Lo 'Union Jack' secondo l'artista britannico Banksy. |
lunedì 2 marzo 2020
OUT OF ENGLAND. Gli italiani e l'Inglese dopo la Brexit.
lunedì 9 dicembre 2019
JOIE DE VIVRE. Il mio, personale ricordo di Michel Petrucciani.
È davvero sorprendente come la
radio, nel fiume pressoché ininterrotto di quella verbosità
insensata che caratterizza ormai, uniformemente, ogni suo canale, sia
ancora in grado di donare momenti di pura bellezza e grande stupore a
chi, come il sottoscritto, ancora l'ascolta con una passione d'altri
tempi.
È successo stamane (5 dicembre),
all'alba, su quell'isola che non c'è che è il terzo canale RAI (riconosco, da me insistentemente citato, come ne fossi un
azionista, ma va da sé che lì, e solo lì, è avvenuto il
miracolo).
Ricorre infatti quest'oggi – ma ne
ero completamente dimentico – il ventesimo anniversario della
scomparsa di Michel Petrucciani (per chi non lo conoscesse, un
incantevole pianista jazz francese cui la natura aveva dato tutto ciò
che abbisogna ad un essere umano per eccellere in campo musicale,
avendo però la stessa privatolo dalla nascita di quella condizione di sana
e robusta costituzione essenziale per la longevità, così
imponendogli una scomparsa prematura sia dal punto di vista musicale
sia da quello biologico).
Quando ti devi alzare all'alba per
recarti al lavoro, la voce radiofonica è una fonte di
conforto non di poco conto, sebbene, come accennato in apertura, il
nonsense sia sempre in agguato.
Ed ecco allora che, data l'ora
spaventosa dell'uscita di casa - corrispondente, oggi, ad una fascia
oraria dove ogni emittente, persino la più scalcinata e provinciale,
dispone di un format mattutino e consolatorio dedicato a tutti
coloro che abitualmente od occasionalmente sono costretti a tirare la
carretta al cantar del gallo - mi sintonizzo su Radio Rai 3, dove, va
riconosciuto, è possibile sentirsi un poco più protetti, in termini
contenutistici, rispetto agli abissi della concorrenza.
È una fascia oraria di repliche,
puntualmente seguite da proposte di ascolto in ambito classico di
musiche legate tra loro da una parola differente giorno per giorno.
La parola di oggi era vita.
Nonostante l'ora piccola, la
conduttrice sembra d'improvviso riprendersi, come se qualcosa,
finalmente, l'avesse risvegliata dalla noia di palinsesti a volte
troppo uguali. Ricorda agli ascoltatori del triste anniversario.
Aggiunge che la parola del giorno ben si adatta all'opera del
pianista francese, avendola egli amata così tanto, la vita, da
averle persino perdonato la malattia che questa gli aveva donato in
nascita. Senza ulteriori preamboli, parte Brazilian-like, dal
vivo. E non c'è null'altro che io possa fare, in quel momento, che
accostare, occhi lucidi, e farmi avvolgere per qualche minuto da
questa musica viva, ricca, meravigliosa.
Ho avuto l'onore e la fortuna di
sentire Petrucciani dal vivo due volte. La prima, mi sembra, intorno
al 1997, in occasione di un'esibizione privata con finalità benefica
per i Lions del Lago Maggiore. Insieme ad un amico attraversai i
binari di un tratto di ferrovia per poi arrampicarmi (!) sul costone
della cappella privata, sede del concerto. Fummo issati all'interno
della proprietà dagli addetti alla sicurezza, spaventati, più che
dall'incursione, dall'eventualità, verosimile, di una caduta
all'indietro sui binari, con sopraggiungere fatale di treno merci
transalpino in transito notturno. Al fine di non turbare il clima
ormai consolidato dell'evento, ci fu consentito di restare, ma
all'esterno della struttura. Data la stagione mite, le finestre
stavano aperte. Ci posizionammo come profughi su quella del retro,
che il caso volle fosse a non più di tre metri dal pianoforte.
