domenica 18 ottobre 2020
SUPERCULT. 'Fight Club' 20'anni dopo.
mercoledì 7 ottobre 2020
POLLUZIONI NOTTURNE. Quando Eddie Van Halen cambiò la mia vita (in meglio).
mercoledì 16 settembre 2020
OUR HOUSE. Le responsabilità educative della famiglie.
Delle cose rimastemi dell'Inghilterra pre Brexit, prima cioè della sua trasformazione in quella cloaca politico-sociale che è oggi, c'è una canzone dei Madness (per coloro che non li conoscessero, un gruppo ska formato da simpaticissimi svitati della suburbia londinese, famosi negli anni '80 per una serie molto fortunata di hits il cui merito è sicuramente quello di avere fedelmente raccontato con fare scanzonato la working class britannica del tempo). Si intitola Our House, ed è un ritratto gioioso e leggero della tipica famiglia inglese vista con gli occhi di uno dei figli. Una famiglia felice perché non desidera altro che quello che ha: un padre operaio (“Father gets up late for work”), una madre casalinga e premurosa (“Our mum, she's so house-proud”), figli orgogliosi di esserne parte (“Our house was our castle and our keep”), il fragore inevitabile dei nuclei numerosi (“it's usually quite loud”), gli ordinari riti del fine-settimana (“Father wears his Sunday best”) e, naturalmente, la casetta nel bel mezzo del quartiere (“Our house, in the middle of our street”).
Per quanto stilizzata, ho pensato proprio a questa famiglia, ieri l'altro, alla sua fierezza, alla sua semplicità, nel mentre, con paura e disgusto, leggevo i diversi resoconti biografici sui due fratelli di Artena, protagonisti delle cronache di questi giorni per avere condotto, in un piccolo paese del basso Lazio, un pestaggio in branco (quattro contro uno) conclusosi con la morte dell'aggredito.
La famiglia è un aggregato che può salvare, ma anche distruggere. Lo sappiamo bene tutti quanti. E se a qualcuno ancora serve un esempio, ciò significa che vive in un mondo diverso, quantomeno, da quello nel quale vivo io e che - mi piace pensare - credo sia lo stesso di molti di coloro che leggono o frequentano Sala Colloqui.
Giovani, carini (si fa per dire) e disoccupati, fino a pochi giorni fa, i due fratelli vivevano con i genitori - la famiglia, per l'appunto -, in una grande villa, svettante in maniera sospetta sulla modestia degli immobili circostanti. Grosse cilindrate, abbigliamento ed accessori firmati, bella vita puntualmente ostentata sui social, liquidità da emiro, fisico curatissimo ed ottimi rapporti con le forze dell'ordine, con le quali, nonostante la giovane età (25 anni), i due hanno intrattenuto, negli anni, diverse chiacchierate aventi come oggetto reati di varia natura.
I resoconti di cui sopra, tutti concordanti tra loro, riportano, oltre agli elenchi di mobili ed immobili appena riportato, l'incredulità ed il dolore della madre per quanto accaduto. C'è da capirla: quale madre non si sentirebbe così di fronte all'incarcerazione dei propri figli con un'accusa tanto infamante? I fallimenti sono duri da digerire. E quello sul fronte educativo, deputato come è in buona parte alla famiglia d'origine, è quello che riserva più dolori. Sorprende, però, che nessun sospetto sia emerso quando i due 'bravi ragazzi' hanno portato - immagino con orgoglio incontenibile - lei e papà nella nuova casa, attrezzata di tutto; quando, presumibilmente, li hanno ricoperti di attenzioni materiali di ogni genere; quando, sebbene titolati al reddito di cittadinanza, d'improvviso hanno smesso di vivere l'angoscia dell'arrivare sani e salvi a fine-mese. È davvero un bel paese, il nostro, avranno pensato: i nostri ragazzi faticano a trovare lavoro - come tutti, d'altronde. Ma, nonostante questo, non gli manca niente. Possono fare una vita normale. Hanno pure la fidanzata!
