominavano la Top 10
italica).
Ma
erano, appunto, gli anni '80, e simili atteggiamenti ancora non erano
entrati nel raggio d'azione del radar del
politicamente-corretto (e a giudicare da quel che si vede e si sente
oggi su certe emittenti, forse non vi sono davvero mai entrati).
È
tutto visionabile qui di seguito. Ognuno può farsi la propria
opinione. Ma, a costo di sentirmi dare del fascista, svengo al pensiero
che qualcuno possa radicalmente discostarsi dal giudizio appena espresso.
Siamo
sinceri. Senza voler giustificare chi si è reso artefice di momenti
altrettanto imbarazzanti: non è questa la nefasta influenza che ha
poi portato Adriano Celentano a trattare David Bowie da pari, Simona
Ventura a saltare addosso a quest'ultimo, Fabio Fazio a farsi dare
del Mr. Valium da Bono, Linus e Nicola Savino a rendersi ridicoli con i Duran Duran, Corrado Formigli a trattare Roger Waters da capo di stato e Daria Bignardi ad accogliere Marcello Dell'Utri come un premio Nobel, in una manifesta incapacità nazionale a condurre
interviste davvero pregnanti, fatte di domande che pongano in vera
luce i tanti artisti che pretendono il nostro ascolto più serio ed
impegnato? Gli storici del costume e della televisione che in futuro
affronteranno l'argomento di ciò che sono stati gli anni '80 in
Italia - qualcosa mi dice -, dovranno obbligatoriamente visionare, su You Tube o presso le stesse emittenti, questa
e molte altre figure barbine, e trarne le dovute conseguenze.
Agli
storici, quindi, l'ardua sentenza.
domenica 10 maggio 2020
HEAVY METAL. Musica per la terza età.
Insomma,
erano gli anni '80: “il peggior cazzo di decennio nella storia
dell'uomo”. (Lo avete visionato, The Dirt? Fatelo.).
Ma
oggi...
Essere
un fan
della musica heavy metal
nell'anno 2020 significa tradire una vecchiaia interiore non solo di
molto più deleteria rispetto a quella fisiologica, esteriore, ma
anche, in omaggio all'attualità, del Coronavirus - del quale si
parla oggi con la stessa frequenza che si impiegava per 'quelli di
San Babila' al tempo di Drive-In
-, oltre ad una
condizione mentale compromessa in termini di sviluppo,
irrecuperabile. Credere oggi in ostentazioni come il petto villoso,
il bicipite tatuato, il sudore perenne, il capello lungo, le urla in
falsetto, la chitarra come estensione del pene, l'assolo
obbligatorio, la fidanzata formato playmate,
il volume alto, il dito indice puntato in camera, le corna, il
satanismo prêt-à-porter,
la borchia e, insomma, tutto quell'apparato macho
da fare invidia persino a Freddy Mercury – che quanto ad
esteriorità non era certo a corto di espedienti –, significa
davvero essere 'fuori dal tempo', come gli iscritti al Partito
Comunista o a Comunione e Liberazione. Come chi celebra ogni anno la
marcia su Roma e crede che se ci fosse ancora Mussolini tutto
funzionerebbe. O come quegli incancreniti che periodicamente si
sentono in dovere di ricordare noi che “i gruppi di una volta non
ci sono più” (letteralmente, anche perché in alcuni casi
specifici, decessi multipli sono stati registrati all'interno della
formazione).