Praticamente, sul palco. Fu come un sogno. In uno degli spasmi
dell'esecuzione, Petrucciani riuscì a fotografare i nostri volti,
continuando a suonare del tutto indisturbato. Anzi: forse persino
galvanizzato dai nostri sguardi imploranti. Lo capimmo quando, al
termine, ci riuscì di entrare e raggiungerlo.
“Hey, ragazzi: si sta meglio fuori,
no? È più fresco che qui.”.
Petrucciani parlava italiano.
“Michel: complimenti. È stato
bellissimo.”
“Grazie, ragazzi.”
Alzò la mano dal suo metro scarso di
altezza e diede noi un cinque, contraccambiato con ammirazione
assoluta ed un'invidia demoniaca per il livello sconcertante di
quanto avevamo appena sentito.
La seconda volta fu nell'anno della
sua scomparsa, il 1999. Ad Arona. Parco della Rocca Borromea. Nel
solito luglio caldissimo. In quello che sarebbe poi diventato
l'ultimo concerto italiano di Petrucciani. Una scadenza della quale
egli solo, probabilmente, era consapevole, ma che in nessun modo
riuscì ad intaccare quella gioia del fare musica e quell'amore per
la vita che così fortemente hanno caratterizzato tutte le esecuzioni
della sua carriera. Accompagnato da una formazione di superstar
del jazz, quando queste compresero che la sua improvvisazione stava
debordando, aveva l'urgenza di comunicare qualcosa che non poteva più
essere contenuto, con grande discrezione si fecero indietro e lo
lasciarono suonare solo per circa un quarto d'ora, immerso nella
bellezza della creazione, gratificato dall'incanto e dalla commozione
del pubblico.
Michel Petrucciani, è morto a soli
36 anni, lasciando dietro di sé, oltre al compianto per la perdita
di una grande voce – in senso naturalmente lato - della musica, un
esempio di dedizione alle proprie, naturali, predisposizioni che
davvero meriterebbe di essere proposto ai nostri giovani.
In un tempo dove il format
unico televisivo tenta insistentemente di persuaderci che basti un
po' di faccia tosta e quattro accordi di chitarra per sentirsi
attribuire un non meglio specificato 'talento x', la vicenda musicale
di Petrucciani può essere il miglior antidoto per riportare il
giusto ordine nelle nostre menti e nei nostri cuori.
martedì 26 novembre 2019
RESPECT THE COCK. La capacità di motivare.
Tom Cruise in Magnolia, di P.T. Anderson. |
Motivare significa, in un'ottica psicologica, adoperarsi ad
attivare nell'altro quelle capacità che gli sono proprie, al fine di
conseguire, nel migliore dei modi, l'obiettivo preposto.
Probabile che l'avvento del motivatore lo si sia avuto in ambito sportivo con la
figura del moderno allenatore di stampo statunitense (da cui i
termini, ottusamente mutuati dall'Inglese, di coach e mister), tecnicamente preparato, ma anche dotato di una filosofia, volgarmente detta vincente, e di una visione forte, persuasiva, della vita.
(Il
tutor stesso può
essere inteso come figura motivazionale in quanto, sorto nelle scuole
di recupero, ancora oggi, ha il compito, ideale, di creare
nell'allievo recalcitrante un meccanismo di autostima ed un metodo di
apprendimento, più che di inculcare nozioni molto più facilmente
apprendibili in autonomia una volta conseguite le condizione espresse nei due precedenti
punti.).
Si
può quindi facilmente cadere nel tranello di credere l'insegnante un
motivatore, con il consguente, pericoloso sbilanciamento della
responsabilità dell'apprendimento dall'allievo al
docente. Da un punto di vista tecnico, è sicuramente sbagliato. Da
quello psicologico (lo ha spiegato benissimo Massimo Recalcati ne
L'Ora Di Lezione) l'insegnamento è un rapporto a due, e certo, se il
fine è quello di innamorarsi del sapere, serve, in chi apprende, una
buona dose di motivazione, sempre intesa come riconoscimento di
capacità uniche attraverso le quali può svolgersi ogni
trasmissione.