Com'era inevitabile, in un paese socialmente abbruttito qual è oggi l'Italia, all'indomani del pestaggio si è subito parlato di fascismo, di clima di intolleranza promosso dalla politica, di tecniche d'attacco sistematicamente praticate in palestra, di assenza delle istituzioni. Non uno che abbia concentrato l'attenzione sulla famiglia, intesa come luogo di formazione, come il posto dove, per la prima volta, come ho accennato poco fa, viene insegnata ai piccoli la fondamentale differenza tra bene e male. 'Fanculo alla retorica: che razza di famiglia sia, quella di questi fratelli picchiatori, lo possiamo facilmente immaginare senza nemmeno l'aiuto della folla di psicologi, psicoterapeuti, criminologi e filosofi che ormai popola ogni talk show, dispensando consigli per ogni ambito dello scibile umano. Dal melo fiorisce la mela, e dal banano la banano. Di meli che producono banane non se ne ha notizia. Questi due fratelli sono così perché così sono stati cresciuti, perché sono il frutto biologicamente determinato dell'albero che li ha fatti germogliare. Papà e mamma stavano bene così, senza porsi troppe domande. Sopra le regole, si vive senza preoccupazioni. E allora 'avanti!', ché la vita te ne da già tante di suo, senza che noi se ne debba cercare altre. È il familismo italico. Un male antico e non ancora estirpato. Altro che Covid19! Una giustizia efficiente confischerebbe seduta stante tutti i beni di una simile famiglia, donandone i proventi a quella della vittima.
Ma, nel paese del family day, è molto più facile – e conveniente – dare la colpa a Benito Mussolini.
domenica 6 settembre 2020
SERVIZIO PUBICO. Perché chiudere il Giornale-radio 1.
Calogero Nicolas Valenza, 27enne originario di Gela, residente a Barcellona dove lavora come addetto alle pubbliche relazioni, domenica scorsa, 23 agosto, lascia la capitale catalana diretto a Il Cairo. All'arrivo, in aeroporto, le autorità competenti lo individuano ed arrestano, azione che si inserisce nel filone di un'indagine internazionale sullo spaccio di droga. Il nome di Nicolas risulta presente nella rubrica del telefono di altre persone arrestate per identici motivi mesi prima, e questo ha insospettito gli investigatori, che hanno così trattenuto l'italiano per verificarne la posizione. Passati alcuni giorni - tre, per l'esattezza - non emergono prove a carico di C. N. Valenza, per il quale vengono di conseguenza avviate le rituali procedure del rilascio. Fine.
Attenzione, ora, alla versione della notizia data dal GR1. Calogero Nicolas Valenza, un ragazzo di 27 anni originario di Gela e residente a Barcellona verrà rilasciato a breve dopo che era stato fermato a Il Cairo nell'ambito dell'inchiesta sul traffico di droga. Nicolas Valenza ha telefonato alla madre Rosaria che non sentiva da domenica. Segue dichiarazione della signora, la quale assicura di essere ora più serena e di non vedere l'ora di riabbracciare il figlio. Spera, naturalmente, che tutto questo finisca presto. Il nome di Nicolas risulta presente nella rubrica del telefono di altri ragazzi arrestati per identici motivi mesi prima. La Polizia temeva fosse coinvolto in un "traffico di droga internazionale" (sic). La famiglia e l'avvocato, Nicoletta Cauchi, non avevano sue notizie da quando era partito per l'Egitto. Preoccupati, hanno allora contattato la Farnesina, che a sua volta si è attivata nel fornire assistenza al connazionale. Non essendovi prove a carico di Nicolas Valenza, sono state avviate le pratiche per il rilascio. Nei prossimi giorni, Nicolas farà ritorno dalla sua famiglia.
