lunedì 2 marzo 2020

OUT OF ENGLAND. Gli italiani e l'Inglese dopo la Brexit.


Lo 'Union Jack' secondo l'artista britannico Banksy.
Giorni fa, Boris Johnson, il primo ministro inglese, ha reso noti i requisiti che, nell'Inghilterra post-brexit, verranno ritenuti essenziali ai fini dell'ottenimento di un visto UK per soggiorno o lavoro. La lingua inglese sarà un requisito imprescindibile, e questo mi ha fatto subito pensare ai tanti italiani residenti a vario titolo, certificato o millantato, nel Regno Unito. Quelli, per capirci, che “vado a Londra” e puntualmente si accampano a Camden, circondati di connazionali, a perpetrare il mito infamante dell'italiano medio. Per costoro si annuncia una stretta che renderà il futuro lavorativo e residenziale alquanto incerto. Quale sarà il livello di capacità linguistica necessario ad evitare un imbarazzante - quanto improbabile – rimpatrio? Quello di Johnson, elitario e sudista, od il semplice, formale livello basic ottenibile con uno sforzo intellettuale minimo? Sono quasi certo che nemmeno il ministero competente sia in grado, in questo momento, di rispondere a questo semplice quesito. La mia impressione è che nel Regno Unito non vi sia grande chiarezza sul da farsi, in questa fase storica, e che le parole di Johnson non valgano più delle sparate di Matteo Salvini. È l'euforia del momento, a dettarle. Ben altra cosa è farne un programma serio di controllo degli accessi. D'altronde, gli stessi inglesi sono i primi a non saper pronunciare senza scadere nel ridicolo due parole che non appartengano alla lingua madre: hanno solo avuto la grande fortuna di vederla imposta come seconda lingua per il resto del mondo. Vedremo. Per tornare ai nostri “cervelli in fuga”, ad assistere a certe prestazioni linguistiche, si ha davvero l'impressione che molti di essi - alcuni, senza dubbio, eccellenze assai gradite all'estero - in tutto siano stati impegnati fuorché nello studio dell'Inglese, vera e propria bestia nera di ogni italiano, da sempre. Si pensi, ad esempio, al caso scandaloso di Radio Freccia, emittente di musica rock con ottimi ascolti in termini numerici, i cui conduttori, quotidianamente, danno prova di un rapporto con l'Inglese a dir poco travagliato (occuparsi di musica rock senza conoscere l'Inglese è come voler approfondire la musica di Richard Wagner bellamente ignorando il Tedesco: impossibile). Giorni fa, la conduttrice di turno propone agli ascoltatori la lettura dell'ennesima biografia di musicista rock (genere letterariamente ignobile, ma va da sé che ad un pubblico come quello di Radio Freccia difficilmente altre e migliori letture possono essere sottoposte). Attenzione: non lo fa con la consueta edizione tradotta: si arrischia a consigliarne l'originale in Inglese. Il lavoro, ennesimo resoconto degli eccessi pre-pensionamento di Ozzy Osbourne, reca il titolo The Nine Lives Of Ozzy Osbourne. La nostra conduttrice lo legge, ma sbagliandone marchianamente la pronuncia (“livs”). Lancia quindi un ascolto in tema e, terminato questo, torna con slancio inconsapevole alla sua bella marchetta. Ripete il titolo con l'identico errore. Altra sviolinata sul madman e quindi via con nuovi ascolti. Si noti questo. Tra l'errore e la sua ripetizione, passano svariati minuti. Un arco di tempo più che sufficiente a qualunque essere umano con un bagaglio culturale ordinario per accorgersi delle brutta figura e suggerirne la correzione. Intervento che, nel caso in questione, però, non ha luogo, facendo sospettare identici problemi con l'Inglese vi siano anche da parte di redazione e regia. Questa, a mio parere, è l'Italia. Una nazione che da una parte si sopravvaluta (esempio ne è il numero via via crescente dei cosiddetti 'tuttologi'), dall'altra una che nutre, a propria difesa, la malcelata certezza che il prossimo sia sempre un inetto o un cretino. Non si spiegano in altro modo, le figure barbine che gli italiani fanno quotidianamente, quando tocca loro di impiegare l'Inglese. Molti dicono che queste sono da attribuirsi alla mancanza d'amore per la lingua di Shakespeare. Anche a voler seguire questa logica infantile, perché, allora, impegnarsi in tutti quegli ambiti dove l'Inglese è la lingua ufficiale? Ingegneri, musicisti, scienziati, astronauti, piloti, tecnici informatici, medici con alti livelli di specializzazione: come può essere possibile ricoprire questi ruoli senza avere dimestichezza con l'Inglese? È come odiare il latino e poi iscriversi al liceo classico. In occasione della recente cerimonia di consegna dei Globe Awards (gli Oscars di serie b conferiti dalla stampa estera residente a Hollywood), Ricky Gervais, nel mostrarsi stupito per l'ennesimo invito a presentarne la serata (causa l'ironia spietata e tagliente messa in campo nelle precedenti occasioni), ha dichiarato: “Per mia fortuna, la stampa estera di Hollywood, a malapena parla Inglese.” (“Lucky for me, the Hollywood foreign press can barely speak English.”). Il problema è quindi condiviso, e non esclusivo del 'bel paese'. Ugualmente, trovo irritante l'atteggiamento degli italiani quando hanno a che fare con l'Inglese: denota provincialismo – che, a ben vedere, è uno dei nostri grandi problemi, quello con le più gravose conseguenze su tutto il resto. Per nostra fortuna, questa situazione è destinata a non durare a lungo. La Cina sempre più imporrà al mondo, similmente a quanto fatto 75 anni fa dagli Stati Uniti d'America, la propria egemonia, fino a quando la lingua di Confucio diverrà ufficialmente ciò che oggi l'Inglese fatica sempre più ad essere: una lingua franca, in grado di garantire quel minimo di informazione senza il quale il mondo globalizzato, come noi tutti lo conosciamo, non può esistere. Quelli come me, a ragion veduta, saranno considerati dei matusa, tutti ripiegati su di una lingua dei tempi che furono, di quando eravamo giovani, esattamente come io ed i miei compagni vedevamo gli insegnanti di Francese negli anni '80, quando l'insorgere del bilinguismo anglosassone cominciava a farsi largo a spallate. Io stesso, quest'oggi, non saprei scrivere il nome di un solo uomo politico cinese – a riprova che la selezione è già cominciata. God save the Queen, musi gialli.

