venerdì 5 luglio 2019

SEA WATCH. La mia posizione.


Sono sempre stato tardo, nelle cose della vita. Ed anche ora, di fronte al caso Sea Watch, mi rendo conto di avere impiegato tempo, prima di giungere alla mia, personale conclusione.
È di oggi (5 luglio 2019) la notizia che il governo libico avrebbe manifestato l'intenzione di liberare i migranti presenti nei suoi centri di detenzione. Ufficialmente dettata da ragioni legate alla sicurezza degli stessi detenuti, la proposta sottende, in realtà, una vera e propria minaccia, neanche tanto velata, nei confronti dell'Italia. Se attuata, insieme all'orda dei disperati – quelli veri -, ci vedremmo invasi da soggetti pluripregiudicati e mentalmente compromessi (psicopatici e sociopatici) fuoriusciti dalle tante strutture penitenziare africane sfuggite al controllo a causa dell'endemica instabilità governativa. Persone la cui unica sistemazione dovrebbe essere il bagno penale o il carcere psichiatrico, e che invece rischiamo di veder vagare come zombi nei luoghi del paese che il caso assegnerà loro – e lungo percorsi che potrebbero essere gli stessi nostri.
Accadde nei primi ani '90 con la caduta dei regimi di Enver Hoxa e Nicolae Ceausescu, la cui feccia criminale prese, seduta stante, con sconcertante lucidità, la strada dell'Italia come piccole tartarughe istintivamente guidate verso il mare. La macrocriminalità dell'est-Europa, ben consolidata nel nostro paese, si ascrive a questa origine.
Da italiano, il pensiero che oltre alla prona accettazione di cotanta minaccia noi si debba anche tollerare, in mare, la presenza di fantasmatiche organizzazioni non-governative le quali, non investite dalla problematica, riverseranno sulle coste italiane, indiscriminatamente ed illegalmente, la popolazione umana qui descritta, mi riempie di rabbia e foraggia il mio antieuropeismo, ormai divenuto galoppante.
Vi sono soggetti – Carola Rackete è sicuramente tra questi – la cui concezione della legalità risulta essere qualcosa di estremamente mobile, fluido. E, similmente ai liquidi, perfettamente adattabile ad ogni contenitore.

Sconfinare in acque italiane, dopo aver incrociato quelle internazionali e libiche; forzare il blocco imposto dall'autorità marittima competente; sbarcare disperati che, in quanto tali, non dispongono di documentazione alcuna; fare ciò con un natante battente bandiera olandese; esibire, quando interrogati dal magistrato, passaporto tedesco a mo' di salvacondotto, ma pretendere che sia esclusivamente il nostro paese a farsi carico dello sbarco, ecco: mi sembra sinceramente inaccettabile.

Rincaro la dose: Giulio Regeni è morto per avere effettuato attività di ricerca in un paese nel quale vigeva - e mi sembra viga ancora - lo stato di emergenza. Condizione che, a ben vedere, si adatterebbe coerentemente anche all'Italia. Carola Rackete sembra non realizzare le conseguenze che un'iniziativa privata, per quanto patrocinata da un ateneo od un'associazione non-governativa, può avere in un paese soggetto ad emergenza. Fortuna vuole che l'Italia non è l'Egitto. O, almeno, non ancora.

L'impressione che se ne ricava è quella di una gioventù alla ricerca di una causa il più possibile nobile in un mondo che non ne offre, e che nel fare ciò finisce implicata in vicende più grandi di essa .

Ribelli senza causa.

Proprio come quelli raffigurati da Nicholas Ray 64 anni fa.

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