Detto questo, il
motivatore può umiliare? No.
Di
fronte ad un problema, il motivatore può sicuramente esprimere il
proprio biasimo, le proprie riserve, la propria disapprovazione,
sempre però vincolando il giudizio non al mancato raggiungimento del
fine preposto (umiliazione), bensì al non aver impiegato quelle
qualità personali che sono in ognuno (motivazione) e che solo se
messe in campo possono portare a risultati caratterizzati da uno
stile (gratificazione), non stupida ripetizione di gesti o parole.
Ad
esempio. Il motivatore che affronta il soggetto riversandogli addosso
voci e giudizi terzi, nel tentativo, si presume, di generare una
reazione di orgoglio, confonde se stesso con il galvanizzatore, il
cui compito è quello di attivare l'azione nel soggetto ad ogni costo
e condizione, prestando, pertanto, un pessimo servizio alla causa
motivazionale.
Nella
fase iniziale, il rapporto motivatore/soggetto è sbilanciato a
favore del primo. Qui lo sport, ancora una volta, è foriero di esempi. Vi sono molti
atleti, specie negli sport di squadra, il cui potenziale fatica ad
esprimenrsi in campo perché messi in difficoltà dal pubblico,
dall'avversario, perché timorosi di essere pesantemente giudicati
per un errore o per la propria giovane età. Ecco: in questi casi, la
dipendenza da un buon motivatore (allenatore) è quasi totale. Ma è
anche chiaro che un simile rapporto può avere solo una durata
limitata, deve risolversi con la crescita del soggetto in direzione
della massima autonomia.
Forse
il peggior motivatore è proprio colui che, attraverso l'impiego
delle cosiddette mezze verità, vincola a sé anziché liberare,
impedendo in tal modo l'espressione di potenziali che potrebbero,
invece, fare la differenza (come sempre accade con un apporto
genuinamente personale).
venerdì 27 settembre 2019
C'ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD. Il cinema nel cinema di Quentin Tarantino.
Brad Pitt nei panni di Cliff Booth. |
Sta
di fatto che, a metà della visione di C'era Una Volta A Hollywood, a
stento mi sono trattenuto dall'alzarmi in piedi ad applaudire (per
coloro che già hanno visionato la pellicola, l'applauso intendeva
omaggiare la sequenza strepitosa dove Leo Di Caprio
ricicla il proprio personaggio nel rifacimento della serie telvisiva Lancer, in un cortocircuito estetico incantevole e spassosissimo).
(A mia
esclusiva tutela, e prima che qualcuno di coloro che frequentano
questo blog decida di allertare Telefono Azzurro, mi sia
concesso precisare che il minorenne in questione è un ragazzino di
grande sensibilità cinematografica, figlio di un amico in trasferta
all'estero per lavoro).
Perciò,
essendo ormai incapace
di vivere dignitosamente la mia solitudine di fuori-casta, ho subito
raccontato ad una conoscente dello sforzo titanico messo in campo per
sopprimere detto entusiasmo. E mai scelta fu più azzeccata, se
inconsciamente desideravo sentirmi ancora più isolato:
A me
non è piaciuto per niente. Mi sono rotta le palle dall'inizio alla
fine. Due ore e mezza di una storia irreale... Volevo davvero uscire
- sai?
Questa tesi, quella che scredita un soggetto cinematografico a seconda del grado di irrealtà, di finzione, impiegato, ha avuto, in passato, illustri detrattori, tra cui Alfred Hitchcock. Il maestro sosteneva che pretendere dal cinema una mera riproduzione della realtà è insensato. Se ciò che si vuole è vedere la vita di tutti i giorni, la realtà del quotidiano, non serve andare al cinema: basta sedere al tavolo di un bar e osservare i passanti. Pertanto accusare Tarantino di avere ammorbato la visione del suo stesso film con una storia troppo ricca di elementi di finzione (fiction: vi ricorda qualcosa?), denota scarsa fantasia ed altrettanto scarsa disposizione a farsi guidare lungo strade che non siano quelle abituali.
