domenica 27 agosto 2017

HAPPY. La Ricerca Della Felicità rivisto a distanza di un decennio.


A distanza di oltre dieci anni, ho rivisto La Ricerca Della Felicità, il film che sancì l'ingresso di Gabriele Muccino nel circuito delle mega-produzioni statunitensi.
Molto acqua è passata sotto i ponti, da allora. Per il mondo (il film, che narra della risalita dalla rovina finanziaria, venne girato due anni prima del fallimento di Lehman Bros.). Per Muccino (il Gabriele nazionale è, in quel di Hollywood, un resident director apprezzato e premiato). Per chi scrive (sono padre di una bambina che ha, oggi, la stessa età del piccolo co-protagonista).
TRAMA
San Francisco, 1981. Chris Gardner è un uomo di colore, impiegato nel settore delle vendite. Gli affari non vanno bene, peggiorano a vista d'occhio. La sua precaria situazione sentimentale collassa, e ai problemi occupazionali si aggiunge la custodia del figlio. Per i due ha inizio un'inesorabile discesa verso l'indigenza, con tanto di sfratto, notti all'addiaccio, mense e dormitori pubblici. Chris non si arrende, però: oltre a chiudere con le pregresse situazioni debitorie, conquista a fatica (deve affrontare un lungo stage non retribuito) un impiego dignitoso dal quale ha inizio la personale riscossa. I titoli di coda raccontano allo spettatore che, nel 2006, il protagonista ha realizzato una fortuna milionaria vendendo una quota dell'azienda di investimenti da egli fondata 20 anni prima. Quella di Chris Gardner è una storia vera. The end.
SVOLGIMENTO
La rappresentazione che Gabriele Muccino fornisce di questa vicenda, sebbene apprezzabile da un punto di vista tecnico, non è di natura meramente cinematografica, bensì teatrale, un debole presente già allora nella sua produzione come in tantissimo altro cinema (si riveda, a suffragio di questa tesi, la bella sequenza di meta-arte in Ricordati di Me, che tanto deve a Magnolia di Paul T. Anderson, dove la narrazione trova svolgimento e risoluzione nel corso di una recita teatrale; e non si dimentichi che è proprio dopo avere visto questo film che Will Smith ha espresso il desiderio di essere diretto da Muccino). Questa del suo esordio americano è, a tutti gli effetti, una riuscita rappresentazione edificante e moraleggiante come piace agli Yankees, ma priva – si suppone per scelta - di quella visione che dovrebbe, invece, essere propria di un'opera cinematografica. Narrazioni. Racconti. Molto ben fatti. Ma nessuna visione spiccatamente cinematografica.
La felicità sbandierata nel titolo (fedele all'originale The Pursuit Of Happyness) è qui candidamente confusa con la dignità (ma va da sé che, quando accetti di farti produrre per 55 milioni di dollari da una major statunitense e sei all'esordio in quel contesto, certe debolezze vanno accettate acriticamente). I fantasmi dei padri fondatori distorcono la visione USA delle cose. Felicità è, per l'americano medio, il successo lavorativo conseguito attraverso l'adeguamento al sistema, esentando quest'ultimo da qualsivoglia critica. È questo il messaggio che trapela dalla pellicola: il sistema che abbandona padre e figlio all'indigenza, è lo stesso che permette al protagonista di ottenere un posto di lavoro degno di questo nome. Non v'è ricerca alcuna: solo un mettersi al riparo nelle pieghe subdolamente confortevoli del sistema. Sebbene il protagonista affermi, sul finale, che la difficilissima, sfiancante, conquista del posto di lavoro rappresenti per lui quello che realmente è la felicità (significativo il fatto che la battuta venga pronunciata su di una sequenza dove Chris Gardner, fresco di assunzione, scende fiero in strada per unirsi alla massa fino a scomparire quasi del tutto), quella cui si assiste è in realtà ben altro tipo di ricerca. Questo padre che, di fronte al figlio, lotta per essere un padre della legge e un padre capace di fornire una testimonianza (la definizione è di Massimo Recalcati), per fare sì che l'ultimo faro nella notte del suo piccolo non si spenga lasciandolo senza speranza; che sa offrirgli protezione; che sa preservare la sua innocenza; che non rinuncia allo studio e alla crescita personale persino nel più tragico dei frangenti – e grandiosamente interpretato da Will Smith, in primi piani di profonda disperazione umana ed immensa dignità genitoriale, capaci di fornire allo spettatore la vera misura morale di questa vicenda -; questo padre è, piuttosto, alla 'ricerca della dignità' - intento nobile ed umanissimo che consegue, prima ancora che con sé stesso, agli occhi imploranti del suo piccolo.
È impensabile che un'icona come Will Smith non abbia intravisto, nell'accettare questo ruolo, anche un'occasione per riaffermare il proprio orgoglio nero (Opportunismo, il suo, del tutto giustificato, comprensibile e condivisibile. Si ricordi, infatti, che il film venne girato un anno dopo l'attraversamento di New Orleans da parte dell'uragano Katrina, evento che, oltre al passare agli annali per la straordinaria scia di morte lasciata lungo il cammino, definitivamente chiarì al mondo intero quello che era al momento il peso specifico della comunità nera negli Stati Uniti d'America: nullo.).
La Ricerca Della Felicità sembra proprio un film il cui messaggio è sfuggito di mano ai suoi stessi autori.
La Ricerca Della Felicità è un film sul padre.

martedì 15 agosto 2017

THE BIRTHDAY PARTY. L'ipocrisia degli auguri su Facebook.