lunedì 9 dicembre 2019

JOIE DE VIVRE. Il mio, personale ricordo di Michel Petrucciani.

 L'immenso Michel Petrucciani.
È davvero sorprendente come la radio, nel fiume pressoché ininterrotto di quella verbosità insensata che caratterizza ormai, uniformemente, ogni suo canale, sia ancora in grado di donare momenti di pura bellezza e grande stupore a chi, come il sottoscritto, ancora l'ascolta con una passione d'altri tempi.
È successo stamane (5 dicembre), all'alba, su quell'isola che non c'è che è il terzo canale RAI (riconosco, da me insistentemente citato, come ne fossi un azionista, ma va da sé che lì, e solo lì, è avvenuto il miracolo).
Ricorre infatti quest'oggi – ma ne ero completamente dimentico – il ventesimo anniversario della scomparsa di Michel Petrucciani (per chi non lo conoscesse, un incantevole pianista jazz francese cui la natura aveva dato tutto ciò che abbisogna ad un essere umano per eccellere in campo musicale, avendo però la stessa privatolo dalla nascita di quella condizione di sana e robusta costituzione essenziale per la longevità, così imponendogli una scomparsa prematura sia dal punto di vista musicale sia da quello biologico).
Quando ti devi alzare all'alba per recarti al lavoro, la voce radiofonica è una fonte di conforto non di poco conto, sebbene, come accennato in apertura, il nonsense sia sempre in agguato.
Ed ecco allora che, data l'ora spaventosa dell'uscita di casa - corrispondente, oggi, ad una fascia oraria dove ogni emittente, persino la più scalcinata e provinciale, dispone di un format mattutino e consolatorio dedicato a tutti coloro che abitualmente od occasionalmente sono costretti a tirare la carretta al cantar del gallo - mi sintonizzo su Radio Rai 3, dove, va riconosciuto, è possibile sentirsi un poco più protetti, in termini contenutistici, rispetto agli abissi della concorrenza.
È una fascia oraria di repliche, puntualmente seguite da proposte di ascolto in ambito classico di musiche legate tra loro da una parola differente giorno per giorno.
La parola di oggi era vita.
Nonostante l'ora piccola, la conduttrice sembra d'improvviso riprendersi, come se qualcosa, finalmente, l'avesse risvegliata dalla noia di palinsesti a volte troppo uguali. Ricorda agli ascoltatori del triste anniversario. Aggiunge che la parola del giorno ben si adatta all'opera del pianista francese, avendola egli amata così tanto, la vita, da averle persino perdonato la malattia che questa gli aveva donato in nascita. Senza ulteriori preamboli, parte Brazilian-like, dal vivo. E non c'è null'altro che io possa fare, in quel momento, che accostare, occhi lucidi, e farmi avvolgere per qualche minuto da questa musica viva, ricca, meravigliosa.
Ho avuto l'onore e la fortuna di sentire Petrucciani dal vivo due volte. La prima, mi sembra, intorno al 1997, in occasione di un'esibizione privata con finalità benefica per i Lions del Lago Maggiore. Insieme ad un amico attraversai i binari di un tratto di ferrovia per poi arrampicarmi (!) sul costone della cappella privata, sede del concerto. Fummo issati all'interno della proprietà dagli addetti alla sicurezza, spaventati, più che dall'incursione, dall'eventualità, verosimile, di una caduta all'indietro sui binari, con sopraggiungere fatale di treno merci transalpino in transito notturno. Al fine di non turbare il clima ormai consolidato dell'evento, ci fu consentito di restare, ma all'esterno della struttura. Data la stagione mite, le finestre stavano aperte. Ci posizionammo come profughi su quella del retro, che il caso volle fosse a non più di tre metri dal pianoforte. Praticamente, sul palco. Fu come un sogno. In uno degli spasmi dell'esecuzione, Petrucciani riuscì a fotografare i nostri volti, continuando a suonare del tutto indisturbato. Anzi: forse persino galvanizzato dai nostri sguardi imploranti. Lo capimmo quando, al termine, ci riuscì di entrare e raggiungerlo.
“Hey, ragazzi: si sta meglio fuori, no? È più fresco che qui.”.
Petrucciani parlava italiano.
“Michel: complimenti. È stato bellissimo.”
“Grazie, ragazzi.”
Alzò la mano dal suo metro scarso di altezza e diede noi un cinque, contraccambiato con ammirazione assoluta ed un'invidia demoniaca per il livello sconcertante di quanto avevamo appena sentito.
La seconda volta fu nell'anno della sua scomparsa, il 1999. Ad Arona. Parco della Rocca Borromea. Nel solito luglio caldissimo. In quello che sarebbe poi diventato l'ultimo concerto italiano di Petrucciani. Una scadenza della quale egli solo, probabilmente, era consapevole, ma che in nessun modo riuscì ad intaccare quella gioia del fare musica e quell'amore per la vita che così fortemente hanno caratterizzato tutte le esecuzioni della sua carriera. Accompagnato da una formazione di superstar del jazz, quando queste compresero che la sua improvvisazione stava debordando, aveva l'urgenza di comunicare qualcosa che non poteva più essere contenuto, con grande discrezione si fecero indietro e lo lasciarono suonare solo per circa un quarto d'ora, immerso nella bellezza della creazione, gratificato dall'incanto e dalla commozione del pubblico.
Michel Petrucciani, è morto a soli 36 anni, lasciando dietro di sé, oltre al compianto per la perdita di una grande voce – in senso naturalmente lato - della musica, un esempio di dedizione alle proprie, naturali, predisposizioni che davvero meriterebbe di essere proposto ai nostri giovani.
In un tempo dove il format unico televisivo tenta insistentemente di persuaderci che basti un po' di faccia tosta e quattro accordi di chitarra per sentirsi attribuire un non meglio specificato 'talento x', la vicenda musicale di Petrucciani può essere il miglior antidoto per riportare il giusto ordine nelle nostre menti e nei nostri cuori.

