Sono
sempre stato tardo, nelle cose della vita. Ed anche ora, di fronte al
caso Sea Watch, mi rendo conto di avere impiegato tempo, prima di
giungere alla mia, personale conclusione.
È
di oggi (5 luglio 2019) la notizia che il governo libico avrebbe
manifestato l'intenzione di liberare i migranti presenti nei suoi
centri di detenzione. Ufficialmente dettata da ragioni legate alla
sicurezza degli stessi detenuti, la proposta sottende, in realtà, una
vera e propria minaccia, neanche tanto velata, nei confronti dell'Italia. Se
attuata, insieme all'orda dei disperati – quelli veri -, ci
vedremmo invasi da soggetti pluripregiudicati e mentalmente
compromessi (psicopatici e sociopatici) fuoriusciti dalle tante
strutture penitenziare africane sfuggite al controllo a causa
dell'endemica instabilità governativa. Persone la cui
unica sistemazione dovrebbe essere il bagno penale o il carcere
psichiatrico, e che invece rischiamo di veder vagare come zombi nei
luoghi del paese che il caso assegnerà loro – e lungo percorsi che
potrebbero essere gli stessi nostri.
Accadde
nei primi ani '90 con la caduta dei regimi di Enver Hoxa e Nicolae
Ceausescu, la cui feccia criminale prese, seduta stante, con
sconcertante lucidità, la strada dell'Italia come piccole tartarughe
istintivamente guidate verso il mare. La macrocriminalità
dell'est-Europa, ben consolidata nel nostro paese, si ascrive a
questa origine.
Da
italiano, il pensiero che oltre alla prona accettazione di cotanta
minaccia noi si debba anche tollerare, in mare, la presenza di
fantasmatiche organizzazioni non-governative le quali, non investite
dalla problematica, riverseranno sulle coste italiane, indiscriminatamente ed illegalmente, la popolazione umana qui descritta, mi
riempie di rabbia e foraggia il mio antieuropeismo, ormai divenuto galoppante.
Vi
sono soggetti – Carola Rackete è sicuramente tra questi – la cui
concezione della legalità risulta essere qualcosa di estremamente
mobile, fluido. E, similmente ai liquidi, perfettamente adattabile ad
ogni contenitore.
Sconfinare
in acque italiane, dopo aver incrociato quelle internazionali e
libiche; forzare il blocco imposto dall'autorità marittima
competente; sbarcare disperati che, in quanto tali, non dispongono di
documentazione alcuna; fare ciò con un natante battente bandiera
olandese; esibire, quando interrogati dal magistrato, passaporto
tedesco a mo' di salvacondotto, ma pretendere che sia esclusivamente
il nostro paese a farsi carico dello sbarco, ecco: mi sembra
sinceramente inaccettabile.
Rincaro la dose: Giulio Regeni è morto per avere effettuato attività di ricerca in un paese nel quale vigeva - e mi sembra viga ancora - lo stato di emergenza. Condizione che, a ben vedere, si adatterebbe coerentemente anche all'Italia. Carola Rackete sembra non realizzare le conseguenze che un'iniziativa privata, per quanto patrocinata da un ateneo od un'associazione non-governativa, può avere in un paese soggetto ad emergenza. Fortuna vuole che l'Italia non è l'Egitto. O, almeno, non ancora.
L'impressione
che se ne ricava è quella di una gioventù alla ricerca di una causa il più possibile nobile in
un mondo che non ne offre, e che nel fare ciò finisce implicata in vicende più grandi di essa .
Ribelli
senza causa.
Proprio
come quelli raffigurati da Nicholas Ray 64 anni fa.