giovedì 12 marzo 2020

NOTTE HORROR. Il 'monologo' di Diletta Leotta a Sanremo.


"Essere o non essere? Questo, è il problema."
Ho frequentato il teatro di prosa per un tempo sufficiente a poter dire, con cognizione di causa, che il monologo è genere squisitamente teatrale, nel quale gli attori chiamati ad interpretarlo sono portati, per tradizione, alla propria, massima espressione virtuosistica, similmente a quanto avviene in musica con l'assolo. Si da per scontato che esso – il monologo – sia tributato al più bravo, al fuoriclasse della compagnia, e che da quest'ultimo sia spesso visto come riconoscimento della propria eccellenza, sovente conseguita al prezzo di grandi sacrifici, tipici di questa particolare scelta di vita. Si pensi – per fornire, qui, un esempio pop – alla performance di Jack Nicholson in The Shining di Stanley Kubrick, dove la pazzia crescente del protagonista è resa attraverso i tanti monologhi presenti nella sceneggiatura, e che ancora oggi, a 40'anni di distanza, rappresenta la più grande interpretazione nella carriera dell'attore statunitense (e quanto il cinema abbia mutuato dal teatro di prosa, e sia in qualche modo ed esso debitore, è argomento esaustivamente trattato ed appurato). Esternamente a questi ambiti, però, il termine vanta un'accezione prevalentemente negativa, in quanto connota spietatamente l'atteggiamento di coloro di parlano come da un pulpito, sordi alle parole altrui ed incapaci di dialogare. Per nuovamente esemplificare: il papa, quando parla, tiene un discorso. Piaccia o no, ne ha titolo e, sovente, l'autorità. Ma dire che ha fatto un monologo è invece diplomaticamente irrispettoso ed obiettivamente infamante. Implica un parlare addosso più tipico dei suoi predecessori medievali che dei prelati assurti in tempi moderni al soglio pontificio. Similmente, dire che qualcuno ha fatto un monologo, non è esattamente un complimento.
Per tutti questi motivi, quando YouTube, giorni fa, mi ha proposto 'monologo di Diletta Leotta a Sanremo' per mezzo il suo fantasmagorico algoritmo, la curiosità ha avuto il sopravvento, facendomi così avventurare in sei minuti di imbarazzo, seguiti da giudizi sessisti bestemmiati a voce bassa che non mi è stato possibile trattenere.

Da tempo, al Festival di Sanremo, va di moda impiegare il termine con evidente abuso. Nessuno dei suoi ospiti – e prego tutti di risparmiarmi la descrizione del tipo umano che maggiormente alletta la dirigenza artistica della manifestazione – tiene un discorso: fanno monologhi. Come Laurence Oliver.

E così è capitato anche alla nostra di tenerne uno. Sulla bellezza (un argomento così ricco di asperità che persino i filosofi, quando si occupano di estetica, si guardano bene dell'affrontare con la guardia abbassata). Avevo già avuto qualche sospetto quando, in una recente pubblicità di intimo, Leotta è apparsa in uno spot con tette strizzate e zero battute. Nemmeno uno slogan striminzito (curioso, per una che solo qualche mese dopo riceve un invito a monologare).

Ora, che un uomo, di questi tempi, attacchi una bella figa perché parla, si sa, non porta lontano (a proposito: congratulazioni alle donne di MeToo, che giusto ieri hanno assicurato Harvey Weinstein a 23, meritati anni di reclusione, dopo averlo denunciato in branco e non prima di essersi assicurate rendita a Hollywood e proprietà a Laurel Canyon). Invito pertanto tutti voi a munirvi di un sacchetto per il vomito e a visionare in autonomia il filmato del monologo in questione, che trovate di seguito (se poi ne avete voglia, fatevi due risate leggendo i commenti disparati che questa performance ha scatenato).

Personalmente, rimango con un dubbio – per quanto tutt'altro che amletico -: ma, gli autori del Festival di Sanremo, chi sono? Scrivono queste mostruosità perché vi credono, o più semplicemente, attagliano forma e contenuto al tipo di pubblico cui sanno bene di rivolgersi (quesito retorico: la risposta esatta è la numero due)? Quanto a Diletta Leotta, colpisce l'assoluta assenza di vergogna con la quale si è fatta il processo in diretta televisiva, naturalmente assolvendosi con formula piena (io so' io e voi nun siete 'n cazzo). Ha solo un alibi: l'aver ricevuto un tale compenso da permettersi, dopo questa figura barbina, di farsi dimenticare per un po', magari svernando ai tropici in una struttura sei stelle deluxe (da dove è però certo verrà inviato via social un numero di scatti con maglietta bagnata che nemmeno Salgado in tutta la sua carriera ha numericamente mai fatto).