Anche perché la trovata geniale di C'era Una Volta sta proprio nel presentare una vicenda tragicamente vera (l'omicidio Tate, la fine della golden age e della summer of love) per mezzo di un soggetto di invenzione. Il tutto condito da un clima estetico (quello dei '60) reso da Tarantino in maniera straordinaria.
Sebbene i comparti costume e scenografia abbiano lavorato egregiamente (vedere per credere), non è nella riproposizione di un capo d'abbigliamento o di un'autovettura d'epoca che si situa la grandezza di quesito film - il cui unico difetto è, forse, quello di rivolgersi in totale buona fede ad un pubblico che si presume avere visto tanto, tanto cinema (più ne hai visto, più la sua visione è resa godibilissima e stimolante). È nel ricreare un clima, quello della Los Angeles fine '60, che si situa il suo maggior pregio estetico (impresa che Tarantino aveva già tentato, con pessimi risultati al botteghino, ma eccellenti sullo schermo, con il progetto Grindhouse). Si ha la sensazione di respirarlo, mentre si guarda. I silenzi dello Spahn Movie Ranch; l'universo parallelo della Playboy Mansion; il caldo della West Coast; il mondo ovattato e fittizio degli studios; le sale semivuote del matinée; le corse in macchina sulla Strip; il sottofondo dei drive-ins, e via dicendo. C'è tutto questo e molto più in C'era Una Volta (fra le tante sequenze memorabili del film, che non possono essere tutte citate, la menzione d'onore va sicuramente a quella dove Margot Robbie, nei panni di Sharon Tate, si reca al cinema a vedere Missione Compiuta, alla delicatezza con cui Tarantino tratta l'immagine di questa donna nel fiore degli anni ed inconsapevole dei motivi che la porteranno di lì a breve agli onori della cronaca nera, una sequenza di cinema nel cinema davvero meravigliosa).
Ed
è proprio grazie a tale riproduzione, quella cioè di una California
con tutto il suo portato mitico, che Tarantino può inserire la
vicenda del tutto verosimile dei suoi due protagonisti, Rick e Cliff
(rispettivamente Di Caprio e Brad Pitt), un dramma che molti di
coloro che vivevano dell'enorme indotto di Hollywood si trovarono a
vivere in prima persona.
Nel
cinema di Tarantino, insomma, ciò che è vero subisce l'invenzione
(Sharon Tate, Jay Sebring e Voytek Frykowski si salvano dalla notte
di Helter
Skelter
e consumano un brindisi con Rick), mentre quanto è frutto di
invenzione risulta, alla fine, più vero che mai (le carriere di Rick
e Cliff sono rovinate dell'esplosione delle serie televisive cui
l'industria tutta si deve adeguare).
È quindi difficile, grazie a questo artificio narrativo, non commuoversi nella sequenza finale del film,di fronte all'immagine di Emile Hirsch nei panni di Jay Sebring che fa capolino dietro il cancello del 10050 di Cielo Drive. La realtà è spesso troppo dura da digerire. Ma il cinema, ed in particolar modo quello di Tarantino, può girarvi intorno e farci sognare come sarebbe stato se la notte dell'8 agosto 1969 le cose, per il mondo del cinema – che, non dimentichiamo, è il mondo di Tarantino -, fossero andate diversamente.
Jay è il
vicino gentile, cordiale e discreto che tutti vorremmo avere.
Ma è la finzione a portarlo fino a noi.
È finto.
lunedì 23 settembre 2019
JOVA 'BITCH' PARTY. Lorenzo Jovanotti e l'assenza del limite.
Un clochard sulla spiaggia di Barletta |
Lorenzo (come ama spesso essere appellato, nome comune per una persona altrettanto comune) è fuor di dubbio un entertainer di grandissimo successo.