martedì 26 novembre 2019

RESPECT THE COCK. La capacità di motivare.


Tom Cruise in Magnolia, di P.T. Anderson.
Motivare significa, in un'ottica psicologica, adoperarsi ad attivare nell'altro quelle capacità che gli sono proprie, al fine di conseguire, nel migliore dei modi, l'obiettivo preposto.
Probabile che l'avvento del motivatore lo si sia avuto in ambito sportivo con la figura del moderno allenatore di stampo statunitense (da cui i termini, ottusamente mutuati dall'Inglese, di coach e mister), tecnicamente preparato, ma anche dotato di una filosofia, volgarmente detta vincente, e di una visione forte, persuasiva, della vita.
(Il tutor stesso può essere inteso come figura motivazionale in quanto, sorto nelle scuole di recupero, ancora oggi, ha il compito, ideale, di creare nell'allievo recalcitrante un meccanismo di autostima ed un metodo di apprendimento, più che di inculcare nozioni molto più facilmente apprendibili in autonomia una volta conseguite le condizione espresse  nei due precedenti punti.).
Si può quindi facilmente cadere nel tranello di credere l'insegnante un motivatore, con il consguente, pericoloso sbilanciamento della responsabilità dell'apprendimento dall'allievo  al docente. Da un punto di vista tecnico, è sicuramente sbagliato. Da quello psicologico (lo ha spiegato benissimo Massimo Recalcati ne L'Ora Di Lezione) l'insegnamento è un rapporto a due, e certo, se il fine è quello di innamorarsi del sapere, serve, in chi apprende, una buona dose di motivazione, sempre intesa come riconoscimento di capacità uniche attraverso le quali può svolgersi ogni trasmissione.
Detto questo, il motivatore può umiliare? No.
Di fronte ad un problema, il motivatore può sicuramente esprimere il proprio biasimo, le proprie riserve, la propria disapprovazione, sempre però vincolando il giudizio non al mancato raggiungimento del fine preposto (umiliazione), bensì al non aver impiegato quelle qualità personali che sono in ognuno (motivazione) e che solo se messe in campo possono portare a risultati caratterizzati da uno stile (gratificazione), non stupida ripetizione di gesti o parole.
Ad esempio. Il motivatore che affronta il soggetto riversandogli addosso voci e giudizi terzi, nel tentativo, si presume, di generare una reazione di orgoglio, confonde se stesso con il galvanizzatore, il cui compito è quello di attivare l'azione nel soggetto ad ogni costo e condizione, prestando, pertanto, un pessimo servizio alla causa motivazionale.
Nella fase iniziale, il rapporto motivatore/soggetto è sbilanciato a favore del primo. Qui lo sport, ancora una volta, è foriero di esempi. Vi sono molti atleti, specie negli sport di squadra, il cui potenziale fatica ad esprimenrsi in campo perché messi in difficoltà dal pubblico, dall'avversario, perché timorosi di essere pesantemente giudicati per un errore o per la propria giovane età. Ecco: in questi casi, la dipendenza da un buon motivatore (allenatore) è quasi totale. Ma è anche chiaro che un simile rapporto può avere solo una durata limitata, deve risolversi con la crescita del soggetto in direzione della massima autonomia.
Forse il peggior motivatore è proprio colui che, attraverso l'impiego delle cosiddette mezze verità, vincola a sé anziché liberare, impedendo in tal modo l'espressione di potenziali che potrebbero, invece, fare la differenza (come sempre accade con un apporto genuinamente personale).