La
musica heavy metal - ed il fenomeno di costume che ne fece da
corollario - ebbe in effetti questa specifica funzione: opporsi
strenuamente a tutto quel proliferare di sintetizzatori, leggins,
giacche con spalline, spolverini, mosse aerobiche, atteggiamenti
pseudoeccentrici e monopolio della fica che, sì, portò al successo
su scala planetaria intrattenitori vacui come Pet Shop Boys, Culture
Club, Spandau Ballet, Duran Duran, Spin Doctors, Visage e compagnia
bella, gruppi il cui ricordo suscita ancora un imbarazzo a volte
isterico; ma anche Depeche Mode, U2, The Cure, P.I.L., The Smiths,
formazioni che, proprio negli anni '80 produssero dischi dallo stile
e dal suono arditi e innovativi, lavori che avrebbero avuto
un'influenza forte su alcune delle migliori formazioni del decennio
successivo (si pensi, solo per citarne alcuni, a Nine Inch Nails,
Radiohead e Blur), e che proprio i metallari bellamente ignoravano,
quando non addirittura disprezzavano, sebbene non ne avessero
ascoltato, in realtà, una sola nota (era una dinamica da scontro
tribale: non aveva importanza, la sostanza delle cose, ma la loro
provenienza, se da una determinata compagine o da un'altra).
(Consiglio a tutti coloro che intendano davvero dotarsi di una visione di quello che fu effettivamente il movimento heavy metal, il film Lords Of Chaos di Jonas Åkerlund, che, sebbene ambientato nei primi anni '90, ben rappresenta le aberrazioni prodotte dagli abusi del decennio precedente.).
Rivendicare
oggi lo heavy metal per quello che sarebbe tutto il suo
portato galvanizzante, sia in termini estetici che testuali –
diciamo così: filosofici -, denota una sordità, da parte di coloro
che ne assumono l'azione, che non interessa solo l'apparato uditivo,
ma anche, per estensione, il cuore e l'anima. Essere sordi, per i
motivi appena citati, a brani quali A Day Without Me, Shake
Dog Shake, Never Let Me Down Again, How Soon Is Now,
Rise, solo per citarne alcuni, significa privarsi di alcuni
tra prodotti artistici più interessanti e profondi di quel decennio
da tutti conteso e rivendicato che fu la decade '80-'90. I brani
appena elencati, vennero prodotti con grande sprezzo per industria
discografica, cioè contro il parere di quei produttori che proprio
allora vedevano nello heavy metal una nuova, ricca miniera
d'oro da sfruttare fino all'ultima pepita, e che allo stile di quelle
canzoni avrebbero sicuro preferito un prodotto più vicino a quelli
di Madonna o, per convenienza commerciale, Iron Maiden
(ufficialmente, gli sdoganatori del genere).
Non
è sufficientemente galvanizzante, l'esempio di chi ebbe il coraggio
di “dire quei 'No!' che, oggi più che ieri, sono imprescindibili”?
Fu
quando compresi tutto ciò che smisi di essere un metallaro.
P.S. La bellissima citazione tra virgolette in chiusura, è di Wu Ming I.
P.S. La bellissima citazione tra virgolette in chiusura, è di Wu Ming I.
sabato 2 maggio 2020
ESPERIENZE RELIGIOSE AL BAR MARIO. Radio Freccia alla ricerca dell''endorsement' culturale.
Un genio dal cuore grande:David Foster Wallace (1962-2008) |
Radio
Freccia nasce nel 2016 sulle ceneri di Radio Padania Libera, dopo che
il 'direttore' di quest'ultima (l'Onorevole Matteo Salvini) ed il suo
'staff di specialisti' (uno spedizioniere di Lambrate e il di
questo cugino), realizzato (momento di rara lucidità) che gli
ascolti erano 'un po' giù' (praticamente me e gli iscritti alla
Lega, ma non tutti) ne immisero le frequenze sul mercato.