Si ponga però attenzione al termine impiegato. Lorenzo non è infatti un artista (come predicato dai più): è un intrattenitore - come Rosario Fiorello o Renzo Arbore, per intenderci. Non propone una visione del mondo (compito primario dell'artista), bensì un prodotto (il mega-evento o mega-concerto che dir si voglia) in grado di garantire uno svago non dissimile a quello di un pool party alle Baleari, ma con prezzi quadruplicati.
Si ponga però attenzione al termine impiegato. Lorenzo non è infatti un artista (come predicato dai più): è un intrattenitore - come Rosario Fiorello o Renzo Arbore, per intenderci. Non propone una visione del mondo (compito primario dell'artista), bensì un prodotto (il mega-evento o mega-concerto che dir si voglia) in grado di garantire uno svago non dissimile a quello di un pool party alle Baleari, ma con prezzi quadruplicati.
Detto questo, sembra che nulla, nemmeno l'appena citato ricarico, possa fermare il suo seguito dal desiderare e quindi acquistare detto prodotto: a riprova, il tutto-esaurito registrato dall'ultima serie di concerti del Lorenzo, svoltasi su alcune tra le spiagge più belle del paese (e coerentemente intitolato Jova Beach Party). Allo stesso modo, svalutarne pubblicamente la portata (ribadisco: non artista, ma intrattenitore) non impedisce agli stessi di sentirsi appieno rappresentati dalle sue parole, dalla musica, dai gesti e dalle prese di posizione (basta parlare con uno solo dei suoi fans per rendersi conto della distorsione con la quale ne percepisce la figura: qualcosa a metà strada tra Nelson Mandela e Gesù di Nazareth).
Evidentemente non pago del successo fin qui arrisogli, Lorenzo ha deciso di andare oltre e così conquistare luoghi quanto mai inusuali (almeno da noi) per concerti e mega-eventi (ed ecco spiegata l'origine della data di Linate).
Evidentemente non pago del successo fin qui arrisogli, Lorenzo ha deciso di andare oltre e così conquistare luoghi quanto mai inusuali (almeno da noi) per concerti e mega-eventi (ed ecco spiegata l'origine della data di Linate).
Il suo desiderio (non dubitiamo, infatti, che sua e solo sua sia stata l'idea) di tenere concerti su spiagge ed aerodromi tradisce una volontà dittatoriale di appopriarsi, per mezzo della sua musica, di ogni spazio, ambito e luogo del paese, nel sogno malato di una nazione dove egli si immagina nei panni di Grande Fratello (quello di George Orwell, non quello di Alessia Marcuzzi), teso a declinare ogni ambito del vivere quotidiano alla pseudo-filosofia propalata dai testi delle sue canzoni.
Lorenzo Jovanotti, inconsciamente, attua nei confronti dell'aeroporto chiuso per ristrutturazione la stessa logica che la mala di periferia applica al primo locale che si svuota per più di un giorno: lo occupa. Ma soprattutto: Lorenzo Jovanotti non è in grado di concepire più l'idea di un luogo del paese dove la sua figura, la sua presenza, risulti assente.
Le immagini circolanti di Jovanotti galvanizzato ai massimi livelli (chi non lo sarebbe, al posto suo?) e ripreso spalle al pubblico con il grandangolo, ci ristituiscono il ritratto sconcertante di una persona la cui festa prosegue ininterrotta da più di 30 anni; che probabilmente ha vissuto gli eventi più importanti del trentennio con l'indifferenza di chi è impegnato in bagordi all'interno di un locale; convinta che il successo venga elargito agli eletti a prescindere dal talento (che, unitamente alla mancanza di modestia, Jovanotti non ha nella maniera più assoluta); convinta (forse giustamente) che, in assenza totale di critica, di opposizione, si possa fare tranquillamente a meno del senso del limite.