venerdì 27 settembre 2019

C'ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD. Il cinema nel cinema di Quentin Tarantino.

Brad Pitt nei panni di Cliff Booth.
Sarà perché da un po' non mi recavo al cinema. O perché vi sono andato con l'occhio pregiudizievole dell'ammiratore. O forse perché tenere a battesimo un minorenne che vede per la prima volta un film di Quentin Tarantino in sala rende orgogliosi al limite con l'esaltazione. O, ancora, perché – unico tratto in comune con il grande regista statunitense – sono cresciuto a pochi passi da un cinema del quale frequentavo più la cabina di proiezione che la sala. Non saprei.

Sta di fatto che, a metà della visione di C'era Una Volta A Hollywood, a stento mi sono trattenuto dall'alzarmi in piedi ad applaudire (per coloro che già hanno visionato la pellicola, l'applauso intendeva omaggiare la sequenza strepitosa dove Leo Di Caprio ricicla il proprio personaggio nel rifacimento della serie telvisiva Lancer, in un cortocircuito estetico incantevole e spassosissimo).

(A mia esclusiva tutela, e prima che qualcuno di coloro che frequentano questo blog decida di allertare Telefono Azzurro, mi sia concesso precisare che il minorenne in questione è un ragazzino di grande sensibilità cinematografica, figlio di un amico in trasferta all'estero per lavoro).

Perciò, essendo ormai incapace di vivere dignitosamente la mia solitudine di fuori-casta, ho subito raccontato ad una conoscente dello sforzo titanico messo in campo per sopprimere detto entusiasmo. E mai scelta fu più azzeccata, se inconsciamente desideravo sentirmi ancora più isolato:

A me non è piaciuto per niente. Mi sono rotta le palle dall'inizio alla fine. Due ore e mezza di una storia irreale... Volevo davvero uscire - sai?

Questa tesi, quella che scredita un soggetto cinematografico a seconda del grado di irrealtà, di finzione, impiegato, ha avuto, in passato, illustri detrattori, tra cui Alfred Hitchcock. Il maestro sosteneva che pretendere dal cinema una mera riproduzione della realtà è insensato. Se ciò che si vuole è vedere la vita di tutti i giorni, la realtà del quotidiano, non serve andare al cinema: basta sedere al tavolo di un bar e osservare i passanti. Pertanto accusare Tarantino di avere ammorbato la visione del suo stesso film con una storia troppo ricca di elementi di finzione (fiction: vi ricorda qualcosa?), denota scarsa fantasia ed altrettanto scarsa disposizione a farsi guidare lungo strade che non siano quelle abituali.

Anche perché la trovata geniale di C'era Una Volta sta proprio nel presentare una vicenda tragicamente vera (l'omicidio Tate, la fine della golden age e della summer of love) per mezzo di un soggetto di invenzione. Il tutto condito da un clima estetico (quello dei '60) reso da Tarantino in maniera straordinaria.

