Thom Yorke nel video per 'No Surprises'. |
Mi
siano concesse alcune parole riguardo a quello che reputo il più
eclatante sciacallaggio di questa emergenza: i concerti in
rete delle cosiddette stelle della musica, ovvero l'ennesima
occasione per godere di visibilità a spese di chi è davvero in
difficoltà.
A
volte penso che non esista calamità naturale alcuna, quale è da
considerarsi, presumibilmente, la pandemia in corso, che possa
ridurre una celebrità della musica al silenzio. Lasciamo perdere i
politici e gli ospiti di professione i quali rappresentano il fronte
patologico del fenomeno. Un musicista si pensa sia capace di
silenzio, di ritiro, di eccezionale introspezione, quanto meno per
favorire il proprio processo creativo. È pertanto sconcertante
constatare come, in tempo zero, lo star system,
del tutto noncurante del reale impatto che lo stop alla
maggior parte delle attività umane sta avendo sulle persone, si sia
attivato per ammorbare giornate già difficili di loro con le dirette
dei professionisti indiscussi della canzonetta – probabilmente
convinti che dalle loro ugole e strumenti fuoriesca sempre e solo la
perfetta colonna sonora di ogni momento dell'umano vivere.
Da
ormai un mese, gli onnipresenti Jovanotti, Gianna Nannini, Laura
Pausini, Modà, Nek, Marco Masini, Coma_Cose, Brunori Sas, Francesca
Michielin, Fiorello (!), Emma Marrone, Fedez, Tiziano Ferro, intrattenitori che
reputano la propria esperienza artistica – si fa per dire – come
indispensabile, rubano capacità al web,
convinti, come probabilmente sono, che persino immersi negli aspetti
letali di questa emergenza noi si senta il bisogno del loro
particolare, specifico, insostituibile conforto (suppongo vi sia, in
effetti, qualcuno che ne avverte la necessità, nel cui caso è chiaro
che il Covid 19 risulta come il minore dei mali). Non un aiuto
concreto: quattro accordi di chitarra e via: la vita torna a
sorridere come per incanto.
Pertanto,
quando mia moglie mi ha riferito, ieri l'altro, dell'iniziativa di
Thom Yorke e soci – ovvero quella compagine straordinaria che va
sotto il nome di Radiohead - di intrattenere la popolazione mondiale
in reclusione da Coronavirus per mezzo di concerti settimanali -
notizia che mi era sfuggita e per la quale le sono estremamente grato
-, ho avuto un attimo di sorpresa. Per come li conosco, mi sembrano
persone non accecate dall'enorme successo conseguito, con ancora i
piedi a terra, riservate in maniera non patologica ed intelligenti.
Caratteristiche che mal si attagliano a chi opta per una simile
iniziativa (Ennio Morricone, ad esempio, ha affermato in
un'intervista che, in questo periodo, difficile in particolar modo
per una persona della sua età, non c'è musica nelle sue giornate,
non gli sembra che il contesto consenta in alcun modo di godere di
essa, ritenendo invece più adatto un silenzio improntato alla
riflessione). Ho quindi subito verificato i dettagli di questa
notizia, scoprendo con grande gioia che, in realtà, il quintetto
inglese ha semplicemente contribuito ad un aumento del ventaglio di
scelte di prodotti in streaming rendendo disponibili gli
integrali di alcuni loro concerti risalenti anche a 20 e più anni
fa, così risparmiandoci vergognose dirette da salotti di casa grandi
come campi da pallavolo (Bruce Springsteen ed Elton John),
strimpellate da oratorio (Nek) o imbarazzanti cantate pseudoreligiose
da cattedrali deserte (Andrea Bocelli). Con l'ironia che li
contraddistingue (facile, devo ammettere: i loro colleghi sono così
stronzi da far apparire cordiale persino Donald Trump), hanno subito
espresso incertezza riguardo a cosa giungerà prima a conclusione: se
il loro archivio o la reclusione da pandemia. Ben detto! E così
hanno presentato il primo concerto di questa serie, registrato
nell'autunno del 2000 in una tensostruttura nella campagna fuori
Dublino, e coerentemente intitolato Live From A Tent. La band
vi appare ritratta in uno dei tanti, irripetibili momenti che hanno
caratterizzato, specie nel primo decennio di vita, la loro evoluzione
artistica: la tournée per la promozione di Kid A, un
disco che, bellezza a parte, rifiutava di parlare alle pance del
seguito più fedele del gruppo – al tempo già numerosissimo –
per rivolgersi, invece, alle proprie, per dare libero sfogo ad
un'appetito creativo che, considerati i risultati, mordeva da tempo.
Una coraggiosa scelta registica riprende i cinque musicisti con la
tecnica del circuito chiuso, conferendo a molte delle esecuzioni un
carattere distopico, orwelliano. La giovane età di ognuno traspare
ad ogni ripresa, e commuove come tutte le cose e le persone di un
tempo passato. Su tutte, le immagini del bassista Colin Greenwood - quella sua tipica postura con il fianco al pubblico, timido,
sorridente, concentrato, immerso nella bellezza della propria musica -
sono di quelle che rimangono. Il concerto è a dir poco perfetto, ed
il brano che ne costituisce l'apertura, The National Anthem, è
qui, a mio parere, nella sua più bella resa sonora di sempre.
Davvero un'esperienza da non perdere, credete (sempre che amiate la
musica e non siate semplicemente bisognosi di uno 'spaccatempo'). In altre parole: consapevoli che molte delle cose che avevano da dire erano già state espresse in molti dei lavori precedenti questi anni, non hanno fatto che riproporli. Ecco tutto.
Alla
ricerca disperata di una lettura in grado di dare senso alle cose non
solo di questi giorni, mi sono imbattuto, con grande fortuna, nel
bellissimo editoriale che Lester Bangs scrisse all'indomani della
morte di John Lennon. È uno scritto di disarmante sincerità,
capace, in poco più di una pagina, di esprimere, oltre al dolore per
la perdita di 'un grande uomo' e per la fine senza sequel di
un sogno all'epoca già vecchio di due lustri, il disagio per il
travisamento che gli stessi che lo piangevano avevano operato sulla
sua figura. Un artista che, ricordiamolo, lasciati i Beatles (non
esattamente un passo alla portata di tutti), aveva optato per una
lunga assenza dalle scene, ritenendo di non avere, quanto meno in
quel momento, qualcosa da dire. In altre parole, e per riagganciarci
al discorso di partenza, John Lennon, seppur nella sua grandezza, non
si riteneva indispensabile, al contrario dei tanti marchettari che
in questi giorni intasano la rete con il proprio ego ed il proprio
vuoto artistico.
Meditate,
gente.
Meditate.