Larry Mullen Jr., cui, penso, le richieste di amicizia su FB - ed ogni altra piattaforma sulla quale gli U2 abbiano cacato - non manchino di certo, ha dichiarato: “Ho all'incirca un manipolo di amici e qualche conoscente.” (“I've got about one hand of friends (holding up five fingers) and a few acquaintances.” - Q Magazine, agosto 2001).
Detto questo, mi sono spesso chiesto cosa si celi dietro gli auguri di compleanno su FB. Cosa obblighi così tanti di noi, cioè, ad augurare i famosi “100” o “1000 di questi giorni” a soggetti dei quali nulla ci importa, nemmeno se morissero vaporizzati (salvo poi approfittarne per la composizione di tristissimi necrologi del tipo “Ciao, folletto”, “Se sei un vero amico, condividi”, “Se Tizio vive ancora nel tuo cuore, raggiungiamo un milione di 'like'”, “Condividi!”, necrofilia 2.0).
Un anno fa, circa, ho 'smanettato' a dovere sulla pagina privacy di FB, sostanzialmente inserendo ulteriori limitazioni all'accesso dei dati cosiddetti sensibili, e di fatto eliminando l'accesso al compleanno. Risultato: dei tanti-auguri-ste, auguroni, grande-ste-auguri, auguri-grande – e chi più ne ha più ne metta -, neanche uno. Nemmeno un tossico anni-'70 si è ricordato del mio natale.
Nulla di che. Il mondo proseguirà indisturbato il suo percorso entropico, così come io il mio costellato di cazzi miei. Proverò, però, a tentare una spiegazione per quella che è una vera e propria diserzione.
Nel mondo dell'amicizia virtuale, quale è FB a tutti gli effetti, stabilire una confidenzialità legata alla venuta alla luce di un qualsivoglia cretino che abiti la piattaforma, ricalcola di fatto il peso specifico del legame con questo, in base al livello di affettazione impiegato nella prosa di augurio (quasi sempre identica, a livello planetario: cioè, mai letto auguri del tipo hey-auguri-grande-maestro-del-fist-fucking - sia mai detto che noi si riconosca le qualità altrui, “oh no”).
Rispondere in maniera entusiastica ad un algoritmo (perché questo è, in soldoni, l'augurio di compleanno su FB) asseconda più il bisogno del mittente che quello del destinatario. E il bisogno è: non essere noi stessi dimenticati, la paura, del tutto inconscia, che, un giorno, magari molto presto, le cose andranno irrimediabilmente male, ed allora si avrà tutti davvero bisogno di un amico. Il migliore e più vero. Non si spiega altrimenti il 100% di amnesia da parte di coloro che solo un anno prima avevano intasato la tua 'bacheca' con auguri altisonanti. Non tanto ricordare, quindi, quanto essere ricordati. O, dal momento che te ne dimentichi per il solo fatto che il tuo account YouPorn non lo ha notificato, va da sé che il babbeo in questione (me, in questo caso) non è la persona che, in caso di avvento di profezie criogenetiche, vorresti avere accanto per gli abusati mille-di-quei-giorni.
E così ci siamo capiti.
Anton La Vey sosteneva che il vero satanista avrebbe dovuto celebrare il proprio compleanno come la più importante della festività annuali. Sono forse satanista, allora?
Dal momento che nessuno di noi possiede il dono della Verità, sbarazzarsi di tutto quanto si reputa ipocrita o poco sincero, è già da considerarsi un bel passo in avanti. La verità, l'unica verificabile, è che siamo soli. Siamo soli, ed in questo universo rappresentiamo qualcosa di importante per quattro, cinque esseri umani al massimo, come affermato con grande sincerità da Larry Mullen.
Forse proprio quegli auguri che ci sforziamo tutti insieme di inviare virtualmente a profusione – tutte quelle faccine sorridenti, i punti esclamativi, i riconoscimenti di grandezze non meglio specificate - non denunciano altro che la paura – sia chiaro, del tutto giustificata – che persino il festeggiato, un domani, possa dimenticarsi di noi come ci si dimentica di un ombrello o di una fusciacca. Senza darvi troppa importanza, cioè.
Io, quel tipo di augurio non lo volevo più. Per questo, come ho detto, ho eliminato il compleanno dal profilo pubblico di FB.
Ma non riceverne neanche uno, quest'anno, mi ha colpito e fatto sorridere.

mercoledì 2 agosto 2017

IL PROFESSORE. La difesa della cultura nell'era del relativismo.