Radio
Freccia si ispira, almeno nelle intenzioni, all'atteggiamento
piacevolmente anarchico delle cosiddette radio libere che
caratterizzarono l'etere nazionale nella seconda metà degli anni
'70. Nello specifico, all'estetica di quel tempo come
sorprendentemente messa in scena nel film omonimo di Luciano Ligabue,
risalente, ormai, a ben 22 anni fa (non un capolavoro, sia chiaro, ma
neanche una prova deludente ed imbarazzante quale fu, poi, sull'onda
dell'entusiasmo per i buoni risultati del film d'esordio, Da Zero A
Dieci). I punti fermi dell'emittente sono, quindi: una rivendicata,
anacronistica libertà di parola, un repertorio in linea, quanto più
possibile, con quello dei '70, e un comparto di conduttori
particolarmente ciarliero. Fin qui, nessun problema. È come leggere
l'etichetta dei prodotti del supermercato e trovarvi corrispondenza
all'assaggio. Non fosse che, ieri l'altro (29 aprile), uno dei
conduttori, rispondente all'ambiguo nome d'arte di Nessuno, ha
cercato, penso inconsciamente, l'endorsement culturale (di
chi, poi, non si sa) citando, malamente, David Foster Wallace, e pure
invitando gli ascoltatori a leggerne un titolo specifico (Roger
Federer Come Esperienza Religiosa). A motivare cotanta proposta, la
banale, fortuita corrispondenza tra il giorno della messa in onda del
programma (Terra di Nessuno), il compleanno dell'ex campione di
tennis Andre Agassi e la scoperta – si ignora se da parte di
Nessuno o da quella della redazione - della grande passione che lo
scrittore statunitense nutriva per questo sport. Ciliegina sulla
torta: l'invito da parte del conduttore ad affiancare il testo di
Foster Wallace a quello autobiografico del sopracitato Agassi, Open, in un involuto esperimento di letteratura comparata.
Ciliegina che, purtroppo per gli autori dell'emittente – ammesso che ve ne siano –, si è subito trasformata in buccia di banana. Vero e
proprio fagocitatore di libri, Foster Wallace aveva ammesso che, di
questo tipo di pubblicazione - ”l'autobiografia di
un-campione-«con»-qualcuno”
- ne aveva “comprati e letti a bizzeffe”, ma sempre “mettendoli
sotto qualcosa di più intellettuale” quando andava alla cassa. Li
trovava “ambivalenti e imbarazzanti”, per quanto spesso
risultavano scritti male, dichiarando persino che la lettura di
quella del suo idolo, la tennista statunitense Tracy Austin, aveva,
per i succitati motivi, “definitivamente estinto” la sua passione
per il genere. Potete trovare tutto questo nella raccolta Considera
L'Aragosta, insieme ad altri scritti di così alto livello da restare
a bocca aperta. Che Open sia successivo alla scomparsa di Foster Wallace, non cambia di una virgola queste considerazioni.
Sono
certo che Foster Wallace non sarebbe esattamente a proprio agio nello
scoprire che uno come me ha preso le sue difese. Sono stato uno
studente mediocre; ho sviluppato l'abitudine alla lettura e alla
scrittura solo in età adulta; non sono andato all'università; non
ho mai praticato il tennis; sono venuto a conoscenza degli effetti
devastanti della depressione solo dopo aver sposato una
psicoterapeuta, ed ho letto la sua opera quando già si era impiccato
da tempo. Ma questo sporco lavoro, qualcuno dovrà pur farlo –
visto che certe sparate rimangono puntualmente impunite.
Quello
che mi ha dato fastidio, nell'imbattermi in un consiglio di lettura
così strabico, è stato non tanto il livello della proposta (non c'è
motivo di adirarsi di fronte ad una proposta 'alta', specie se fatta
con autentica passione di lettore) quanto il contesto che l'ha
partorita. Basta un ascolto casuale dell'emittente per rendersi conto
che la lingua ed i temi del giorno (a volte persino assenti,
sostituiti da quel chiacchiericcio che proprio Foster Wallace aveva
rinominato come 'fuffa') non sono esattamente una priorità. Refusi
grammaticali e sintattici, solecismi, vocabolario basic, frequente
afasia, abuso dell'onomatopea, dosi pesanti di metano linguistico. Da parte della conduzione come degli
ascoltatori (una sola eccezione: la presenza in squadra di Roberto Pedicini, alias Bob Revenant, voce che ha reso ancor più straordinari alcuni dei film più belli degli ultimi 25 anni). Foster Wallace – è utile ricordarlo – era un genio
dal cuore grande, ma pur sempre un secchione dagli ottimi voti, a partire dalle
elementari fino al dottorato, figlio di insegnanti e, a sua volta,
professore di letteratura. Un integralista della lingua, quasi un
ossessivo, attentissimo nella scelta delle parole come dei temi - sempre partendo dal
presupposto che si debba aprire bocca solo avendo chiara l'urgenza
dentro di sé di qualcosa da dire. Uno scrittore che poco dopo i
30'anni aveva realizzato uno dei libri più importanti e straordinari di
sempre.