Sebbene i comparti costume e scenografia abbiano lavorato egregiamente (vedere per credere), non è nella riproposizione di un capo d'abbigliamento o di un'autovettura d'epoca che si situa la grandezza di quesito film - il cui unico difetto è, forse, quello di rivolgersi in totale buona fede ad un pubblico che si presume avere visto tanto, tanto cinema (più ne hai visto, più la sua visione è resa godibilissima e stimolante). È nel ricreare un clima, quello della Los Angeles fine '60, che si situa il suo maggior pregio estetico (impresa che Tarantino aveva già tentato, con pessimi risultati al botteghino, ma eccellenti sullo schermo, con il progetto Grindhouse). Si ha la sensazione di respirarlo, mentre si guarda. I silenzi dello Spahn Movie Ranch; l'universo parallelo della Playboy Mansion; il caldo della West Coast; il mondo ovattato e fittizio degli studios; le sale semivuote del matinée; le corse in macchina sulla Strip; il sottofondo dei drive-ins, e via dicendo. C'è tutto questo e molto più in C'era Una Volta (fra le tante sequenze memorabili del film, che non possono essere tutte citate, la menzione d'onore va sicuramente a quella dove Margot Robbie, nei panni di Sharon Tate, si reca al cinema a vedere Missione Compiuta, alla delicatezza con cui Tarantino tratta l'immagine di questa donna nel fiore degli anni ed inconsapevole dei motivi che la porteranno di lì a breve agli onori della cronaca nera, una sequenza di cinema nel cinema davvero meravigliosa).

Ed è proprio grazie a tale riproduzione, quella cioè di una California con tutto il suo portato mitico, che Tarantino può inserire la vicenda del tutto verosimile dei suoi due protagonisti, Rick e Cliff (rispettivamente Di Caprio e Brad Pitt), un dramma che molti di coloro che vivevano dell'enorme indotto di Hollywood si trovarono a vivere in prima persona.

Nel cinema di Tarantino, insomma, ciò che è vero subisce l'invenzione (Sharon Tate, Jay Sebring e Voytek Frykowski si salvano dalla notte di Helter Skelter e consumano un brindisi con Rick), mentre quanto è frutto di invenzione risulta, alla fine, più vero che mai (le carriere di Rick e Cliff sono rovinate dell'esplosione delle serie televisive cui l'industria tutta si deve adeguare).

È quindi difficile, grazie a questo artificio narrativo, non commuoversi nella sequenza finale del film,di fronte all'immagine di Emile Hirsch nei panni di Jay Sebring che fa capolino dietro il cancello del 10050 di Cielo Drive. La realtà è spesso troppo dura da digerire. Ma il cinema, ed in particolar modo quello di Tarantino, può girarvi intorno e farci sognare come sarebbe stato se la notte dell'8 agosto 1969 le cose, per il mondo del cinema – che, non dimentichiamo, è il mondo di Tarantino -, fossero andate diversamente.

Jay è il vicino gentile, cordiale e discreto che tutti vorremmo avere.

Ma è la finzione a portarlo fino a noi.

È finto.

lunedì 23 settembre 2019

JOVA 'BITCH' PARTY. Lorenzo Jovanotti e l'assenza del limite.

Un clochard sulla spiaggia di Barletta
Mi siano concesse due parole su Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, in occasione del suo concerto all'aeroporto di Milano Linate.

Lorenzo (come ama spesso essere appellato, nome comune per una persona altrettanto comune) è fuor di dubbio un entertainer di grandissimo successo.

Si ponga però attenzione al termine impiegato. Lorenzo non è infatti un artista (come predicato dai più): è un intrattenitore - come Rosario Fiorello o Renzo Arbore, per intenderci. Non propone una visione del mondo (compito primario dell'artista), bensì un prodotto (il mega-evento o mega-concerto che dir si voglia) in grado di garantire uno svago non dissimile a quello di un pool party alle Baleari, ma con prezzi quadruplicati.

Detto questo, sembra che nulla, nemmeno l'appena citato ricarico, possa fermare il suo seguito dal desiderare e quindi acquistare detto prodotto: a riprova, il tutto-esaurito registrato dall'ultima serie di concerti del Lorenzo, svoltasi su alcune tra le spiagge più belle del paese (e coerentemente intitolato Jova Beach Party). Allo stesso modo, svalutarne pubblicamente la portata (ribadisco: non artista, ma intrattenitore) non impedisce agli stessi di sentirsi appieno rappresentati dalle sue parole, dalla musica, dai gesti e dalle prese di posizione (basta parlare con uno solo dei suoi fans per rendersi conto della distorsione con la quale ne percepisce la figura: qualcosa a metà strada tra Nelson Mandela e Gesù di Nazareth).

Evidentemente non pago del successo fin qui arrisogli, Lorenzo ha deciso di andare oltre e così conquistare luoghi quanto mai inusuali (almeno da noi) per concerti e mega-eventi (ed ecco spiegata l'origine della data di Linate).

Il suo desiderio (non dubitiamo, infatti, che sua e solo sua sia stata l'idea) di tenere concerti su spiagge ed aerodromi tradisce una volontà dittatoriale di appopriarsi, per mezzo della sua musica, di ogni spazio, ambito e luogo del paese, nel sogno malato di una nazione dove egli si immagina nei panni di Grande Fratello (quello di George Orwell, non quello di Alessia Marcuzzi), teso a declinare ogni ambito del vivere quotidiano alla pseudo-filosofia propalata dai testi delle sue canzoni.