Tutto questo grazie ad un pubblico arci-italiano disposto a farsi guidare da chiunque - sia esso l'imprenditore di successo, lo sborone con residenza all'estero o il cantante in testa alla classifica - prometta a gran voce di appianare ogni divergenza e risolvere ogni problema (esattamente ciò che Jovanotti, con il suo mix di bella vita, spiritualismo spiccio, ambiantalismo tanto-al-kilo, filosofia di invenzione e disprezzo per il talento propone nei suoi spettacoli, dove, ogni due canzoni, parte l'immancabile discorso dal balcone di Piazza Venezia).
Perché non bisogna mai dimenticare che l'italiano medio non vuole un governo per il paese: vuole essere governato.
Attendiamo quindi con ansia il giorno nel quale, in occasione della sua prossima data romana, magari in occasione del viaggio all'estero di Sua Santità Bergoglio, Lorenzo deciderà di suonare sull'altare di San Pietro e, dal momento che lì si trova, imbastire una bella predica tra un brano e l'altro, e la comunione a fine-concerto.
Lorenzo Jovanotti, inconsciamente, attua nei confronti dell'aeroporto chiuso per ristrutturazione la stessa logica che la mala di periferia applica al primo locale che si svuota per più di un giorno: lo occupa. Ma soprattutto: Lorenzo Jovanotti non è in grado di concepire più l'idea di un luogo del paese dove la sua figura, la sua presenza, risulti assente.
Le immagini circolanti di Jovanotti galvanizzato ai massimi livelli (chi non lo sarebbe, al posto suo?) e ripreso spalle al pubblico con il grandangolo, ci ristituiscono il ritratto sconcertante di una persona la cui festa prosegue ininterrotta da più di 30 anni; che probabilmente ha vissuto gli eventi più importanti del trentennio con l'indifferenza di chi è impegnato in bagordi all'interno di un locale; convinta che il successo venga elargito agli eletti a prescindere dal talento (che, unitamente alla mancanza di modestia, Jovanotti non ha nella maniera più assoluta); convinta (forse giustamente) che, in assenza totale di critica, di opposizione, si possa fare tranquillamente a meno del senso del limite.
Tutto questo grazie ad un pubblico arci-italiano disposto a farsi guidare da chiunque - sia esso l'imprenditore di successo, lo sborone con residenza all'estero o il cantante in testa alla classifica - prometta a gran voce di appianare ogni divergenza e risolvere ogni problema (esattamente ciò che Jovanotti, con il suo mix di bella vita, spiritualismo spiccio, ambiantalismo tanto-al-kilo, filosofia di invenzione e disprezzo per il talento propone nei suoi spettacoli, dove, ogni due canzoni, parte l'immancabile discorso dal balcone di Piazza Venezia).
Perché non bisogna mai dimenticare che l'italiano medio non vuole un governo per il paese: vuole essere governato.
Attendiamo quindi con ansia il giorno nel quale, in occasione della sua prossima data romana, magari in occasione del viaggio all'estero di Sua Santità Bergoglio, Lorenzo deciderà di suonare sull'altare di San Pietro e, dal momento che lì si trova, imbastire una bella predica tra un brano e l'altro, e la comunione a fine-concerto.
A fare simili riflessioni, viene davvero il sospetto che il tanto decantato ombelico del mondo non fosse altro che il suo.
lunedì 2 settembre 2019
AI CONFINI DELLA REALTÀ. A 25 anni dalla trattativa stato-mafia.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. |
Da allora, per qualche anno, ho accantonato ogni passione civile per dedicarmi a questo nuovo compito.
Oggi, per mia fortuna, ho ritrovato la forza e il coraggio per riprendere il discorso (similmente alla paternità senza dedizione, senza passione non vi può essere una vita civile) e così finalmente leggere, a ben cinque anni dalla sua pubblicazione, Ė Stato La Mafia, il libro di Marco Travaglio sulla trattativa tra uomini dello Stato ed esponenti mafiosi, intrapreso dai primi 25 anni fa, all'indomani dell'uccisione di Giovanni Falcone.
E, credete: ce ne vuole non poco, di coraggio, se si considera che una lettura attenta delle sue poche pagine (153) è in grado di minare alla base quella speranza in un domani migliore senza la quale la vita politica - e di conseguenza l'impegno civile - non può darsi.