Attilio Piovano è un fine musicologo, del tipo che ci si aspetta da chi, vantando natali sabaudi, sceglie professionalmente questa via: coltissimo, francofono, ottimo pianista, intelligenza pronta, snob come non può non essere un intellettuale di simile caratura. Del suo apporto si avvalgono puntualmente La Stampa ed il Teatro Regio di Torino, ed è voce ascoltata del panorama musicologico contemporaneo. 
25 anni fa è stato il mio docente di Storia della Musica.
Il professor Piovano, nonostante già a quel tempo vantasse tutte le caratteristiche sopra descritte, non riuscì a fare di me un allievo modello (detto per inciso: Attilio Piovano è esente da ogni colpa), ma le sue lezioni, molte delle quali indimenticabili e svolte dallo stesso al pianoforte, hanno aperto porte che ancora oggi attraverso, e dietro le quali sempre mi riesce di trovare stimoli intellettuali leggibili per mezzo delle sue osservazioni e dei suoi consigli. Da allora non ci siamo più rivisti.
Pagato questo tributo di soggezione ultraventennale, il perché di tutto questo amarcord è presto spiegato. Il professor Piovano si è di recente reso protagonista di un gesto dall'alto valore simbolico che ha subito suscitato tutta la mia simpatia e la mia approvazione. Ne sono venuto a conoscenza tramite un post dello stesso professore, commentato da un amico.
In attesa di imbarcarsi all'aeroporto di Caselle, ha avuto la malaugurata fortuna di imbattersi in uno dei musicisti che, in tempi recenti, sempre più spesso le società di gestione ingaggiano al fine di addolcire le attese sempre più lunghe del trasporto aereo. Ad orecchie 'non allenate', la sensazione che si prova può rasentare il paradisiaco. A padiglioni educati, però... È sofferenza allo stato puro. Mi immagino la scena (e Dio sa quanto avrei voluto assistervi):
- Buongiorno. Mi scusi: a nome di tutti i presenti la informo che la misura è colma. Si faccia da parte, per favore.

- ...

Estrae dalla zaino la partitura (azione documentata fotograficamente) ed attacca, ieratico, un brano di Claude Debussy.

Scrive, il professore, sul proprio profilo FB:
...ebbene sì, qualcuno doveva pur farlo lo sporco lavoro: dopo il solito ragazzino che massacrava Per Elisa e il tizio che si beava cincischiando Allevi e le sue cianfrusaglie... E fu così che a Caselle risuonò il Passepied dalla Suite bergamasque. Peccato sia arrivato l'annuncio che il gate era aperto. C'erano i Preludes...”
Ora, non mi permetterò, qui, di dissertare sulla musica francese a cavallo tra ottocento e novecento, specie dopo avere chiamato in causa un esperto come Attilio Piovano. Ciò che mi preme sottolineare è l'ironico “sporco lavoro” con il quale il professore tradisce la fatica quotidiana, da parte di tutti coloro che si occupano professionalmente di musica, del difendere un'arte sempre più bistrattata a livello educativo, manipolata a livello commerciale, e strumentalizzata, dal suo interno, dai residenti di quella zona grigia così ben rappresentata dal giustamente citato Allevi. Le persone, inebetite da un continuum musicale che non concede spazio più per riflessione ed approfondimento (l'Infinite Jest profetizzato da D. F. Wallace), non sono in grado di realizzare che il saper leggere uno spartito ed il muovere le dita con precisione su di una tastiera, per quanto apprezzabili, sono gesti insufficienti ad una lettura veramente estetica di molta della musica conosciuta. In un paese dove tutti, ormai, dichiarano di suonare, ma in cui solo una ristretta minoranza vanta un'educazione musicale di base, il gesto di Attilio Piovano è davvero uno “sporco lavoro” che qualcuno doveva pur fare. Riportare la pratica della musica ai suoi veri valori (la passione, la dedizione, lo studio approfondito, la cura del dettaglio), attraverso la propria, personale interpretazione.
Uno “sporco lavoro” del quale si avverte sempre di più l'urgenza. I competenti ed i talentuosi hanno oggi sempre di più il dovere morale di correre in soccorso di una nazione che, nell'insieme, ha perso ogni possibile concezione del bello. È il solo modo per arginare l'ondata inarrestabile dei ciarlatani della musica. In maniera spontanea. Come ha fatto – ribadisco – simpaticamente il professore.

venerdì 28 luglio 2017

TUTTI ESAURITI. Lo sconcertante fenomeno del 'sold-out'.