Lorenzo Jovanotti, inconsciamente, attua nei confronti dell'aeroporto chiuso per ristrutturazione la stessa logica che la mala di periferia applica al primo locale che si svuota per più di un giorno: lo occupa. Ma soprattutto: Lorenzo Jovanotti non è in grado di concepire più l'idea di un luogo del paese dove la sua figura, la sua presenza, risulti assente.

Le immagini circolanti di Jovanotti galvanizzato  ai massimi livelli (chi non lo sarebbe, al posto suo?) e ripreso spalle al pubblico con il grandangolo, ci ristituiscono il ritratto sconcertante di una persona la cui festa prosegue ininterrotta da più di 30 anni; che probabilmente ha vissuto gli eventi più importanti del trentennio con l'indifferenza di chi è impegnato in bagordi all'interno di un locale; convinta che il successo venga elargito agli eletti a prescindere dal talento (che, unitamente alla mancanza di modestia, Jovanotti non ha nella maniera più assoluta); convinta (forse giustamente) che, in assenza totale di critica, di opposizione, si possa fare tranquillamente a meno del senso del limite.

Tutto questo grazie ad un pubblico arci-italiano disposto a farsi guidare da chiunque - sia esso l'imprenditore di successo, lo sborone con residenza all'estero o il cantante in testa alla classifica - prometta a gran voce di appianare ogni divergenza e risolvere ogni problema (esattamente ciò che Jovanotti, con il suo mix di bella vita, spiritualismo spiccio, ambiantalismo tanto-al-kilo, filosofia di invenzione e disprezzo per il talento propone nei suoi spettacoli, dove, ogni due canzoni, parte l'immancabile discorso dal balcone di Piazza Venezia).

Perché non bisogna mai dimenticare che l'italiano medio non vuole un governo per il paese: vuole essere governato.

Attendiamo quindi con ansia il giorno nel quale, in occasione della sua prossima data romana, magari in occasione del viaggio all'estero di Sua Santità Bergoglio, Lorenzo deciderà di suonare sull'altare di San Pietro e, dal momento che lì si trova, imbastire una bella predica tra un brano e l'altro, e la comunione a fine-concerto.

A fare simili riflessioni, viene davvero il sospetto che il tanto decantato ombelico del mondo non fosse altro che il suo. 

lunedì 2 settembre 2019

AI CONFINI DELLA REALTÀ. A 25 anni dalla trattativa stato-mafia.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Sette anni fa, nei giorni del ventesimo anniversario della strage di Capaci e di quella subito successiva di via D'Amelio, mi stavo preparando a diventare padre. Ruolo per il quale, lungi dalle dicerie, non si nasce predisposti in quanto maschi: lo si diventa con l'impegno, la dedizione e l'amore - tratti per i quali è richiesto un certo sforzo.

Da allora, per qualche anno, ho accantonato ogni passione civile per dedicarmi a questo nuovo compito.

Oggi, per mia fortuna, ho ritrovato la forza  e il coraggio per riprendere il discorso (similmente alla paternità senza dedizione, senza passione non vi può essere una vita civile) e così finalmente leggere, a ben cinque anni dalla sua pubblicazione, Ė Stato La Mafia, il libro di Marco Travaglio sulla trattativa tra uomini dello Stato ed esponenti mafiosi, intrapreso dai primi 25 anni fa, all'indomani dell'uccisione di Giovanni Falcone.

E, credete: ce ne vuole non poco, di coraggio, se si considera che una lettura attenta delle sue poche pagine (153) è in grado di minare alla base quella speranza in un domani migliore senza la quale la vita politica - e di conseguenza l'impegno civile - non può darsi.

Ne ho parlato, confidenzialmente, con un conoscente, il quale, vistomi immerso, giorni fa, nella lettura del libro al tavolo dell'aperitivo (cosa non farei, pur di sputtanare gli hipsters del 'telefonino'), aveva manifestato un insolito, sorprendente interesse per la materia (sia cartacea che contenutistica). Risultato: "Sai, a me, cosa mi rende felice? Fare le cose che mi piacciono. Andare in palestra, mettere a posto il giardino, uscire con gli amici... Queste cose qui - indica il libro -, mi mettono tristezza.".

Certo: come ho appena detto, gioia non ne provoca, una simile lettura, come lo stesso Travaglio afferma nell'introduzione al testo ("... mi domandai quanti cittadini avrebbero pagato ... per ascoltare una storia così terribile e disperante."). Come è vero che con cittadini capaci di simili risposte, la politica è ben lungi dal temere di vedersi giudicata per i propri atti.