Dobbiamo, però, essere onesti. Né il Festival né la prestazione di Leotta sono risultati un insuccesso. Tutt'altro. Ottimi indici di ascolto e grande favore per musica, i testi ed ospiti.
Al che si giunge al nocciolo della questione: il pubblico di Sanremo e quello della televisione generalista.
Il primo è vecchio, decaduto, figlio mediocre di quella piccola e borghesia imprenditoriale che, in tempi non sospetti, ha fatto dell'Italia quello che non era: un paese industrializzato. Che in una manifestazione come il Festival vedeva davvero il meritato svago dalle lunghe, spesso dure, giornate di lavoro - e nella presenza all'Ariston l'attestazione di un benessere consolidato. Ha vissuto nell'unica incarnazione concessagli, il baüscia, protagonista della trasformazione della Costa Smeralda in un arcipelago di località da pappone con prezzi da usura, e della riviera di ponente in un buen ritiro a poche miglia dalla salvezza fiscale. Pretendere anche solo un pensiero da una categoria che altro non ha saputo concepire se non il proprio, particolare interesse, è pia illusione. Che la stessa partorisca un pensiero critico di fronte ad un delirio come quello appena ascoltato, fantascienza.

Il secondo, invece, è il popolino ormai stracotto da decenni di palinsesti televisivi a guida unica, completamente defraudato di ogni possibità di scelta razionale, ma non per questo incolpevole della propria situazione. È il teledipedente così come profetizzato da David Foster Wallace, privo degli strumenti culturali - metalinguistici - necessari a leggere tra le righe, ad interpretare parole ed azioni.

Con un siffatto pubblico, Diletta Leotta non ha nulla da temere.

Considerato il successo, c'è da attendersi il bis, con un bel monologo sul sesso.
Speriamo, almeno, ci risparmi gli esempi con nonna Elena.

giovedì 5 marzo 2020

PESCATO DEL GIORNO. Le Sardine in pasto a Maria De Filippi.


Le Sardine ad 'Amici'.
Qualcuno ricorda la gag strepitosa di Bill Murray in Lost In Translation quando, al termine di una giornata interamente passata a ripetere lo slogan della pubblicità per la quale il protagonista è stato ingaggiato, all'educata richiesta di uno sconosciuto riguardo l'ora, risponde: "È l'ora di Santori."?
Ecco: quell'ora è arrivata davvero.
Una decisione forte che rivendichiamo e che ci dà l’opportunità di parlare ai giovani e di portare i nostri valori in un programma che premia il talento.”.
Una decisione forte. Un programma che premia il talento. I loro valori.
Avevo già scritto male delle Sardine già tempo fa, su Facebook, prima di chiudere definitivamente l'account, così consegnandomi ad un solipsismo divenuto funzionale alla mia attuale condizione di fuori-casta a tutto tondo.
E già allora, al tempo della loro comparsa sulla scena politica, le avevo date per spacciate. Profezia oggi confermata dalla sottomissione di Mattia Santori - leader maximo del movimento - e compagni a sua maestà Maria De Filippi ad appena il sesto mese di vita. In fasce, praticamente.
Mi rendo conto, qui, della necessità di essere quanto mai chiaro.
Sono un 50'enne che, in questo specifico frangente, sta tenendo a giudizio dei giovani che, potenzialmente, potrebbero essere suoi figli.
Sono anni che attendo di imbattermi in un giovane con attributi così virili da mettermi a tacere al primo round. Questo è, per me, uno dei compiti delle nuove generazioni: fottere a morte quella precedente. Presentarle il conto e chiedere spiegazioni. Metterla di fronte alle proprie, innegabili responsabilità, e ad una nuova, diversa visione della vita.