Analizziamo. Si può definire ragazzo una persona di 27 anni senza scadere nel paternalismo? A 27 anni suonati la giovinezza cessa di essere un alibi: si è pienamente responsabili di parole, opere ed omissioni. L'inchiesta sul traffico di droga fa pensare che di simili attività in corso ve ne sia solo una (od una di tale portata da meritare l'articolo qualificativo con esclusione di ogni altra): per la precisione, quella che, suo malgrado, ha visto coinvolto il connazionale. Ma sappiamo benissimo che non è così, e che lo spaccio internazionale è motore di alcune disperate economie nazionali. Infatti, subito dopo, l'altro conduttore del GR fa riferimento ad un traffico internazionale di droga, specifico fra tanti, così riportando la vicenda ai suo infimo, meritato livello - che è quello del piccolo cabotaggio. Al che viene da chiedersi se i giornalisti del GR1 si parlino, quando stanno in redazione. Perché poi mandare in onda le rassicurazioni di una madre riguardo la propria riconquistata serenità, è altra questione da capire. Chi di noi, in tutta sincerità, era preoccupato per lo stato d'animo della signora, al punto da sentire il bisogno di una sua rassicurante dichiarazione? Ma soprattutto: nessuno trova strano che, in piena pandemia, una persona residente in una delle città maggiormente rinomate per la vita notturna ed il clima straordinariamente mite, si imbarchi per un paese climaticamente e politicamente ostile quale è oggi l'Egitto? Considerata la giovane età, dubito sia andato a svernare. E se così fosse, non avrebbe certo acquistato un esoso e sicuramente scomodo volo per Il Cairo, bensì un più economico ed agevole volo charter per il Mar Rosso. A meno che non si voglia credere all'eccezionalità di questa ultima generazione di connazionali, così diversa da noi che, se stanca della movida, opta per del turismo culturale alla scoperta dell'antico Egitto. E poi, sinceri: quanti di voi, non dando distrattamente più notizie alle persone ritenute care dopo essere partiti per le vacanze, dispongono di un legale che, tempo tre giorni, tempesta il Ministero degli Esteri chiedendo vostre notizie?
Insomma: è fin troppo chiaro, qui, quale sia la considerazione che la redazione del GR1 ha per quello che ritiene essere il suo ascoltatore medio, se pensa che meriti questo modello e questo livello d'informazione. Che simili domande e simili dubbi sorgano spontanei ad un ascoltatore e non ai responsabili di una redazione giornalistica quale quella del servizio pubblico è, a mio parere, motivo sufficente per invocarne la chiusura per comprovata inutilità.
CUM MORTUIS IN LINGUA MORTA. L'inutilità dell'Inglese.
Detto questo, mi sembra che la recente azione promozionale di British Institute rappresenti un tentativo ultimo, disperato, di conferire attrattiva ad una lingua che per la stragrande maggioranza degli italiani non solo non ha più, specie da quando nazioni cosiddette emergenti (pensiamo a Cina e Brasile) hanno fatto la loro comparsa sul mercato globale con conseguente imposizione dei propri idiomi: non l'aveva nemmeno quando era davvero la qualifica curricolare in grado di fare la differenza, quando poteva determinare un'assunzione!
Non conosco i dati riguardanti le iscrizioni all'istituto, e me ne guardo bene dal discutere la qualità dell'insegnamento che vi è impartito. Dico, però, che a tentare di persuadere le persone riguardo le affermazioni riportate in apertura si rischia la circonvenzione d'incapace. Chi altri può infatti credere in una volontà di potenza misticamente conferita dalla lingua Inglese, come nella faustiana possibilità di trasformazione in ciò che si vuole, se non un perfetto sprovveduto (sulla cui predisposizione all'apprendimento di una seconda lingua vi sarebbe poi da discutere a lungo)? Coloro che possiedono un buon Inglese saranno anche potenti, ma quando è il momento, credetemi: lo prendono in culo esattamente come i tanti illettarati di questi nostri poveri giorni. Quanto poi al diventare ciò che si vuole, la mia esperienza personale, dolorosa, dice che ben altre qualità servono oggi per farsi largo in ambito lavorativo, se è questo che si intende. Ma questa è un'altra storia, meritevole di essere raccontata, bisognosa però di uno spazio tutto suo.
Per tornare alla campagna pubblicitaria del British Institute, mi sembra che quella scelta per - suppongo - uscire dallo stallo del lockdown (ops!) sia vecchia ed inadeguata nei contenuti (sempre che si voglia credere la pubblicità come in grado di veicolare un qualsivoglia contenuto), un po' come quelle aziende fuori dal tempo che ancora si affidano a formule del tipo 'il tempo è denaro' (ve ne sono: le ho viste di persona).