Sebbene, al tempo, non diedi la giusta lettura ai fatti di Capaci, prima, e via D'Amelio, dopo (ero troppo giovane e inesperto delle cose della vita), ricordo con chiarezza l'impressione di tragica irreversibilità che ricevetti da quelle due tragedie. Impressione poi confermata dalle parole pronunciate da Antonino Caponnetto in seguito alla scomparsa del suo amico Paolo Borsellino: "Ė tutto finito.". Caponnetto, uomo dal cuore grande, si pentì, successivamente, del disfattismo convogliato da quelle parole. Ma gli riconosciamo che ne aveva ben donde, se si pensa che Borsellino, uomo dal fiuto investigativo raro (altro che CSI!), era stato ucciso proprio perché, venuto al corrente che lo stato (a questo punto con una meritatissima s minuscola), lungi dal mettersi sulle tracce di chi aveva ucciso il suo collega e amico Giovanni Falcone, era sceso a patti con l'organizzazione che di quell'uccisione era mandante, tentò di ostacolarla con il coraggio della disperazione.

Mi permetto qui di dire - con rispetto per i morti - che, ben più che sui corpi dilaniati dei loro obbiettivi, fu l'impatto che quelle bombe ebbero sulla condotta politica italiana, intesa nella sua accezione più pura come gestione del bene e della cosa pubblici e non di mercato della compravendita cui siamo stati invece abituati, a risultare maggiormente devastante. Un'onda d'urto che si esaurisce, con buona pace dei suoi tanti difensori, nel consenso del 100% (!) incassato da Forza Italia in Sicilia alla elezioni politiche del 2001.

Troppo facile, quindi, uscire dalla vicenda ricordando ai giovani, ancora una volta, che devono leggere ed apprendere la lezione dello scandalo stato-mafia. Siamo noi che, al ivello generazionale, seppur con diverse intenzioni, abbiamo avallato la classe politica resasi protagonista della trattativa. Per i nostri giovani sarà, né più né meno, un capitolo di storia moderna, come il Watergate o il caso Moro - per restare in casa nostra -, mentre per noi è - e sarà a lungo - un'onta da elaborare.

Ė Stato La Mafia racconta in maniera chiara, dati alla mano, come tutti i versanti politici, nessuno escluso, abbiano contribuito, negli anni seguiti agli infami accordi del '92, al loro puntuale rispetto.

Come cittadini, vi abbiamo concorso, più o meno inconsapevolmente, ogni qual volta abbiamo portato rispetto a nomi, cariche e divise la cui concezione dello Stato - come è emerso spudoratamente dalle intercettazioni richieste per l'indagine - è risultata essere, semplicemente, inesistente - e che in un mondo normale avrebbero conosciuto la pena capitale con l'accusa di alto tradimento.

In questo panorama di assoluto degrado etico ed istituzionale emerge, però, un fatto sorprendente, al quale chi ancora è dotato di coscienza, non può che aggraparsi come il naufrago al frammento di scafo (mi si perdoni la metafora dettata dalla scottante attualità). E cioè: se oggi possiamo ventilare il nostro legittimo scandalo, oltre a Travaglio che ne ha fornito l'unica narrazione attendibile - e che, come ho avuto modo di dire più volte, in questo blog, è per me il più grande giornalista italiano di sempre, à la Montanelli -, lo dobbiamo al coraggio esemplare dei magistrati di Palermo, di Caltanissetta e di Firenze, veri ed unici eredi di Falcone e Borsellino, che hanno anteposto il loro dovere alla convenienza, indagando a testa bassa, come arieti, tutti coloro che la Legge ha indicato come perseguibili, restando indifferenti alle minacce e ai tanti lei-non-sa-chi-sono-io sicuramente ricevuti.

Siamo sinceri: chi non vorrebbe avere come vicini di casa uomini così?

mercoledì 21 agosto 2019

PETER FONDA (1940 - 2019). Il coraggio delle verità scomode.