Mettiamola così, allora: se questi tre venduti dell'ultima ora che sono i rappresentanti delle Sardine credono davvero di poter parlare ad uno come me e, magari, persino di riuscire a persuaderlo con il loro vuoto spinto, beh: si sopravvalutano davvero.
La realtà, però, è un'altra. E cioè che i nostri eroi ben se ne guardino dal voler persuadere uno come me. Hanno altre e ben più ambiziose mire da perseguire. Tre giovani che non dopo anni ed anni di militanza, dopo essersi per bene scottati e scontrati, bensì sul nascere del proprio movimento calano le brache di fronte a Maria De Filippi, accettandone supinamente l'invito; che si fanno irretire così facilmente dalla promessa di uno spazio libero; che, non paghi di questa palese sottomissione, cerchino persino di sdoganarla ai nostri occhi presentandola come meritocratica, dialogica, valoriale e, nel suo insieme, financo coraggiosa, fa solo pensare una cosa: che i nostri tre eroi abbiano le idee molto chiare su come scalare il sistema, in culo ai meriti, senza doverne chiedere conto a nessuno – tantomeno ai coetanei che dicono di rappresentare – ed in barba ai valori (“la bellezza”, sì, buonanotte) fino a quel moneto professati.
Sono probabilmente andati a scuola meno di Greta Thunberg, ma si sentono investiti (da chi?) della missione di portare noi la luce (quale?). Richiamano tutti alla pratica della bellezza, ma all'uscita del film di Sorrentino stavano, probabilmente, alla proiezione de I Guardiani Della Galassia.
Qui i casi sono due. O il seguito delle Sardine (duole persino conferire loro la maiuscola) è ben più malmesso dei loro fedifraghi leaders – e per questo non si rende conto del vuoto assoluto che li caratterizza – o, più semplicemente, sono come loro e li seguono nella sola speranza di poter salire presto sul carro dei vincitori (pia illusione, visto come gli attuali padroni del vapore li hanno già inquadrati ed irregimentati).
Maria De Filippi è la personificazione di quel potere mediatico, orwelliano, onnivoro e predatorio, negli ultimi decenni promosso fortemente dalla politica, che ha messo la generazione delle Sardine nella condizione indubbiamente disperata nella quale si trova oggi. È la regina incontrastata dei palinsesti tutti, concorrenza compresa – che ben si guarda anche solo dal pensare di interferire con una particolare prima serata presentata o voluta dalla nostra. Dispone – a suo indiscutibile piacimento - di un format per ogni tipo di subcultura dominante: la pietà (C'è Posta per Te), l'arrivismo (Amici), l'infatuazione (Uomini & Donne). E tutti di grandissimo successo. Regna per censo, insomma, ed i suoi talenti – gli stessi che si sforza di individuare strenuamente nei partecipanti di 'Amici' - sono ai più sconosciuti. Giusto ieri l'altro, Nicola Porro (non propriamente la personificazione del giornalismo d'inchiesta, ma va da sé che questo passa, il convento) si è permesso una critica all'acqua di rose ad 'Amici' e De Filippi, proprio sul tema dell'invito fatto alle Sardine. Apriti cielo. Replica immediata di De Filippi e, l'indomani, scuse di Porro e redazione. Insomma: chi tocca, muore.
Che le Sardine, per mezzo dei propri rappresentanti, cedano così mollemente al ricatto del sistema (o da noi o porte chiuse) e lo facciano con parole di elogio per colei che così munificamente lo rappresenta, è un segno che non lascia speranza sull'effettivo valore di quest'ultima generazione.

