Chi
parla male, pensa male e vive male, diceva il protagonista di
Palombella Rossa. Giudizio tanto severo quanto profetico, a giudicare
non solo dalla sciatteria linguistica con la quale, oggi, si ignora
spudoratamente la differenza tra un sostantivo ed un aggettivo, ma
anche dalla manifesta degenerazione qualitativa dei rapporti
interpersonali, dovuta all'incapacità – cronica, quasi
un'invalidità - a comunicare il proprio pensiero - e senza
includere, in questa sommaria analisi, le omissioni dovute alle tante
nevrosi che attanagliano il vivere contemporaneo.
Ci
so fare, con le parole. O, forse, farei meglio a dire: ho imparato
ad usarle, le parole.
Ho
recentemente riletto alcuni miei scritti, risalenti a più di dieci
anni fa. Con grande imbarazzo, mi sono trovato di fronte ad una prosa
immatura ed inadeguata ai fini prepostimi (la critica musicale e di
costume), tipica delle persone con grandi velleità, ma non avvezze
alla pratica e alle regole della scrittura. Per mia fortuna, un certo
numero di buone letture ed un serio impegno autocritico seguito a
quei primi, modesti tentativi, nel tempo ne hanno mutato la forma,
rendendola così comprensibile ai più (pecche stilistiche ed una
certa pesantezza ancora permangono, ma, si sa, non c'è limite al
miglioramento). A margine di ciò, ha contribuito ad una maggiore
attenzione all'impiego delle parole la motivazione datami dai tanti apprezzamenti
ricevuti in questi primi anni di vita di Sala Colloqui – sebbene
l''eccesso di rialzo' di alcuni di essi sia stato dettato più
dall'affetto e dall'amicizia che legano me ed i miei generosi
ammiratori, che dal reale valore degli articoli apparsi sul blog.
Non
saprei dire quando l'impiego attento della parola, orale e scritta, è
divenuto, per me, di vitale importanza. Sono stato uno studente
mediocre in ogni materia sostanzialmente per l'intera durata del mio
travagliato percorso di studi. Poi, in età adulta, è successo
qualcosa. È fuori di dubbio che, al tempo del primo tentativo su
carta (la recensione di un concerto di Roger Waters), fosse la
necessità famelica di gratificazione personale a guidare lo sforzo,
allora titanico, del dare vita a qualche riga cui poter apporre la
firma (e questo dimostra come la sete di fama, quando assunta a
motore unico della creatività, sia semplicemente garanzia di
memorabili brutte figure). Penso sia cominciato tutto per questioni
legate al lavoro, quando ero addetto alla sicurezza aeroportuale ed ero soggetto all'obbligo normativo di
redigere delle relazioni di servizio. Questo genere di - chiamiamola così - composizione,
generata in ambito burocratico e militare, diede me, nella veste di
occasionale redattore, precetti elementari, presenti in ogni corso di
scrittura: rendere sempre chiaro al lettore chi ha fatto cosa,
eventualmente 'a' e 'con' chi e quando. Così, le tante
incomprensioni dovute alla prosa farraginosa ed al lessico improprio
(eufemismo) dei primi tentativi, si trasformavano in altrettanti
inviti da parte del mio capo a nuove stesure che fossero più chiare,
snelle e maggiormente consapevoli delle persone estranee ai fatti cui
le relazioni venivano inviate per conoscenza. Questo fino a quando
l'orgoglio non ha preso il sopravvento, e l'essere reputato persona
non in grado di produrre una comunicazione efficace mi è sembrato
inaccettabile e poco professionale. Imparare a scrivere, ha
comportato, per me, due obblighi: un ritorno allo studio della
grammatica e un duro lavoro di trascrizione, finalizzato ad
apprendere, attraverso testi di pregevole fattura stilistica, le
soluzioni indispensabili a tutti coloro che intendano rendersi
comprensibili attraverso la parola scritta (una tecnica, quest'ultima, che dai tempi più remoti ha sempre portato a dei risultati: non si dimentichi, infatti, che persino un gigante come Johann Sebastian Bach affinò inizialmente la propria tecnica compositiva proprio trascrivendo le partiture di quelli che egli riteneva essere i grandi strumentisti del suo tempo, esattamente come molti di noi, in tempi più recenti, hanno fatto con quelle del rock, del pop e - per i più arditi - del jazz, sebbene con risultati imparagonabili). Anche la passione per il cinema ha contribuito - e non poco - a fornire modelli di scrittura cui, ancora oggi, sento di attingere incessantemente. La prima sceneggiatura con la quale mi sono confrontato - tanto e tale era stato l'entusiasmo per la pellicola che ne dava sfoggio - fu American Beauty, il bellissimo film di Sam Mendes del 1999, scritta dalle mani di Alan Ball il quale, oltre a fornire un modello esemplare, fu per me la porta verso la scoperta di suoi colleghi altrettanto meritevoli di plauso, quali Aaron Sorkin e Grant Heslov - e la prova vivente che, al prezzo di grandi sforzi, è possibile iniziare una carriera anche dopo i 40 (Ball era quasi sul lastrico quando riuscì a vendere la sceneggiatura che, l'anno seguente, fruttò lui un meritatissimo premio Oscar). Mi sorprende che testi di questa fattura - penso, ad esempio, a The Social Network, del primo, e a Good Night and Good Luck del secondo) trovino spazio esclusivamente nelle scuole di cinema, nel mentre vengono del tutto trascurati dai programmi di insegnamento di scrittura e di lingua Inglese sia alle medie che alle superiori (quando, risaputamente, i giovani ricevono l'imprinting che maggiormente caratterizzarà i loro sforzi in questi comparti nei massimi percorsi di studio come nella vita adulta). Ad oggi, mi sento di dire, pochi altri testi possono mostrare altrettanto efficacemente come si scrive un dialogo (bando all'esterofilia: è giusto ricordare in questa sede due cavalli di razza nostrani quali Paolo Sorrentino ed Umberto Contarello, le cui mani hanno prodotto La Grande Bellezza, una delle sceneggiature più brillanti del cinema italiano di sempre, creativi cui va tributato il plauso per il dialogo della terrazza tra il protagonista Gep e la sua amica Stefania, un scambio al fulmicotone che vale da solo l'intero film).
Il risultato di tutto questo, per concludere, è la frase riportata in apertura. Professionisti da migliaia di euro al mese che si esprimono come semianalfabeti (quali di fatto sono), e che in questo modo tradiscono disamore per la propria attività e quella altrui.
Non è un lapsus: sono errori ripetuti in assoluta inconsapevolezza, e, sovente, mai corretti dagli astanti.
Il risultato di tutto questo, per concludere, è la frase riportata in apertura. Professionisti da migliaia di euro al mese che si esprimono come semianalfabeti (quali di fatto sono), e che in questo modo tradiscono disamore per la propria attività e quella altrui.
Non è un lapsus: sono errori ripetuti in assoluta inconsapevolezza, e, sovente, mai corretti dagli astanti.