Siamo franchi: il 90% dei concerti spacciati come “evento dell'estate” (e quali non vengono oggi presentati come tali?), in ambito di musica leggera o 'di consumo', sono vere e proprie bufale.
Avete mai notato come questi supposti “eventi” registrino puntualmente il tutto-esaurito a prescindere da artista e location? Ricordo concerti negli anni '80 con strutture riempite a meno della metà, e di un'assoluta mancanza di sorpresa, o delusione, nel constatare ciò da parte del pubblico (che anzi si sentiva in tal modo rafforzato nella convinzione di avere operato una scelta alternativa, poco commerciale, in alcuni casi persino di nicchia).
Oggi, in questa era dove l'evento risulta annullato da cartelloni di assoluta omologazione al rito del mega-concerto (qualcuno di voi è forse in grado di evidenziare una differenza tra un concerto dei Muse, uno degli U2 e quello recente di Vasco?), non solo i grandi promoters danno per scontato il sold-out (per dirlo nel loro gergo volgarissimo): vengono persino subissati di domande per date aggiuntive (spesso rifiutate perché l'agenda stessa di questi ambulanti del tutto-esaurito non lo consente). Lo spettatore, in piena sindrome di Stoccolma, prolunga la propria schiavitù e se ne accolla financo le spese.
Ricordo un'intervista a Bono, risalente al tempo dello Zoo Tv Tour, nel quale il Nostro, evidentemente ancora non completamente sepolto dal proprio ego, si lasciò andare ad un'esternazione a metà tra la battuta ed il lapsus. Chiamato a commentare quella che, alla storia, si sarebbe affermata come il prototipo di tutte le mega-produzioni a venire, e di molte di quelle odierne, ebbe a dire: “Beh, invitiamo le persone ad uscire di casa, e quello che facciamo loro vedere è... della televisione (risata).”. Ed è esattamente questo, con pochissime, eccellenti eccezioni, ciò che accade oggi: si paga per della televisione. Quasi sempre ad altissima definizione. Raramente di altissima qualità (e viste le cifre richieste, v'è ben da pretenderne).
Da quella dichiarazione, tutto è cambiato (e quando parla Bono, nel rock, è come quando si pronuncia il papa: può non piacere, ma si è costretti ad ascoltare). I concerti hanno cessato di essere appuntamenti dedicati alla sola musica. Quelle che erano le loro sedi storiche e deputate si sono improvvisamente rivelate inadeguate alle nuove esigenze. I prezzi dei biglietti hanno subito un'impennata sensibile ed inarrestabile. Molti musicisti, incapaci di adeguarsi al nuovo standard – o renitenti ad esso –, sono usciti dal grande giro. Altri, mediocri ma maggiormente adattivi, ne sono diventati residenti in pianta stabile. Il visual artist ed il regista sono divenuti membri occulti ed insostituibili di molti nomi celebri.
Pensiamo per un attimo, parlando di sedi, all'Arena di Verona - con buona pace degli incompetenti, uno dei luoghi per concerti all'aperto più belli al mondo. Fino ad una quindicina di anni fa era percepita, da artisti e pubblico, come meta, punto di arrivo ed altare di consacrazione di poche, elette carriere in ambito musicale. Oggi sta in affitto esattamente come un palazzetto dello sport. Chiunque con sufficiente faccia tosta e la richiesta liquidità può divenirne re per una notte. Grazie a promoters e managers spregiudicati, nella bella stagione l'Arena celebra ad altissima frequenza eventi sold-out spacciati come unici ed irripetibili (salvo poi divenire appuntamenti fissi lucrosissimi, visto che sembra non esserci uno spettatore in grado di opporsi a questo canto di sirena - cosa studiata e risaputa dalle aziende del settore, che in questo modo continuano a campare allegramente).
Si è persino arrivati, in occasione delle recenti date italiane degli U2, alla vendita di biglietti “con visuale ostruita”(!). (Va da sé che, se si è disponibili ad un simile acquisto, semplicemente lo si merita, ci si merita un'esistenza “con visuale ostruita.” ).
Quattro chiacchiere con 'l'uomo della strada' (visti i soggetti con i quali recentemente ci si deve rapportare, mai definizione fu più azzeccata) sono spesso sufficienti a far emergere un effetto collaterale di questa situazione di sfruttamento. Le persone non sono in grado, psicologicamente, di reggere la propria esclusione dall'evento catalizzante. Le tante piccole, private esclusioni che già si tollerano nel quotidiano lasciano a pochi la forza necessaria per resistere ad una invece pubblica, spacciata come imperdibile da una promozione sistematica e martellante. È più una condizione da seduta psicoterapica che da associazione consumatori.
Si faccia bene attenzione: l'attuale stato di cose è funzionale al sistema di promozione e vendita. Mancanza di cultura generale, di educazione musicale nello specifico, e prospettiva di esclusione possono portare a scelte inattese e sorprendenti.
Nel corso di uno zapping serale, sono imbattuto nella differita del concerto – chiaramente “sold-out” - di Laura Pausini. Di fronte ad una folla immensa - che tempo fa avremmo definito 'per pochi', e che oggi probabilmente si presenterebbe anche per Mariano Apicella -, la Laura nazionale, dichiara – urlando come suo solito-: “Sono innamorata di voi!”.
“Strani amori mettono nei guai”, cantava tempo fa...
MA ERA... LAURA!
È curioso: in questo modo popolato d'odio, c'è chi afferma il proprio amore per tutti noi come in una rinnovata summer of love.
Diffidate delle imitazioni.