lunedì 2 marzo 2020

OUT OF ENGLAND. Gli italiani e l'Inglese dopo la Brexit.


Lo 'Union Jack' secondo l'artista britannico Banksy.
Giorni fa, Boris Johnson, il primo ministro inglese, ha reso noti i requisiti che, nell'Inghilterra post-brexit, verranno ritenuti essenziali ai fini dell'ottenimento di un visto UK per soggiorno o lavoro. La lingua inglese sarà un requisito imprescindibile, e questo mi ha fatto subito pensare ai tanti italiani residenti a vario titolo, certificato o millantato, nel Regno Unito. Quelli, per capirci, che “vado a Londra” e puntualmente si accampano a Camden, circondati di connazionali, a perpetrare il mito infamante dell'italiano medio. Per costoro si annuncia una stretta che renderà il futuro lavorativo e residenziale alquanto incerto. Quale sarà il livello di capacità linguistica necessario ad evitare un imbarazzante - quanto improbabile – rimpatrio? Quello di Johnson, elitario e sudista, od il semplice, formale livello basic ottenibile con uno sforzo intellettuale minimo? Sono quasi certo che nemmeno il ministero competente sia in grado, in questo momento, di rispondere a questo semplice quesito. La mia impressione è che nel Regno Unito non vi sia grande chiarezza sul da farsi, in questa fase storica, e che le parole di Johnson non valgano più delle sparate di Matteo Salvini. È l'euforia del momento, a dettarle. Ben altra cosa è farne un programma serio di controllo degli accessi. D'altronde, gli stessi inglesi sono i primi a non saper pronunciare senza scadere nel ridicolo due parole che non appartengano alla lingua madre: hanno solo avuto la grande fortuna di vederla imposta come seconda lingua per il resto del mondo. Vedremo. Per tornare ai nostri “cervelli in fuga”, ad assistere a certe prestazioni linguistiche, si ha davvero l'impressione che molti di essi - alcuni, senza dubbio, eccellenze assai gradite all'estero - in tutto siano stati impegnati fuorché nello studio dell'Inglese, vera e propria bestia nera di ogni italiano, da sempre. Si pensi, ad esempio, al caso scandaloso di Radio Freccia, emittente di musica rock con ottimi ascolti in termini numerici, i cui conduttori, quotidianamente, danno prova di un rapporto con l'Inglese a dir poco travagliato (occuparsi di musica rock senza conoscere l'Inglese è come voler approfondire la musica di Richard Wagner bellamente ignorando il Tedesco: impossibile). Giorni fa, la conduttrice di turno propone agli ascoltatori la lettura dell'ennesima biografia di musicista rock (genere letterariamente ignobile, ma va da sé che ad un pubblico come quello di Radio Freccia difficilmente altre e migliori letture possono essere sottoposte). Attenzione: non lo fa con la consueta edizione tradotta: si arrischia a consigliarne l'originale in Inglese. Il lavoro, ennesimo resoconto degli eccessi pre-pensionamento di Ozzy Osbourne, reca il titolo The Nine Lives Of Ozzy Osbourne. La nostra conduttrice lo legge, ma sbagliandone marchianamente la pronuncia (“livs”). Lancia quindi un ascolto in tema e, terminato questo, torna con slancio inconsapevole alla sua bella marchetta. Ripete il titolo con l'identico errore. Altra sviolinata sul madman e quindi via con nuovi ascolti. Si noti questo. Tra l'errore e la sua ripetizione, passano svariati minuti. Un arco di tempo più che sufficiente a qualunque essere umano con un bagaglio culturale ordinario per accorgersi delle brutta figura e suggerirne la correzione. Intervento che, nel caso in questione, però, non ha luogo, facendo sospettare identici problemi con l'Inglese vi siano anche da parte di redazione e regia. Questa, a mio parere, è l'Italia. Una nazione che da una parte si sopravvaluta (esempio ne è il numero via via crescente dei cosiddetti 'tuttologi'), dall'altra una che nutre, a propria difesa, la malcelata certezza che il prossimo sia sempre un inetto o un cretino. Non si spiegano in altro modo, le figure barbine che gli italiani fanno quotidianamente, quando tocca loro di impiegare l'Inglese. Molti dicono che queste sono da attribuirsi alla mancanza d'amore per la lingua di Shakespeare. Anche a voler seguire questa logica infantile, perché, allora, impegnarsi in tutti quegli ambiti dove l'Inglese è la lingua ufficiale? Ingegneri, musicisti, scienziati, astronauti, piloti, tecnici informatici, medici con alti livelli di specializzazione: come può essere possibile ricoprire questi ruoli senza avere dimestichezza con l'Inglese? È come odiare il latino e poi iscriversi al liceo classico. In occasione della recente cerimonia di consegna dei Globe Awards (gli Oscars di serie b conferiti dalla stampa estera residente a Hollywood), Ricky Gervais, nel mostrarsi stupito per l'ennesimo invito a presentarne la serata (causa l'ironia spietata e tagliente messa in campo nelle precedenti occasioni), ha dichiarato: “Per mia fortuna, la stampa estera di Hollywood, a malapena parla Inglese.” (“Lucky for me, the Hollywood foreign press can barely speak English.”). Il problema è quindi condiviso, e non esclusivo del 'bel paese'. Ugualmente, trovo irritante l'atteggiamento degli italiani quando hanno a che fare con l'Inglese: denota provincialismo – che, a ben vedere, è uno dei nostri grandi problemi, quello con le più gravose conseguenze su tutto il resto. Per nostra fortuna, questa situazione è destinata a non durare a lungo. La Cina sempre più imporrà al mondo, similmente a quanto fatto 75 anni fa dagli Stati Uniti d'America, la propria egemonia, fino a quando la lingua di Confucio diverrà ufficialmente ciò che oggi l'Inglese fatica sempre più ad essere: una lingua franca, in grado di garantire quel minimo di informazione senza il quale il mondo globalizzato, come noi tutti lo conosciamo, non può esistere. Quelli come me, a ragion veduta, saranno considerati dei matusa, tutti ripiegati su di una lingua dei tempi che furono, di quando eravamo giovani, esattamente come io ed i miei compagni vedevamo gli insegnanti di Francese negli anni '80, quando l'insorgere del bilinguismo anglosassone cominciava a farsi largo a spallate. Io stesso, quest'oggi, non saprei scrivere il nome di un solo uomo politico cinese – a riprova che la selezione è già cominciata. God save the Queen, musi gialli.

lunedì 9 dicembre 2019

JOIE DE VIVRE. Il mio, personale ricordo di Michel Petrucciani.