Ecco.
Vivere di sciatteria linguistica, perché più facile, easy,
poco impegnativo; impiegare il lessico da Bar Mario dell'autore di Radio Freccia per rivolgersi ad una audience che quella lingua solo parla e conosce, ma poi citare e financo consigliare Foster Wallace perché 'fa figo', è presuntuoso, urticante ed
inaccettabile.
martedì 28 aprile 2020
FUORI DAL TEMPO. Dario Brunori canta O Bella Ciao.
Dario Brunori prova i canti per la messa delle 10:00. |
Brunori
sa! È financo sancito dal titolo del programma televisivo
dedicatogli, un po' di tempo fa, da Rai 3 (ma va da sé che, ormai, a
Rai 3, basta l'inchino alle persone giuste – giuste per il momento,
beninteso – e le sue porte si spalancano come per magia, vedi il
caso Recalcati). Sa così tante cose, Brunori, che ieri l'altro, 25
aprile, una volta svegliatosi, ha realizzato subito quale era, quella
giusta da fare: strimpellare O Bella Ciao in diretta streaming
(me lo si lasci dire: una delle canzoni più tristi e deprimenti mai
sentite, roba che, al confronto, i primi Cure erano degli allegroni).
Un bel messaggio in codice che, se va bene, garantirà al nostro un
futuro di facili contratti – magari propiziati dagli amici del
'terzo canale'.
In
verità, Brunori non sa un cazzo. Non sa niente di niente. Fidatevi
di me. Brunori non è il guru che certi intellettuali danno a
credere: Brunori è uno skipper, un talento innato, cioè, nel
capire alla prima annusata la direzione del vento per la giornata
odierna. Quelli come Brunori si ispirano - o, quanto meno così
vogliono farci credere - ai valori di coloro che fecero la Resistenza
(breve ripasso: un gruppo numericamente modesto di patrioti divenuto
massa, sul finire della guerra, quando i più capirono che 'quei
pochi' – i partigiani – stavano arrivando con i 'i tanti' – gli
alleati – seriamente intenzionati, gli uni di concerto con gli
altri, a regolare i conti una volta per tutte). In quale modo i
valori del 1945 si adattino, secondo le logiche brunoriane, ai tempi
odierni, non è dato capire (nel video, il nostro, non spiffera parola). Primo perché i giornalisti deputati a ciò (vedi alla voce
'critici musicali') se ne guardano bene dal chiederlo - sia mai che
salti loro il posto, per cotanto azzardo. Secondo perché, da parte
dei pochi coraggiosi rimasti nella categoria, c'è la quasi assoluta
certezza che la risposta eventuale ad un simile quesito sarebbe un
verso di O Bella Ciao, magari con corredo di strimpellata di
chitarra, o, peggio, qualche fumosa risposta, tutta da interpretare.
Qualcosa di simile alla scena spassosissima de La Grande Bellezza,
quando il protagonista, Jep, intervista la performer Talia
Concept chiedendole di spiegare la propria arte, senza ottenere
alcunché. “Senta... Io di lei, finora, ho solo fuffa non
pubblicabile. Se lei pensa che io mi lasci abbindolare da cose tipo:
'io sono un'artista e non ho bisogno di spiegare' è fuori strada.”.