sabato 15 luglio 2017

Dieci Piccole Grandi Cose


In questa stagione di caldo asfissiante, natiche scoperte, ostentazione di tatuaggi improbabili, comportamenti coatti e disperazione assoluta (in parole povere, in questa ennesima estate 'dimmmerda'), ecco, in omaggio al mitico Cuore, le...
DIECI COSE PER LE QUALI VALE LA PENA VIVERE!
Fatti, persone, musiche, film e parole in grado di fornire testimonianza, ispirazione, visione del mondo, esempio. Meglio: in grado di dare – o ridare – speranza a chi ancora la cerca o ne sente il bisogno.
1) IL CINEMA DI PAUL T. ANDERSON
Dall'esordio di Cigarettes & Coffee a The Master, 20'anni più tardi, due decenni di grandissimo cinema che forse prima di lui arrisero solo a Stanley Kubrick. Talento autodidatta, ha regalato ai cinefili del mondo momenti memorabili. La sequenza del dialogo maestro-allievo tra Philip Seymour Hoffman e Joachim Phoenix è già assurta a gloria imperitura. Gioia per gli occhi. E per il cuore. Tutto da vedere.
2) IL JOSHUA REDMAN QUARTET
L'età media di questa incredibile formazione, al tempo del disco d'esordio, Wish, era di 22 anni (!). Suonarono insieme per tre incidendo due soli dischi, e producendosi in performances che lanciarono ognuno suoi componenti in carriere di successo nel jazz contemporaneo. Un esempio di quale e quanta creatività sia propria dei giovani quando è presente passione e dedizione. Un esempio per tutti gli sbarbati.
3) MARCO PAOLINI RACCONTA IL VAJONT
In un paese ormai dichiaratamente semianalfabeta, nulla è più efficace alla rieducazione di una storia ben raccontata. Vajont - Orazione Civile narra in tempo reale della frana per incuria che nel 1963 fece strage di 2000 anime innocenti. Un monologo mozzafiato di tre ore e un quarto che Paolini porta al climax con un grido (“Adesso!”), precisamente alle 22:39, l'ora del distacco della frana. Impossibile non uscirne profondamente scossi e turbati. Da applauso ininterrotto.
4) LA VOCE DI ROGER WATERS
Con buona pace dei tanti ottusi fans dei Pink Floyd, mai la voce di Roger Waters ha suonato così profonda, limpida e ispirata come nel disconosciuto capolavoro The Final Cut. Nel brano omonimo il perfetto equilibrio tra cantato, parlato, adesione al testo e pronuncia strappa a David Gilmour il solo più lirico e straziante della sua carriera, roba da lacrime agli occhi. Dopo quella registrazione, i due non si sarebbero più parlati per oltre 20'anni. Fantastico.
5) GLI EDITORIALI DI INDRO MONTANELLI
Checché se ne dica, gli editoriali che 'il direttore' scrisse sul suo Il Giornale rimangono un esempio straordinario di coraggio, libertà di pensiero, scrittura rapida e leggera. Gli valsero quattro pallottole in corpo e tutta una serie di travagli personali che lo segnarono nel profondo. Quello scritto all'indomani della strage di Bologna, Se, in particolare, è un vero e proprio manifesto di individualismo anarchico, disconoscimento di ogni ideologia e rabbioso grido di giustizia per gli innocenti di tutto il mondo. Da inserire nei programmi scolastici.
6) GLI SCRITTI DI LESTER BANGS
Le stars della musica fanno molto più schifo oggi che ai tempi dello zio Lester. Le loro produzioni spesso non sono da meglio. Eppure ci si guarda bene dal criticarli come meritano. E questa, da sola, sarebbe ragione sufficiente per rileggere gli scritti sulla musica del più grande scrittore americano del '900. Per la nascita – o rinascita - di uno spirito critico; per un rinnovato rispetto della nostra personale sensibilità; per preservare l'arte musicale dal saccheggio dei predoni; per una scoperta – o riscoperta – della controcultura. Ma sopratutto per capacitarsi di quale grande risorsa intellettuale può costituire una critica musicale che si distacchi coraggiosamente dal mainstream. Buona lettura.
7) QUELLI DI GROCK
C'è una compagnia di teatro, a Milano, che 40'anni rivisita i classici da una prospettiva circense, ispirata al leggendario clown Grock. Può sembrare fuorviante. La verità è che assistere ad una loro rappresentazione significa fare esperienza di un teatro che si rinnova nella fisicità del corpo e della parola. Sono spettacoli di straordinaria vitalità, dove le odierne nevrosi prendono la forma di maschere del passato. Attori fantastici e zero noia. Da vedere almeno una volta nella vita.
8) DANIELE LUTTAZZI
Per tanti è un comico (sbagliato). Per i più quello inculato da Berlusconi (sbagliato). Per altri ancora il tizio che copiava le battute dal Letterman Show (sbagliato). Daniele Luttazzi è un genio della satira, autore di battute dall'impatto devastante e di trasmissioni televisive che hanno messo all'angolo persino le menti più adattive. Spin doctor e medico mancato, ha analizzato la propria arte in libri che sono al contempo trattati di fenomenologia e saggi di comunicazione. Se volete farvi una cultura e un po' di grasse risate, è l'uomo che fa per voi.
9) THOM YORKE
Vero e proprio signore del suono, manipolatore e sperimentatore di materiale audio, è sicuramente la voce più ardita del panorama indie ed electronica. Dai dischi come solista al side project con Modeselektor – e tralasciando, in questa sede, il lavoro con i suoi Radiohead -, Thom Yorke si pone sulla scena musicale come instancabile creatore e ricercatore. Perla assoluta: il brano Hearing Damage, inserito nella colonna sonora dell'adolescenziale The Twilight Saga: New Moon. Nomen omen. Ascoltare per credere.
10) LA NAZIONALE ITALIANA DI PALLAVOLO 1989-1996
Nell''89 i professionisti della pallavolo, in Italia, erano retribuiti né più né meno quanto dei lavoratori co.co.co.. Il livello della pratica era basso, i risultati irrilevanti. Guidati dal carismatico Julio Velasco e da uno spirito di sacrificio impensabile per tanti campioncini di oggi, vinsero tre mondiali di seguito, passando alla storia come “la generazione di fenomeni”, e gettando le basi della iperprestante pallavolo odierna. Allenamenti sfiancanti, umiltà, carattere, coesione. Altro che vittorie ai rigori.