 L'immenso Michel Petrucciani.
È davvero sorprendente come la radio, nel fiume pressoché ininterrotto di quella verbosità insensata che caratterizza ormai, uniformemente, ogni suo canale, sia ancora in grado di donare momenti di pura bellezza e grande stupore a chi, come il sottoscritto, ancora l'ascolta con una passione d'altri tempi.
È successo stamane (5 dicembre), all'alba, su quell'isola che non c'è che è il terzo canale RAI (riconosco, da me insistentemente citato, come ne fossi un azionista, ma va da sé che lì, e solo lì, è avvenuto il miracolo).
Ricorre infatti quest'oggi – ma ne ero completamente dimentico – il ventesimo anniversario della scomparsa di Michel Petrucciani (per chi non lo conoscesse, un incantevole pianista jazz francese cui la natura aveva dato tutto ciò che abbisogna ad un essere umano per eccellere in campo musicale, avendo però la stessa privatolo dalla nascita di quella condizione di sana e robusta costituzione essenziale per la longevità, così imponendogli una scomparsa prematura sia dal punto di vista musicale sia da quello biologico).
Quando ti devi alzare all'alba per recarti al lavoro, la voce radiofonica è una fonte di conforto non di poco conto, sebbene, come accennato in apertura, il nonsense sia sempre in agguato.
Ed ecco allora che, data l'ora spaventosa dell'uscita di casa - corrispondente, oggi, ad una fascia oraria dove ogni emittente, persino la più scalcinata e provinciale, dispone di un format mattutino e consolatorio dedicato a tutti coloro che abitualmente od occasionalmente sono costretti a tirare la carretta al cantar del gallo - mi sintonizzo su Radio Rai 3, dove, va riconosciuto, è possibile sentirsi un poco più protetti, in termini contenutistici, rispetto agli abissi della concorrenza.
È una fascia oraria di repliche, puntualmente seguite da proposte di ascolto in ambito classico di musiche legate tra loro da una parola differente giorno per giorno.
La parola di oggi era vita.
Nonostante l'ora piccola, la conduttrice sembra d'improvviso riprendersi, come se qualcosa, finalmente, l'avesse risvegliata dalla noia di palinsesti a volte troppo uguali. Ricorda agli ascoltatori del triste anniversario. Aggiunge che la parola del giorno ben si adatta all'opera del pianista francese, avendola egli amata così tanto, la vita, da averle persino perdonato la malattia che questa gli aveva donato in nascita. Senza ulteriori preamboli, parte Brazilian-like, dal vivo. E non c'è null'altro che io possa fare, in quel momento, che accostare, occhi lucidi, e farmi avvolgere per qualche minuto da questa musica viva, ricca, meravigliosa.
Ho avuto l'onore e la fortuna di sentire Petrucciani dal vivo due volte. La prima, mi sembra, intorno al 1997, in occasione di un'esibizione privata con finalità benefica per i Lions del Lago Maggiore. Insieme ad un amico attraversai i binari di un tratto di ferrovia per poi arrampicarmi (!) sul costone della cappella privata, sede del concerto. Fummo issati all'interno della proprietà dagli addetti alla sicurezza, spaventati, più che dall'incursione, dall'eventualità, verosimile, di una caduta all'indietro sui binari, con sopraggiungere fatale di treno merci transalpino in transito notturno. Al fine di non turbare il clima ormai consolidato dell'evento, ci fu consentito di restare, ma all'esterno della struttura. Data la stagione mite, le finestre stavano aperte. Ci posizionammo come profughi su quella del retro, che il caso volle fosse a non più di tre metri dal pianoforte. Praticamente, sul palco. Fu come un sogno. In uno degli spasmi dell'esecuzione, Petrucciani riuscì a fotografare i nostri volti, continuando a suonare del tutto indisturbato. Anzi: forse persino galvanizzato dai nostri sguardi imploranti. Lo capimmo quando, al termine, ci riuscì di entrare e raggiungerlo.
“Hey, ragazzi: si sta meglio fuori, no? È più fresco che qui.”.
Petrucciani parlava italiano.
“Michel: complimenti. È stato bellissimo.”
“Grazie, ragazzi.”
Alzò la mano dal suo metro scarso di altezza e diede noi un cinque, contraccambiato con ammirazione assoluta ed un'invidia demoniaca per il livello sconcertante di quanto avevamo appena sentito.
La seconda volta fu nell'anno della sua scomparsa, il 1999. Ad Arona. Parco della Rocca Borromea. Nel solito luglio caldissimo. In quello che sarebbe poi diventato l'ultimo concerto italiano di Petrucciani. Una scadenza della quale egli solo, probabilmente, era consapevole, ma che in nessun modo riuscì ad intaccare quella gioia del fare musica e quell'amore per la vita che così fortemente hanno caratterizzato tutte le esecuzioni della sua carriera. Accompagnato da una formazione di superstar del jazz, quando queste compresero che la sua improvvisazione stava debordando, aveva l'urgenza di comunicare qualcosa che non poteva più essere contenuto, con grande discrezione si fecero indietro e lo lasciarono suonare solo per circa un quarto d'ora, immerso nella bellezza della creazione, gratificato dall'incanto e dalla commozione del pubblico.
Michel Petrucciani, è morto a soli 36 anni, lasciando dietro di sé, oltre al compianto per la perdita di una grande voce – in senso naturalmente lato - della musica, un esempio di dedizione alle proprie, naturali, predisposizioni che davvero meriterebbe di essere proposto ai nostri giovani.
In un tempo dove il format unico televisivo tenta insistentemente di persuaderci che basti un po' di faccia tosta e quattro accordi di chitarra per sentirsi attribuire un non meglio specificato 'talento x', la vicenda musicale di Petrucciani può essere il miglior antidoto per riportare il giusto ordine nelle nostre menti e nei nostri cuori.

martedì 26 novembre 2019

RESPECT THE COCK. La capacità di motivare.


