Lasciato finalmente
libero in casa, ho potuto rivedere con calma – e, devo dire,
immensa eccitazione - Fight Club, il film di David Fincher
che 20 e più anni fa lanciò Brad Pitt, a ragion veduta, nell'olimpo
dei grandi attori di Hollywood, così strappandolo ad una carriera
che, dopo lo stucchevole Vi Presento Joe Black, rischiava di
cristallizzarsi in ruoli assai remunerativi e su misura per un
pubblico femminile astutamente erotizzato dall'industria
cinematografica californiana. Ho notato che non solo, il film, non ha
perso smalto (la recitazione è persuasiva, la fotografia attuale e
dettagliatissima, la colonna sonora e la regia da cult movie):
rivisto dopo l'undici settembre, il passaggio di Katrina, Occupy
Wall Street, il caso Snowden, le proteste di Hong Kong, la
pandemia, i fatti di Minneapolis e quant'altro di devastante abbia
investito la società globalizzata dal termine della presidenza
Clinton, rivela agli occhi degli spettatori, in particolar modo di
coloro che lo hanno amato fin da subito, una carica profetica così
forte da farne seduta stante uno dei film più importanti,
rilevanti, degli ultimi decenni. Do per scontato, a questo punto,
che, in quanto lettori assidui di Sala Colloqui, abbiate visto il
film e conosciate alcune delle sue tante, davvero memorabili
sequenze. Il nido Ikea, le immagini subliminali pornografiche, i
gruppi di auto-aiuto, Tyler Durden, il disastro aereo, la cabina di
proiezione, la finta rapina al supermercato, le minacce al capo della
Polizia, il furto del grasso da liposuzione. Chi più ne ha più ne
metta. Vale forse la pena di riflettere sul fatto che 21 anni fa,
grazie ad una bella dose di coraggio (perché ce ne vuole, nella vita
come nella professione), un regista con le strapalle quale è David
Fincher, riuscì a persuadere una major di Hollywood a
produrre un film le cui tematiche, in Italia, ancora oggi, non
troverebbero una porta aperta anche proponendole singolarmente. (Ho
visto, giusto settimana scorsa, l'ultimo film di Daniele Lucchetti,
Lacci: tutto già visto e sentito, ben fatto, ottimo cast, ma
una totale mancanza di argomenti. Viene da chiedersi, e non è la
prima volta, se i nostri cineasti vadano mai al cinema a vedere il
lavoro dei colleghi.). Fight Club non è un film sulla
violenza (davvero fuorviante leggerlo così): è un film
sull'anestetizzazione operata dalla società sugli individui, che ha
come prima conseguenza il cinismo dilagante (di questi nostri giorni,
osservabile ovunque), la radicalizzazione dei comportamenti (sport
estremi, afterhours, sexting)
ed il vuoto di senso (nichilismo). È narrato superbamente, ed ogni
sforzo richiesto allo spettatore per seguire la vicenda davvero folle
del protagonista è guarnita con ironia invidiabile e politicamente
scorrettissima (su tutti il flashback dove il saponificatore
Brad Pitt è ripreso nel mentre, nella veste di proiezionista, è
intento a montare fotogrammi porno in film per famiglie). L'alter
ego del protagonista, ad un certo punto, lamenta in maniera
veemente l'assenza e l'inadeguatezza del padre. Ho realizzato solo
allora, rivedendolo, quanto un simile passo possa avere costituito
ostacolo nella distribuzione e nella promozione di questa pellicola
nel paese – il nostro - che, sette anni più tardi, avrebbe dato
vita a quella manifestazione dell'orgoglio bigotto che è stato il
Family Day. Assai più facile – più comodo e confortevole -
produrre stagionalmente il 'cinepanettone' o la commedia con il
comico del momento – puntualmente identico a quello precedente. Nel
cinema di David Fincher c'è un piacere quasi infantile – nel senso
di istinto non mediato - nel sondare le oscurità più profonde
dell'animo umano. Impresa che, in questo film, compie attraverso
movimenti di camera lenti e precisi, come quelli di chi, in una
cantina buia, muove i passi con attenzione, non per paura, bensì per
memorizzare con precisione spazi, odori e sensazioni. Ed ecco,
allora, l'impiego sapiente della sceneggiatura, che allenta la
tensione per mezzo della battuta, della boutade,
dello spunto originale. Ma soprattutto, il cinema di Fincher è
finzione – che è poi il tratto di tutto il grande cinema. I tanti
che, negli anni subito seguenti il grande successo della pellicola,
si sono messi alla ricerca dei fight clubs
che ritenevano esistenti ed operanti, hanno dimostrato quanto
realmente fosse abissale il vuoto di molte esistenze, proprio come
evidenziato dal film e dal sorprendente romanzo di Chuck Palahniuk che
ne ha dato spunto. Non violenza, quindi, ma, appunto, la
disponibilità, quasi prona a tutto, da parte di alcuni individui
particolarmente disperati, al fine unico di colmare il vuoto
insostenibile delle proprie esistenze (e come non ricordare, qui, il
momento dove in combattimento si riconosce il giovane prete che, poco
prima aveva reagito goffamente ad una provocazione del club?).
Insomma un film che, come tutte le grandi opere, continua, a decenni
dalla sua uscita nelle sale, a fornire spunti di riflessione a coloro
che hanno orecchi per intendere ed occhi per vedere.
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