Nella
storia della chitarra moderna – intendendo con questa la sua
versione elettrica, sia rock che jazz – vi sono
incisioni che, nel bene e nel male, ne hanno profondamente
influenzato lo pratica esecutiva. Traduco: dischi dopo la cui
pubblicazione tutti i chitarristi, persino inconsciamente, si sono
visti costretti a cambiare il proprio modo di suonare. Breve excursus
discografico: 1968, Electric Ladyland, di Jimi Hendrix; 1981,
Friday Night In San Francisco, con Al Di Meola; 1984, Rising
Force, di Yngwie Malmsteen; 1987, Surfin' With The Alien,
di Joe Satriani; 1990, Inside Out, con Frank Gambale. Un anno
dopo l'uscita di questo ultimo disco, l'insulsa figura del guitar
hero cessò di colpo di esistere, distrutta dalla montante ondata
grunge nord-pacifica (che ringraziamo di cuore, per questo) e
da quanto ad essa seguì. Tra Jimi Hendrix e Al Di Meola, però, ho
intenzionalmente omesso un disco anch'esso a pieno titolo tra le
pietre miliari del chitarrismo ed il vero protagonista di questo
scritto. Sto parlando del primo ed omonimo album dei californiani Van
Halen, finito tra le mani dei suoi primi, fortunati acquirenti
nell'inverno del 1978. Ora, va da sé che, pure che manchi la
fantasia agli altri membri della band, se il nome del tuo
gruppo è Van Halen, il suo primo disco si intitola Van Halen,
e tu che ne sei il chitarrista fai Van Halen di cognome, è alquanto
improbabile non goda di ottima reputazione, nella compagine. Detto
questo, urge spiegare il perché di questa presentazione ad effetto.
Eddie Van Halen, il chitarrista che proprio con il disco d'esordio
letteralmente sfondò la barriera del suono, per
come questo era stato fino allora concepito, è mancato ieri
all'età non proprio veneranda di 65 anni. Non scrivo questo per
dovere di cronaca (obbligo dal quale mi sento del tutto esentato: se
volete particolari sull'autopsia, penso vi basterà seguire Barbara
D'Urso): lo scrivo perché Van Halen,
che ascoltai per la prima volta nell'indimenticabile estate del 1982,
fu responsabile di un bel po' delle mie notti insonni di quel tempo,
ed ha avuto su quell'adolescente smarrito che ero un'influenza al
limite con l'abnorme (non solo riuscì a farmi trovare il coraggio
per chiedere a mio padre l'acquisto di una chitarra, ma persino mi
spronò in termini di costume, portandomi a raggirare abilmente mia
madre per l'acquisto di una tuta per l'ora di ginnastica, in tutto e
per tutto identica a quella che il nostro indossa sulla copertina di
Women And Children First, uno
dei momenti più alti della mia esistenza). Van Halen
fu per me un'onda d'urto contro la quale impattai vergine ed
impreparato, che al suo passaggio mi lasciò seminudo, con le sole
mutande in laceri e a bocca aperta per almeno una settimana (quel
primo ascolto avvenne nel mentre mi trovavo a passare l'estate nella
fattoria di famiglia, insieme a nonni, zii, cugini e parentado
acquisito, e quello sconvolgimento, la cui origine avevo tenuto
segreta, venne preso da tutti come un momento difficile della mia
crescita, quando, in realtà, ce l'avevo già duro grazie a brani
come You Really Got Me,
I'm The One e Atomic
Punk, i miei preferiti). Fu il
primo disco a portarmi via da una realtà che ero incapace di
descrivere e codificare, consegnandomi ad un immaginario pericoloso
ma bellissimo, davvero fatto di sesso, droga e rock 'n
roll. Perché, parliamo chiaro:
se Ludvig Van Beethoven è stato la colonna sonora delle illusioni
napoleoniche e Gustav Mahler quella della psicanalisi, i Van Halen
sono stati quella del porno, della perversione adolescenziale, dei
festini e – mi permetto di dire – di un sano machismo (quello
malato fu appalto dei Mötley
Crue). Van Halen
rimane tutt'oggi un disco straordinario, ineguagliato tra le opere
d'esordio e non solo. Stratosferico nel suono, veloce come la
gioventù sa essere, spregiudicato, perfetto fino nella scaletta dei
brani, e pervaso da una spensieratezza invidiabile allora come oggi.
Siamo onesti: contrariamente all'agiografia che proprio in queste ore
viene scritta, e che ormai accompagna ogni dipartita del mondo dello
spettacolo, Eddie Van Halen non era un genio della musica e nemmeno
della chitarra (che dovemmo dire, allora, di Paco De Lucia o Pat
Metheny?). Questi sono titoli che vanno attribuiti con parsimonia. Le
personalità davvero geniali appaiono di rado e non sempre sono
premiate da successo commerciale. Eddie Van Halen fu un giovane
coraggioso e curioso che seppe rompere un argine del suo tempo – e
già questo mi sembra non sia poco. Sviluppò il suo stile fin dove
la fisicità della tecnica da lui inventata (il tapping)
lo consentiva, dopodiché visse fino all'ultimo di una rendita che
era nel contempo di fama, di stile e finanziaria (le esibizioni
dell'ultimo decennio erano vere e proprie caricature di sé stesso).
Tutto questo, però, non ha importanza. Eddie Van Halen e la sua
band, 40'anni fa
presero un preadolescente sfigato con i baffi e lo sbatterono di
colpo in strada, dicendogli: “Ehi, moccioso: va, divertiti. Nessuno
può impedirtelo.”. E di questo gli sarò riconoscente fino alla
morte.
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