In un paese culturalmente diverso da quello in cui viviamo, questa
sarebbe la giusta risposta alle strimpellate in luogo di chiare prese
di posizione.
Nonostante
un mondo flagellato dalla pandemia, dallo spionaggio incondizionato,
dalla manipolazione dell'informazione, dalla disillusione pressoché
totale nei confronti della politica tutta, dalle guerre
intenzionalmente agite sui cilvili, dalla corruzione imperante, dagli
indici borsistici come termometro del benessere globale, dalle
diseguaglianze di ogni sorta, dall'analfabetismo di ritorno e dalla
morte per fame, ecco: la risposta di uno come Brunori, reputato mente
sopraffina e rappresentativo della sua generazione, è O Bella Ciao.
È la risposta a tutto di quelli come lui: vecchi, inadeguati, fuori
dal tempo. Ma, checché se ne dica, rappresentativi, più che della
generazione cui appartengono, del nulla di un paese che da 75 anni
festeggia come una vittoria il giorno nel quale perdette la guerra.
Cantano le gesta di patrioti che erano, presumibilmente, quanto di
più lontano vi sia, stilisticamente ed eticamente, da soggetti come
Brunori (che, a giudicare da certi discorsi che si sentono
oggigiorno, non sono pochi). Ignorano – o fingono di ignorare -
quasi del tutto le opere e le parole di uomini e donne straordinari
quali Edward Snowden, Laura Poitras, James Natchwey, Daniel
Baremboim, Bruce Dickinson, Sebastião Salgado, Chesley Sullenberger,
Mohamed Ben Kilani, Johnny Greenwood, Ken Loach, Gherardo Colombo e
molti, molti altri.
Ha
ragione Michele Monina, che di Brunori ha scritto: “Sentire brani
che sembrano provini, per come suonano e per come sono composti,
infastidisce. Si capisce che sarebbero potuti diventare altro,
decisamente meglio, e che invece no, ci si è fermati subito, perché
tanto si è naif, va bene così.”.
Questo
è l'indie, in Italia. Un'opportunità come un'altra per
godere di visibilità e delle sue supposte benefiche conseguenze.
L'arte
al servizio del principe.
Come
sempre.
sabato 25 aprile 2020
TU SÌ QUE VALES! Il talento di Morgan rimosso dall'invidia.
Morgan nel videoclip di Sono=Sono. |
Quando
penso a Marco 'Morgan' Castoldi, l'immagine che sempre mi si presenta
è quella di una persona sofferta, devastata dagli eventi della vita,
ma soprattutto di un talento cui è sfuggito – pare definitivamente
– il controllo. Un talentuoso divenuto, suo malgrado, la caricatura di
se stesso, e che, ad oggi, fa parlare di sé più per motivi di
costume che per la propria arte.
Eppure
non è stato sempre così (urge ricordarlo, in quanto la sua
prima incarnazione artistica, come leader dei cerebralmente
morti Bluvertigo, sembra completamente dimenticata, a favore di quella ultima, tardo maudit).
Detto per
i tanti 'banfoni' o 'sboroni' – a seconda del posizionamento
longitudinale sulla penisola –, e che stagionalmente, da decenni,
si riempiono la bocca di elogi sperticati per i grandi dischi della storia del rock, senza cognizione di causa alcuna
(spaziando
spudoratamente dai primi Pink Floyd agli ultimi Metallica, come
fossero accostabili): Morgan è il nome – ed il nume – dietro uno
dei dischi più belli della musica italiana, e non solo, di tutti i tempi. Un lavoro
serenamente accostabile a The Dark Side Of The Moon, Low,
Black Celebration, Broken, Kid A e, per restare in casa,
Crueza De Mä e Anime Salve. Il suo titolo è Zero (Ovvero La Famosa
Nevicata Dell'85). Riascoltandolo in questi giorni di clausura, sono
rimasto sorpreso al constatare che il piacere e la meraviglia per
questo disco erano ancora quelli della prima volta.