mercoledì 7 giugno 2017

30. L'Età Dell'Innocenza.


Sebbene pubblicato nel marzo di quell'anno ed io fossi un loro fan già da tempo, ricordo di non averlo acquistato nell'immediato, e di avere ascoltato le sue note per la prima volta quando già era settembre. Lo ricordo bene. Perché fu tale e tanta l'impressione che ebbe su di me quell'ascolto da averne associato al ricordo il tempo (la fine di una bellissima estate) ed il luogo (la casa di un amico stronzo) in cui si tenne.
The Joshua Tree, l'album della svolta Americana degli U2, compie 30'anni. Tanto è passato, cioè, dal pomeriggio nel quale i tre accordi di organo in fade-in e la chitarra in delay di Edge – una delle introduzioni più memorabili della storia del rock - fecero irruzione nella nostra vita adolescente, letteralmente fermando il tempo in maniera indefinita. Un'atemporalità che, in gioventù, non mi fu più dato modo di sperimentare.
È passato così tanto tempo che l'America idealizzata dai solchi di quel vinile è divenuta l'America di Donald Trump, di un potere becero e personale, della fine del 'sogno' in ogni sua rappresentazione (mi si dirà che lAmerica reganiana, l'America dell'Iran-Contras, nella quale The Joshua Tree venne inciso non era politicamente migliore di questa – che è vero -, ma quantomeno il 'sogno' ancora reggeva, si viveva di un ultimo bagliore di illusione).
Questa personalissima considerazione sembra però essere anche il presupposto, ventilato da Edge, con il quale gli U2 si sono imbarcati, il mese scorso, in un tour celebrativo che, da rituale, ripropone The Joshua Tree per intero nella sequenza originale. Opporsi a Trump con il revival di un disco di 30'anni fa. Presuntuoso, no? Disco che 'il nostro' non solo non avrà mai acquistato per il semplice fatto che, quanto a gusti musicali, sarà suppergiù dalle parti di Dolly Parton, ma soprattutto perché, se nel 2016, a 70'anni, sbaragli ogni logica partitica e di schieramento e ti insedi alla Casa Bianca, va da sé che con ogni probabilità a 40 non stavi in fila fuori dalla Tower Records ad attenderne una copia fresca di stampa. Il che, per tornare a noi, fa degli U2 degli amabili paraculi (e non dimentichiamo che qui si parla di gente che pur di apparire accetta di essere ripetutamente intervistata, di stagione in stagione, da Fabio Fazio, come dire che anche il culo di un mulo va bene, l'importante è accoppiarsi).
Riascoltato oggi, The Joshua Tree mostra sommessamente tutti i suoi anni (30 per un disco sono come 30 per un cane). L'opacità analogica della registrazione (riscontrabile già allora), una certa rovinosa propensione al singolo (I Still Haven't Found..., With or Without You), misticismo prêt-à-porter (In God's Country). Rimane un album storicamente importante, ma non imperdibile (lo era, per fornire un esempio, The Unforgettable Fire). In compenso, Bullet The Blue Sky mantiene inalterata tutta la sua potenza politica ed evocativa. Il solo di chitarra (strepitoso) che segue il parlato rimane uno dei momenti artisticamente più alti della premiata ditta Edge & Bono. Running To Stand Still, non avendo conosciuto il successo commerciale, rimane la vera ballad del disco. One Tree Hill un bell'esempio di franchezza. Ed Exit, con le sue esplosioni musicali e le sue liriche di un lucido deragliamento umano, si conferma come la classica perla nascosta – e dimenticata.
Mothers Of The Disappeared chiude tristemente il disco secondo una logica che gli U2 o i loro produttori, in quegli anni, non hanno mai tradito: l'ultima traccia è sempre una fottuta ballad. La prima di molte canzoni da accendino che di lì a poco avrebbero portato gli U2 definitivamente nel campo della mega-produzioni. La gioventù ormai bruciata di Bono – in quell'anno ventisettene proprio come il 'giovane bruciato' James Dean – necessitava di una causa all'altezza delle proprie ambizioni pontificie. E cosa di meglio dei desaparecidos, l'apartheid, Nelson Mandela, Desmond Tutu, e poi Amnesty International e Greenpeace, tutti finiti nel tritacarne di una ben architettata strumentalizzazione?
“Gli U2 hanno girato un omaggio da venti milioni di dollari alla propria irreprensibile moralità e alla sempre meno mascherata megalomania di Bono.” Sono le parole, come sempre precise e penetranti, con le quali David Foster Wallace liquidò l'autoproduzione da parte della band di Rattle And Hum, il bel film di Phil Janou che documenta in poco più di un'ora e mezza le 109 date dello Joshua Tree Tour del 1987.
Da allora il processo non si è più fermato. L'elefantismo di Bono e compagni ha raggiunto livelli e risultati verificabili in maniera autonoma, e che quindi vi verrano risparmiati in questa sede.
Cosa resta, allora, di quel tempo? Resta l'immagine di un albero nel deserto, un segno di vita nel luogo della morte e della tentazione bibliche, un'ombra protettrice e l'idea che radici profonde possano attingere a risorse inaspettate. Quattro ragazzi irlandesi che forse, sul ramo lungo di quel vecchio albero, vi trovarono attorcigliato un serpente altrettanto vecchio che fece loro 'una promessa'. Un pomeriggio di fine estate e la sensazione che qualcosa di meraviglioso stesse per accadere proprio lì, in quel momento.
Nell'anno 2000, l'albero di Giosuè, lo Joshua Tree immortalato dagli scatti di Anton Corbijn, e da allora attrazione -feticcio del parco del Mojave Desert, è stato abbattuto.

