mercoledì 7 ottobre 2020

POLLUZIONI NOTTURNE. Quando Eddie Van Halen cambiò la mia vita (in meglio).



Nella storia della chitarra moderna – intendendo con questa la sua versione elettrica, sia rock che jazz – vi sono incisioni che, nel bene e nel male, ne hanno profondamente influenzato lo pratica esecutiva. Traduco: dischi dopo la cui pubblicazione tutti i chitarristi, persino inconsciamente, si sono visti costretti a cambiare il proprio modo di suonare. Breve excursus discografico: 1968, Electric Ladyland, di Jimi Hendrix; 1981, Friday Night In San Francisco, con Al Di Meola; 1984, Rising Force, di Yngwie Malmsteen; 1987, Surfin' With The Alien, di Joe Satriani; 1990, Inside Out, con Frank Gambale. Un anno dopo l'uscita di questo ultimo disco, l'insulsa figura del guitar hero cessò di colpo di esistere, distrutta dalla montante ondata grunge nord-pacifica (che ringraziamo di cuore, per questo) e da quanto ad essa seguì. Tra Jimi Hendrix e Al Di Meola, però, ho intenzionalmente omesso un disco anch'esso a pieno titolo tra le pietre miliari del chitarrismo ed il vero protagonista di questo scritto. Sto parlando del primo ed omonimo album dei californiani Van Halen, finito tra le mani dei suoi primi, fortunati acquirenti nell'inverno del 1978. Ora, va da sé che, pure che manchi la fantasia agli altri membri della band, se il nome del tuo gruppo è Van Halen, il suo primo disco si intitola Van Halen, e tu che ne sei il chitarrista fai Van Halen di cognome, è alquanto improbabile non goda di ottima reputazione, nella compagine. Detto questo, urge spiegare il perché di questa presentazione ad effetto. Eddie Van Halen, il chitarrista che proprio con il disco d'esordio letteralmente sfondò la barriera del suono, per come questo era stato fino allora concepito, è mancato ieri all'età non proprio veneranda di 65 anni. Non scrivo questo per dovere di cronaca (obbligo dal quale mi sento del tutto esentato: se volete particolari sull'autopsia, penso vi basterà seguire Barbara D'Urso): lo scrivo perché Van Halen, che ascoltai per la prima volta nell'indimenticabile estate del 1982, fu responsabile di un bel po' delle mie notti insonni di quel tempo, ed ha avuto su quell'adolescente smarrito che ero un'influenza al limite con l'abnorme (non solo riuscì a farmi trovare il coraggio per chiedere a mio padre l'acquisto di una chitarra, ma persino mi spronò in termini di costume, portandomi a raggirare abilmente mia madre per l'acquisto di una tuta per l'ora di ginnastica, in tutto e per tutto identica a quella che il nostro indossa sulla copertina di Women And Children First, uno dei momenti più alti della mia esistenza). Van Halen fu per me un'onda d'urto contro la quale impattai vergine ed impreparato, che al suo passaggio mi lasciò seminudo, con le sole mutande in laceri e a bocca aperta per almeno una settimana (quel primo ascolto avvenne nel mentre mi trovavo a passare l'estate nella fattoria di famiglia, insieme a nonni, zii, cugini e parentado acquisito, e quello sconvolgimento, la cui origine avevo tenuto segreta, venne preso da tutti come un momento difficile della mia crescita, quando, in realtà, ce l'avevo già duro grazie a brani come You Really Got Me, I'm The One e Atomic Punk, i miei preferiti). Fu il primo disco a portarmi via da una realtà che ero incapace di descrivere e codificare, consegnandomi ad un immaginario pericoloso ma bellissimo, davvero fatto di sesso, droga e rock 'n roll. Perché, parliamo chiaro: se Ludvig Van Beethoven è stato la colonna sonora delle illusioni napoleoniche e Gustav Mahler quella della psicanalisi, i Van Halen sono stati quella del porno, della perversione adolescenziale, dei festini e – mi permetto di dire – di un sano machismo (quello malato fu appalto dei Mötley Crue). Van Halen rimane tutt'oggi un disco straordinario, ineguagliato tra le opere d'esordio e non solo. Stratosferico nel suono, veloce come la gioventù sa essere, spregiudicato, perfetto fino nella scaletta dei brani, e pervaso da una spensieratezza invidiabile allora come oggi. Siamo onesti: contrariamente all'agiografia che proprio in queste ore viene scritta, e che ormai accompagna ogni dipartita del mondo dello spettacolo, Eddie Van Halen non era un genio della musica e nemmeno della chitarra (che dovemmo dire, allora, di Paco De Lucia o Pat Metheny?). Questi sono titoli che vanno attribuiti con parsimonia. Le personalità davvero geniali appaiono di rado e non sempre sono premiate da successo commerciale. Eddie Van Halen fu un giovane coraggioso e curioso che seppe rompere un argine del suo tempo – e già questo mi sembra non sia poco. Sviluppò il suo stile fin dove la fisicità della tecnica da lui inventata (il tapping) lo consentiva, dopodiché visse fino all'ultimo di una rendita che era nel contempo di fama, di stile e finanziaria (le esibizioni dell'ultimo decennio erano vere e proprie caricature di sé stesso). Tutto questo, però, non ha importanza. Eddie Van Halen e la sua band, 40'anni fa presero un preadolescente sfigato con i baffi e lo sbatterono di colpo in strada, dicendogli: “Ehi, moccioso: va, divertiti. Nessuno può impedirtelo.”. E di questo gli sarò riconoscente fino alla morte.

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