Peter Fonda sul set di Easy Rider.
Il pensiero che più mi infastidisce è quello delle schiere di motociclisti che in questi giorni e in quelli a seguire – c'è da giurarci – celebreranno con grandi sgasate la sua scomparsa, come fosse mancato un grande del motociclismo e non, invece, un attore che, sebbene portatore di un cognome importante, rifiutò, cinquant'anni fa, nel fiore della giovinezza artistica e biologica, i remunerativi ruoli offertigli da Hollywood, per produrre ed interpretare un film scomodo, epocale, quale fu Easy Rider.
D'altronde, chi di voi ha mai visto delle motociclette parcheggiate a grappolo fuori da una sala cinematografica? I motociclisti sono, verosimilmente, oltre che i detentori di tutta una serie di records in negativo, una categoria che il cinema, non solo lo disprezza, ma che pure, dalle sue sedi preposte, si tiene ben alla larga (a meno che la struttura non vanti una birreria annessa). Certo: negli anni il nostro ha contribuito a questa banalizzazione della pellicola, non disdegnando periodiche apparizioni a bordo di luccicanti motociclette, da vero fanatico delle due ruote (quale, sotto sotto, effettivamente era). Ciò non toglie che, nell'estetica di Easy Rider, la motocicletta rappresenti un elemento tutt'altro che marginale o accessorio. Le due ruote conferiscono al conducente una libertà atmosferica, panoramica e viaria che sono esattamente quanto Wyatt - il protagonista della pellicola - va metaforicamente cercando: cambiare aria, cambiare luogo, tentare nuove vie.
Si insite da tempo che questo e quel film andrebbero fatti vedere nelle scuole. Cioè: a sentire simili sparate, sembra che alla scuola – istituzione certo non a corto di problemi – venga consigliato caldamente di sospendere gli attuali programmi di insegnamento per trasformarsi in cineforum (sogno proibito dei distributori di mezzo mondo, i quali, passato l'ostacolo dell'impegno iniziale, procederebbero a testa bassa ad inondare gli istituti con le pellicole dei vari Muccino, Spielberg, Gibson, Nolan, con storie di Shoa e Shoe, tratto-da-una-storia-vera, tratto-da-una-storia-falsa, la-vera-storia-di, la vera-storia-del e chi più ne ha più ne metta, pattume pseudo-storico il cui unico fine sarebbe, nuovamente, quello di asservire l'ideologia globalizzante di un mercato unico delle menti, caratterizzato, in quanto tale, da una sola versione dei fatti, quella ufficiale, e così, nel giro di poco, il nostro bel cineforum si vedrebbe mutato in multisala).
Dato, però, che anch'io, spesso, vengo preso da questo integralismo cinematografico, suggerirei una sfida. Mettiamola così: se chiedessero a me (improbabile, lo so) una buona ragione per sottoporre i nostri giovani alla visione di EasyRider, direi quanto segue.
"So come vi sentite: vi sentite sconfitti. Vi sentite sconfitti perché questa società, arroccata com'è su concezioni appartenenti ad un passato lontano, è, appunto, una società vecchia, vecchia dentro, che dei giovani non sa che farsene (guardate la politica di casa nostra, se ne avete coraggio: gente che, pur avendo sconfinato negli 80, ancora si arrabatta per restare 'nel giro': come poter credere che in un qualsiasi momento delle sue affannose giornate possa anche solo lontanamente pensare a voi, ai vostri problemi, alle vostre paure, alla vostre ambizioni, ai vostri sogni?). Vi sentite sconfitti, ed è giusto, sano, che vi sentiate così. Quale persona che voglia dirsi sana, infatti, può non provare questo sentimento, trovandosi nella condizione in cui state voi oggi? Fareste però un errore grossolano a credere di essere voi gli unici grandi sconfitti della storia. Cinquant'anni fa, un giovane attore statunitense, figlio di uno delle più grandi stars di Hollywood, realizzò di tasca propria, insieme ad un amico altrettanto giovane, altrettanto bravo, ma più squattrinato, un film intitolato Easy Rider, dove è raccontata la vicenda di un giovane americano, Wyatt, il quale, durante un viaggio in motocicletta da Los Angeles da New Orleans, realizza che non solo lui, ma l'intera sua generazione – parliamo di ragazzi poco più grandi di voi -, l'intera America, il suo paese, è di fronte ad una sconfitta epocale. I sogni di libertà, di emancipazione, di fratellanza, di eguaglianza, di rispetto del prossimo, di corsa al disarmo, di fine dei conflitti armati in corso, i sogni di quell''estate dell'amore', come è stata poi definita, che fu il 1968, non avevano lasciato traccia, neanche una, lungo l'America attraverso la quale Wyatt stava viaggiando. Era una verità scomoda da dire, al tempo. Più facile tacere. Va tutto bene, l'amore trionfa, il colore della pelle non è un problema, aboliremo gli eserciti, il diritto allo studio sarà per tutti e non dipenderà dal portafoglio di papà. Più facile ancora fare un bel film pieno di belle attrici e begli attori che si baciano, si amano e vivono solo della loro passione amorosa, lontano da problemi e scazzi di ogni genere. Certo: espediente, questo, impiegato sistematicamente anche oggi. Ma allora, fidatevi, il rischio era maggiore. E invece, il nostro giovane rampollo, che fa? Realizza un film che Hollywood teme nel profondo, che parla di una verità scomoda. Perché, dopo una visione come Easy Rider, una storia che è la storia di una sconfitta bella e buona, hai voglia dire al tuo pubblico che l'amore trionferà. Questa fu la paura di Hollywood: che al suo interno vi si potesse trovare qualcuno capace di raccontare una verità  scomoda, qual è sempre la sconfitta quanto la si vuole tacere.

"Quel giovane attore coraggioso si chiamava Peter Fonda, ed è morto a Los Angeles il 16 agosto scorso, all'età di 79 anni.

"Abbiate sempre il coraggio della verità, ragazzi. è il mio più grande augurio.

"Buona visione.".