domenica 28 maggio 2017

Breaking News


Non me ne frega niente
(Levante)
It's too much information for me
(Duran Duran)
Mio padre aveva un rito, in pensione. Uscita subito dopo la colazione; sosta in edicola; copia del Corriere Della Sera; di nuovo a casa; lettura del quotidiano dalla prima all'ultima riga, necrologi compresi. Quando ancora lavorava, il rito era limitato al fine-settimana. Era un gesto tanto frequente e regolare da essere legato al ricordo che ho di lui.
E così sono cresciuto – complice un maestro elementare che leggeva noi La Stampa – come un avido e compulsivo lettore di quotidiani. Principalmente, il Corriere Della Sera. Segretamente, Il Manifesto. Facevo rassegna stampa acquistando più quotidiani, perdendo diottrie, ma, soprattutto, sprovincializzando la mia personale visione del mondo.
Oggi, invece, quasi 20'anni dopo, sono capace di restare per giorni a digiuno d'informazione, senza peraltro soffrirne. Anzi: guardandomi bene, a volte, da persino visitare un sito d'informazione, per quanto ben gestito ed affidabile. Sono arrivato al punto da acquistare occasionalmente copie cartacee di quotidiani scelti a caso solo per impiegarli nella pulitura dei vetri di casa (la loro grana speciale consente una detersione perfetta, senza aloni). E non si citi la rivoluzione digitale come facile spiegazione. Che è successo, quindi?
In quella che è, oggi, la mia vita adulta, non v'è spazio per gestire la mole spaventosa di informazioni che siti web e quotidiani spacciano per rilevante. Anche dando a questi organi la massima fiducia, mi è possibile, al massimo, operare un'ulteriore cernita di ciò che ritengo sia da considerarsi estremamente rilevante. Fatto ciò, permane il problema di portarne a termine la lettura entro la giornata e con un adeguato livello di attenzione - oltre a quello del tempo da dedicare a letture di studio e di apprendimento, senza il quale verrebbe a mancare l'apparato culturale per una seria interpretazione dei fatti.
E poi c'è da dire che davvero “non me ne frega niente” delle tante grandi e piccole tragedie private - quali sono, ad esempio, certi fatti di 'nera', altri di mera cronaca e molti di 'giudiziaria' – che troppo spesso 'l'informazione' spaccia come di pubblico dominio ed interesse, ma in realtà non sono altro che riempitivi per vuoti ideologici, di pensiero e tipografici. Separare la fuffa – che è tantissima - dalla notizia degna di approfondimento è un'operazione ad alto dispendio di energie intellettuali - risorse che a volte non ho, a volte preferisco impiegare in altre attività (mea culpa). Fate un giro in quelle spassosissime sezioni, onnipresenti nelle pagine iniziali dei siti d'informazione, dedicate ai temi del giorno più 'cliccati'. Dichiarazioni prive di peso di politici di piccolo cabotaggio e calciatori; l'ennesimo ladruncolo del 'quartierino'; persone scomparse; supposti omicidi passionali; gli sbarchi a Lampedusa; X Factor; marchette editoriali; le foto del giorno; immagini di incidenti stradali, marittimi, aeronautici; gossip a 360°. Sono sempre più convinto non vi sia uno solo di questi pseudo-temi in grado di avere una qualche influenza sul mio quotidiano. Perché a questo deve mirare la notizia: concentrare il lettore sulle conseguenze di gesti quotidiani che fino a quel momento sono stati compiuti con noncuranza – sebbene in totale buona fede.