Tom Cruise in Magnolia, di P.T. Anderson.
Motivare significa, in un'ottica psicologica, adoperarsi ad attivare nell'altro quelle capacità che gli sono proprie, al fine di conseguire, nel migliore dei modi, l'obiettivo preposto.
Probabile che l'avvento del motivatore lo si sia avuto in ambito sportivo con la figura del moderno allenatore di stampo statunitense (da cui i termini, ottusamente mutuati dall'Inglese, di coach e mister), tecnicamente preparato, ma anche dotato di una filosofia, volgarmente detta vincente, e di una visione forte, persuasiva, della vita.
(Il tutor stesso può essere inteso come figura motivazionale in quanto, sorto nelle scuole di recupero, ancora oggi, ha il compito, ideale, di creare nell'allievo recalcitrante un meccanismo di autostima ed un metodo di apprendimento, più che di inculcare nozioni molto più facilmente apprendibili in autonomia una volta conseguite le condizione espresse  nei due precedenti punti.).
Si può quindi facilmente cadere nel tranello di credere l'insegnante un motivatore, con il consguente, pericoloso sbilanciamento della responsabilità dell'apprendimento dall'allievo  al docente. Da un punto di vista tecnico, è sicuramente sbagliato. Da quello psicologico (lo ha spiegato benissimo Massimo Recalcati ne L'Ora Di Lezione) l'insegnamento è un rapporto a due, e certo, se il fine è quello di innamorarsi del sapere, serve, in chi apprende, una buona dose di motivazione, sempre intesa come riconoscimento di capacità uniche attraverso le quali può svolgersi ogni trasmissione.
Detto questo, il motivatore può umiliare? No.
Di fronte ad un problema, il motivatore può sicuramente esprimere il proprio biasimo, le proprie riserve, la propria disapprovazione, sempre però vincolando il giudizio non al mancato raggiungimento del fine preposto (umiliazione), bensì al non aver impiegato quelle qualità personali che sono in ognuno (motivazione) e che solo se messe in campo possono portare a risultati caratterizzati da uno stile (gratificazione), non stupida ripetizione di gesti o parole.
Ad esempio. Il motivatore che affronta il soggetto riversandogli addosso voci e giudizi terzi, nel tentativo, si presume, di generare una reazione di orgoglio, confonde se stesso con il galvanizzatore, il cui compito è quello di attivare l'azione nel soggetto ad ogni costo e condizione, prestando, pertanto, un pessimo servizio alla causa motivazionale.
Nella fase iniziale, il rapporto motivatore/soggetto è sbilanciato a favore del primo. Qui lo sport, ancora una volta, è foriero di esempi. Vi sono molti atleti, specie negli sport di squadra, il cui potenziale fatica ad esprimenrsi in campo perché messi in difficoltà dal pubblico, dall'avversario, perché timorosi di essere pesantemente giudicati per un errore o per la propria giovane età. Ecco: in questi casi, la dipendenza da un buon motivatore (allenatore) è quasi totale. Ma è anche chiaro che un simile rapporto può avere solo una durata limitata, deve risolversi con la crescita del soggetto in direzione della massima autonomia.
Forse il peggior motivatore è proprio colui che, attraverso l'impiego delle cosiddette mezze verità, vincola a sé anziché liberare, impedendo in tal modo l'espressione di potenziali che potrebbero, invece, fare la differenza (come sempre accade con un apporto genuinamente personale).

venerdì 27 settembre 2019

C'ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD. Il cinema nel cinema di Quentin Tarantino.

Brad Pitt nei panni di Cliff Booth.
Sarà perché da un po' non mi recavo al cinema. O perché vi sono andato con l'occhio pregiudizievole dell'ammiratore. O forse perché tenere a battesimo un minorenne che vede per la prima volta un film di Quentin Tarantino in sala rende orgogliosi al limite con l'esaltazione. O, ancora, perché – unico tratto in comune con il grande regista statunitense – sono cresciuto a pochi passi da un cinema del quale frequentavo più la cabina di proiezione che la sala. Non saprei.

Sta di fatto che, a metà della visione di C'era Una Volta A Hollywood, a stento mi sono trattenuto dall'alzarmi in piedi ad applaudire (per coloro che già hanno visionato la pellicola, l'applauso intendeva omaggiare la sequenza strepitosa dove Leo Di Caprio ricicla il proprio personaggio nel rifacimento della serie telvisiva Lancer, in un cortocircuito estetico incantevole e spassosissimo).