Uscì
nell'ottobre del 1999. Un mese prima,Trent Reznor, con il suo
progetto Nine Inch Nails, aveva pubblicato The Fragile,
disco seminale nella storia della registrazione digitale, della
ricerca sonora e dell'elaborazione del suono. Soluzioni alle quali
Morgan e i suoi non potevano aver attinto per questioni cronologiche
(all'uscita di The Fragile,
Zero era praticamente già missato), ma che risultano tutte presenti
negli straordinari sedici brani del disco.
Zero
è quanto di meno scontato e provinciale si potesse sentire al tempo
– ma, a ben vedere, anche oggi, e questo dovrebbe far riflettere su
cosa, da allora, è stato effettivamente prodotto in Italia. Fu un
disco deludente sotto il profilo commerciale, perché rifiutava di
parlare alle pance non solo degli appassionati di musica italiana, ma
persino a quelle del proprio seguito - rivelatosi, in questo modo,
come il classico bacino desideroso di perpetuare all'infinito i
momenti cosiddetti belli, e, di fatto, ostacolo ad ogni movimento di crescita.
Portò in Italia un suono che non esisteva, tematiche che non
venivano affrontate, una commistione di generi e stili fino allora
sconosciuta, un'attenzione maniacale al dettaglio che si pensava
esclusiva di altri ambiti nazionali. La potenza e la limpidezza
estreme della registrazione sono tratti che ancora colpiscono,
all'ascolto. Morgan, quando interrogato a proposito di questo disco,
ama scherzare dicendo, michelangiolescamente, che ignora come abbiano
potuto, lui e i suoi Bluvertigo, farlo così bello. Sano amore
genitoriale per la prole, praticamente. Ma che tradisce quella che
fu, già allora, la percezione inconscia, da parte dei membri del
gruppo, riguardo l'impossibilità di superarsi, dopo un simile
traguardo. Quanto meno, in quella veste.
Questo,
è stato Morgan. Prima delle Canzoni Dell'Appartamento. Prima di X
Factor. Prima di diventare – ahinoi – spiacevolmente afono. Prima
di arrivare ultimo al festival di Sanremo. Prima di mutarsi in
oggetto del gossip. È stato l'autore di un disco al quale
chissà quanti, in gran segreto, hanno attinto, nelle tante giornate prive di ogni traccia d'ispirazione. Un disco talmente perfetto che persino l'arrangiamento
dell'unica cover presente (Always Crashing In The Same Car,
di David Bowie) è stata impiegato dal suo autore in luogo
dell'originale.
Ed era questo anche
prima di essere mandato a fare in culo da uno come Bugo.
Per
tornare ai giorni nostri, colpisce vedere Morgan costretto a reagire
in maniera adolescenziale ai capricci di uno che, molto
probabilmente, nemmeno sa con chi ha a che fare. Onestamente: cosa
pensereste di un giovane musicista che tratta con sufficienza, per
esempio, Roger Waters, dopo che questo gli ha dato dei consigli
paterni e preziosi? Direste che se ne deve guardare dal trattare in quel
modo uno che ha partorito per intero The Dark Side Of The Moon,
ed imparare al più presto ad essere umile – giusto? Sincero sembra
una canzone che - per come percepisco Morgan dal punto di vista
artistico - l'ex Bluvertigo deve avere scritto ed arrangiato in
un'ora, poco più. E nonostante ciò risulta superiore a tutta la
merda sentita prima e dopo.
“Ringrazia
il cielo, se sei su questo palco / Rispetta chi ti ci ha portato
dentro / ...”.
Sono
i versi modificati che hanno fatto saltare i nervi a Bugo.
Scommetto
che, in casa, non ha nemmeno un disco dei Bluvertigo.
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