La nostra è un epoca di grandissimo disincanto. L'impiego della menzogna, oltre al non suscitare più alcuna questione morale interiore, è dato per scontato ad ogni livello ed in ogni àmbito. Certo: vi deve per forza essere, nel vivere civile, una certa dose di ipocrisia. Quanto meno per non darci delle teste di cazzo dal panettiere o all'ufficio anagrafe, per intenderci. Fatto questo, però, devono esistere àmbiti dai quali la menzogna è bandita, vista come inaccettabile ed impraticabile. Ecco: è sulla sussistenza di detti àmbiti che la coscienza comune ha da tempo cominciato a dubitare, seriamente. Di paro passo si è dato sempre più credito alla chiacchiera, per la semplice ragione – spaventevole – che non vi è nulla di più seducente di una verità conclamata, eclatante, assumibile senza alcuna verifica. Questo per sconfinare nel generico.
Per tornare, invece, al personale, non voglio dire che la carta stampata tutta consista di soli ciarlatani e falsificatori. C'è chi lo ha già ripetutamente detto – i cinquestellati –, con la conseguenza di fare - oltre a quella degli 'sboroni' - la figura degli assolutisti e di quelli con il record nazionale di citazioni in giudizio. Farà sorridere, ma quel che penso è che noi tutti - questa nazione di burini imbarazzanti -, nel tempo, ci si è comunque psicologicamente evoluti. Sprovincializzati sommariamente dal giornalismo militante dei '70 e dall'editorialismo principesco successivamente, abbiamo tutti più o meno scoperto di avere un es che pretende ad alta voce di essere nutrito con il solo cibo che lo aggrada. Questa la ragione, che credo possa venire condivisa, del perché, da tempo, io non senta più il bisogno di essere informato, quanto meno quotidianamente.
Il fatto è che troppe testate, oggi – quotidiani in primis –, sono pieni di notizie che, per i singoli lettori, sempre più spesso vengono percepite come indegne di questo status. Non sto parlando di fake news: quella è altra cosa. Se credi allo sbarco degli alieni, semplicemente te lo meriti. Sto parlando di notizie che non vengono passate al vaglio non tanto dei criteri di attendibilità, quanto a quelli della condotta e della coerenza editoriale. Non è di fatto possibile credere che quanto interessa noi sia di altrettanto stimolo per gli altri. Solo una ben definita, trasparente linea editoriale può essere, in questo contesto, di stimolo alla lettura e all'approfondimento. Ma va da sé che con la fine delle ideologie è andato perso anche l'orientamento politico che, come una bussola, guidava il lettore nelle scelte e nei giudizi. Sto sparando nel mucchio, lo so. Ma è esattamente ciò che penso al riguardo.
Una visione del mondo non può essere limitata ad una mera 'cultura dell'informazione'.
L'alternativa è un tipo di formazione che non passa dalla 'rete', non ha più luogo 'sulla strada', e non avviene più per autoformazione.
Avviene attraverso strumenti antichi ricavati dalla cellulosa, soggetti all'usura materiale del tempo, ed in questa nostro paese sempre meno frequentati, molto deprecati, ma anche, sorprendentemente, molto citati.
I libri.