(A mia esclusiva tutela, e prima che qualcuno di coloro che frequentano questo blog decida di allertare Telefono Azzurro, mi sia concesso precisare che il minorenne in questione è un ragazzino di grande sensibilità cinematografica, figlio di un amico in trasferta all'estero per lavoro).

Perciò, essendo ormai incapace di vivere dignitosamente la mia solitudine di fuori-casta, ho subito raccontato ad una conoscente dello sforzo titanico messo in campo per sopprimere detto entusiasmo. E mai scelta fu più azzeccata, se inconsciamente desideravo sentirmi ancora più isolato:

A me non è piaciuto per niente. Mi sono rotta le palle dall'inizio alla fine. Due ore e mezza di una storia irreale... Volevo davvero uscire - sai?

Questa tesi, quella che scredita un soggetto cinematografico a seconda del grado di irrealtà, di finzione, impiegato, ha avuto, in passato, illustri detrattori, tra cui Alfred Hitchcock. Il maestro sosteneva che pretendere dal cinema una mera riproduzione della realtà è insensato. Se ciò che si vuole è vedere la vita di tutti i giorni, la realtà del quotidiano, non serve andare al cinema: basta sedere al tavolo di un bar e osservare i passanti. Pertanto accusare Tarantino di avere ammorbato la visione del suo stesso film con una storia troppo ricca di elementi di finzione (fiction: vi ricorda qualcosa?), denota scarsa fantasia ed altrettanto scarsa disposizione a farsi guidare lungo strade che non siano quelle abituali.

Anche perché la trovata geniale di C'era Una Volta sta proprio nel presentare una vicenda tragicamente vera (l'omicidio Tate, la fine della golden age e della summer of love) per mezzo di un soggetto di invenzione. Il tutto condito da un clima estetico (quello dei '60) reso da Tarantino in maniera straordinaria.

Sebbene i comparti costume e scenografia abbiano lavorato egregiamente (vedere per credere), non è nella riproposizione di un capo d'abbigliamento o di un'autovettura d'epoca che si situa la grandezza di quesito film - il cui unico difetto è, forse, quello di rivolgersi in totale buona fede ad un pubblico che si presume avere visto tanto, tanto cinema (più ne hai visto, più la sua visione è resa godibilissima e stimolante). È nel ricreare un clima, quello della Los Angeles fine '60, che si situa il suo maggior pregio estetico (impresa che Tarantino aveva già tentato, con pessimi risultati al botteghino, ma eccellenti sullo schermo, con il progetto Grindhouse). Si ha la sensazione di respirarlo, mentre si guarda. I silenzi dello Spahn Movie Ranch; l'universo parallelo della Playboy Mansion; il caldo della West Coast; il mondo ovattato e fittizio degli studios; le sale semivuote del matinée; le corse in macchina sulla Strip; il sottofondo dei drive-ins, e via dicendo. C'è tutto questo e molto più in C'era Una Volta (fra le tante sequenze memorabili del film, che non possono essere tutte citate, la menzione d'onore va sicuramente a quella dove Margot Robbie, nei panni di Sharon Tate, si reca al cinema a vedere Missione Compiuta, alla delicatezza con cui Tarantino tratta l'immagine di questa donna nel fiore degli anni ed inconsapevole dei motivi che la porteranno di lì a breve agli onori della cronaca nera, una sequenza di cinema nel cinema davvero meravigliosa).

Ed è proprio grazie a tale riproduzione, quella cioè di una California con tutto il suo portato mitico, che Tarantino può inserire la vicenda del tutto verosimile dei suoi due protagonisti, Rick e Cliff (rispettivamente Di Caprio e Brad Pitt), un dramma che molti di coloro che vivevano dell'enorme indotto di Hollywood si trovarono a vivere in prima persona.

Nel cinema di Tarantino, insomma, ciò che è vero subisce l'invenzione (Sharon Tate, Jay Sebring e Voytek Frykowski si salvano dalla notte di Helter Skelter e consumano un brindisi con Rick), mentre quanto è frutto di invenzione risulta, alla fine, più vero che mai (le carriere di Rick e Cliff sono rovinate dell'esplosione delle serie televisive cui l'industria tutta si deve adeguare).

È quindi difficile, grazie a questo artificio narrativo, non commuoversi nella sequenza finale del film,di fronte all'immagine di Emile Hirsch nei panni di Jay Sebring che fa capolino dietro il cancello del 10050 di Cielo Drive. La realtà è spesso troppo dura da digerire. Ma il cinema, ed in particolar modo quello di Tarantino, può girarvi intorno e farci sognare come sarebbe stato se la notte dell'8 agosto 1969 le cose, per il mondo del cinema – che, non dimentichiamo, è il mondo di Tarantino -, fossero andate diversamente.