Avvertire il bisogno di una seconda lingua rappresenta un sommovimento culturale in grado, in determinate condizioni, di farci sentire un tutt'uno con la nostra più genuina umanità. Infatuarsi di una lingua e del popolo che ne è portatore rappresenta una delle avventure conoscitive più appaganti che possano essere vissute.
Ma avvicinarsi a questa per sopravvivenza e per soddisfare esclusivamente le spinte commerciali del mercato globale odierno, significa trasformarla in un mezzo di comunicazione impersonale ed imperativo le cui tragiche e traumatiche conseguenze la storia umana ha già vissuto in tempi non così lontani.
venerdì 14 agosto 2020
THE IRON MAIDEN. L'arte incredibile di Charlotte De Witte.
Descrivere un dj set è quanto di più post-moderno e difficile vi sia per chiunque si cimenti nella scrittura con l'intento di rendersi almeno un minimo comprensibile. Aggirerò allora questa bestia partendo dal più semplice, ed accessibile, dato biografico. Charlotte De Witte è una giovane donna non ancora nei 30 orginaria delle Fiandre. Appena maggiorenne ha esordito nel mondo dell'elettronica, significativamente impiegando uno pseudonimo maschile che ha mantenuto fino a cinque anni fa, quando il suo stile, consolidato e molto femmineo, ha dato lei la sicurezza necessaria a presentarsi in piena coerenza con l'anagrafe, forte, inoltre, di un aspetto esteriore pregevole che la nostra da l'impressione di gestire in maniera schiva e parsimoniosa. Da allora la sua carriera, nel settore è svettata. Suona esclusivamente nei più importanti festivals e clubs del circuito. Ha pubblicato un numero abbastanza sorprendente di dischi e fondato una casa discografica dedicata al genere di appartenenza in piena controtendenza con i modelli attuali. L'emergenza pandemica ha naturalmente cancellato per intero la sua agenda di impegni fino a poche settimane fa, e, come molti altri artisti, anche lei ha contribuito a combattere la noia da reclusione attaverso la pubblicazione in rete di alcune sua performaces perticolarmente riuscite. Tra queste la partecipazione a Tomorrowland Winter 2019, l'esibizione che mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta e stimolato a scrivere questo post. Penso sia più utile, quindi, al fine di comprendere le ragioni di un entusiasmo che può sorprendere coloro che mi conoscono meglio, godersi il set per intero: coglierne i tratti minimali (consistenti nel dissezionare le tracce impigandone la sola ossatura); l'arte del saper togliere anziché sovrapporre parossisticamente; la creazione estemporanea di un flusso ossessivo e controllato; l'interpolazione di parlato e cantato; i vuoti improvvisi; il relativismo vertiginoso delle diverse combinazioni del missaggio e, non ultimo, il basso profilo mantenuto dall'artista belga nel corso di una serata da urlo - che noi maschietti avremmo certamente vissuto con ostentazione virile ed incontenibile egocentrismo (esattamente l'atteggiamento tenuto in apertura dal fottuto presentatore - mc, nel gergo del settore).
La musica di Charlotte De Witte, a mio parere, è una delle colonne sonore più rappresentative di questi tempi dove prestazione ed informazione sembrano essersi fuse in un unicum distruttivo e a volte letale. Il suo dj set sembra inserirsi, anziché rifuggervi, nel flusso initerrotto di queste due entità astratte che, almeno fino alla recente pandemia, hanno scandito impietosamente il ritmo di tante, forse troppe, delle nostre giornate. Lo penetra e lo modella in una forma che, come insegna l'estetica, è l'essenza del bello.
Mi piace pensare vi sia in circolazione un'artista come lei: donna, giovane, non volgare, di grande personalità e dotata di un'energia vitale che è sempre più rara da scorgere nel prossimo (segno, per me, di un processo di estinzione in corso ormai da tempo).
P.S. Qualche anno fa, all'apice del successo, Lady Gaga, in un'intervista condotta da Rolling Stone - che è come dire 'Matteo Renzi intervistato da Repubblica' -, ha avuto la faccia tosta di dichiarare che lei, no, non è, come sostenuto dall'intervistatore, la nuova Madonna, bensì la nuova Iron Maiden. Errore di sopravalutazione. La nuova Iron Maiden è Charlotte De Witte.