Jay è il vicino gentile, cordiale e discreto che tutti vorremmo avere.

Ma è la finzione a portarlo fino a noi.

È finto.

lunedì 23 settembre 2019

JOVA 'BITCH' PARTY. Lorenzo Jovanotti e l'assenza del limite.

Un clochard sulla spiaggia di Barletta
Mi siano concesse due parole su Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, in occasione del suo concerto all'aeroporto di Milano Linate.

Lorenzo (come ama spesso essere appellato, nome comune per una persona altrettanto comune) è fuor di dubbio un entertainer di grandissimo successo.

Si ponga però attenzione al termine impiegato. Lorenzo non è infatti un artista (come predicato dai più): è un intrattenitore - come Rosario Fiorello o Renzo Arbore, per intenderci. Non propone una visione del mondo (compito primario dell'artista), bensì un prodotto (il mega-evento o mega-concerto che dir si voglia) in grado di garantire uno svago non dissimile a quello di un pool party alle Baleari, ma con prezzi quadruplicati.

Detto questo, sembra che nulla, nemmeno l'appena citato ricarico, possa fermare il suo seguito dal desiderare e quindi acquistare detto prodotto: a riprova, il tutto-esaurito registrato dall'ultima serie di concerti del Lorenzo, svoltasi su alcune tra le spiagge più belle del paese (e coerentemente intitolato Jova Beach Party). Allo stesso modo, svalutarne pubblicamente la portata (ribadisco: non artista, ma intrattenitore) non impedisce agli stessi di sentirsi appieno rappresentati dalle sue parole, dalla musica, dai gesti e dalle prese di posizione (basta parlare con uno solo dei suoi fans per rendersi conto della distorsione con la quale ne percepisce la figura: qualcosa a metà strada tra Nelson Mandela e Gesù di Nazareth).

Evidentemente non pago del successo fin qui arrisogli, Lorenzo ha deciso di andare oltre e così conquistare luoghi quanto mai inusuali (almeno da noi) per concerti e mega-eventi (ed ecco spiegata l'origine della data di Linate).

Il suo desiderio (non dubitiamo, infatti, che sua e solo sua sia stata l'idea) di tenere concerti su spiagge ed aerodromi tradisce una volontà dittatoriale di appopriarsi, per mezzo della sua musica, di ogni spazio, ambito e luogo del paese, nel sogno malato di una nazione dove egli si immagina nei panni di Grande Fratello (quello di George Orwell, non quello di Alessia Marcuzzi), teso a declinare ogni ambito del vivere quotidiano alla pseudo-filosofia propalata dai testi delle sue canzoni.

Lorenzo Jovanotti, inconsciamente, attua nei confronti dell'aeroporto chiuso per ristrutturazione la stessa logica che la mala di periferia applica al primo locale che si svuota per più di un giorno: lo occupa. Ma soprattutto: Lorenzo Jovanotti non è in grado di concepire più l'idea di un luogo del paese dove la sua figura, la sua presenza, risulti assente.

Le immagini circolanti di Jovanotti galvanizzato  ai massimi livelli (chi non lo sarebbe, al posto suo?) e ripreso spalle al pubblico con il grandangolo, ci ristituiscono il ritratto sconcertante di una persona la cui festa prosegue ininterrotta da più di 30 anni; che probabilmente ha vissuto gli eventi più importanti del trentennio con l'indifferenza di chi è impegnato in bagordi all'interno di un locale; convinta che il successo venga elargito agli eletti a prescindere dal talento (che, unitamente alla mancanza di modestia, Jovanotti non ha nella maniera più assoluta); convinta (forse giustamente) che, in assenza totale di critica, di opposizione, si possa fare tranquillamente a meno del senso del limite.

Tutto questo grazie ad un pubblico arci-italiano disposto a farsi guidare da chiunque - sia esso l'imprenditore di successo, lo sborone con residenza all'estero o il cantante in testa alla classifica - prometta a gran voce di appianare ogni divergenza e risolvere ogni problema (esattamente ciò che Jovanotti, con il suo mix di bella vita, spiritualismo spiccio, ambiantalismo tanto-al-kilo, filosofia di invenzione e disprezzo per il talento propone nei suoi spettacoli, dove, ogni due canzoni, parte l'immancabile discorso dal balcone di Piazza Venezia).

Perché non bisogna mai dimenticare che l'italiano medio non vuole un governo per il paese: vuole essere governato.

Attendiamo quindi con ansia il giorno nel quale, in occasione della sua prossima data romana, magari in occasione del viaggio all'estero di Sua Santità Bergoglio, Lorenzo deciderà di suonare sull'altare di San Pietro e, dal momento che lì si trova, imbastire una bella predica tra un brano e l'altro, e la comunione a fine-concerto.

A fare simili riflessioni, viene davvero il sospetto che il tanto decantato ombelico del mondo non fosse altro che il suo.