Ne ho parlato, confidenzialmente, con un conoscente, il quale, vistomi immerso, giorni fa, nella lettura del libro al tavolo dell'aperitivo (cosa non farei, pur di sputtanare gli hipsters del 'telefonino'), aveva manifestato un insolito, sorprendente interesse per la materia (sia cartacea che contenutistica). Risultato: "Sai, a me, cosa mi rende felice? Fare le cose che mi piacciono. Andare in palestra, mettere a posto il giardino, uscire con gli amici... Queste cose qui - indica il libro -, mi mettono tristezza.".
Certo: come ho appena detto, gioia non ne provoca, una simile lettura, come lo stesso Travaglio afferma nell'introduzione al testo ("... mi domandai quanti cittadini avrebbero pagato ... per ascoltare una storia così terribile e disperante."). Come è vero che con cittadini capaci di simili risposte, la politica è ben lungi dal temere di vedersi giudicata per i propri atti.
Sebbene, al tempo, non diedi la giusta lettura ai fatti di Capaci, prima, e via D'Amelio, dopo (ero troppo giovane e inesperto delle cose della vita), ricordo con chiarezza l'impressione di tragica irreversibilità che ricevetti da quelle due tragedie. Impressione poi confermata dalle parole pronunciate da Antonino Caponnetto in seguito alla scomparsa del suo amico Paolo Borsellino: "Ė tutto finito.". Caponnetto, uomo dal cuore grande, si pentì, successivamente, del disfattismo convogliato da quelle parole. Ma gli riconosciamo che ne aveva ben donde, se si pensa che Borsellino, uomo dal fiuto investigativo raro (altro che CSI!), era stato ucciso proprio perché, venuto al corrente che lo stato (a questo punto con una meritatissima s minuscola), lungi dal mettersi sulle tracce di chi aveva ucciso il suo collega e amico Giovanni Falcone, era sceso a patti con l'organizzazione che di quell'uccisione era mandante, tentò di ostacolarla con il coraggio della disperazione.
Mi permetto qui di dire - con rispetto per i morti - che, ben più che sui corpi dilaniati dei loro obbiettivi, fu l'impatto che quelle bombe ebbero sulla condotta politica italiana, intesa nella sua accezione più pura come gestione del bene e della cosa pubblici e non di mercato della compravendita cui siamo stati invece abituati, a risultare maggiormente devastante. Un'onda d'urto che si esaurisce, con buona pace dei suoi tanti difensori, nel consenso del 100% (!) incassato da Forza Italia in Sicilia alla elezioni politiche del 2001.
Troppo facile, quindi, uscire dalla vicenda ricordando ai giovani, ancora una volta, che devono leggere ed apprendere la lezione dello scandalo stato-mafia. Siamo noi che, al ivello generazionale, seppur con diverse intenzioni, abbiamo avallato la classe politica resasi protagonista della trattativa. Per i nostri giovani sarà, né più né meno, un capitolo di storia moderna, come il Watergate o il caso Moro - per restare in casa nostra -, mentre per noi è - e sarà a lungo - un'onta da elaborare.
Ė Stato La Mafia racconta in maniera chiara, dati alla mano, come tutti i versanti politici, nessuno escluso, abbiano contribuito, negli anni seguiti agli infami accordi del '92, al loro puntuale rispetto.
Come cittadini, vi abbiamo concorso, più o meno inconsapevolmente, ogni qual volta abbiamo portato rispetto a nomi, cariche e divise la cui concezione dello Stato - come è emerso spudoratamente dalle intercettazioni richieste per l'indagine - è risultata essere, semplicemente, inesistente - e che in un mondo normale avrebbero conosciuto la pena capitale con l'accusa di alto tradimento.
In questo panorama di assoluto degrado etico ed istituzionale emerge, però, un fatto sorprendente, al quale chi ancora è dotato di coscienza, non può che aggraparsi come il naufrago al frammento di scafo (mi si perdoni la metafora dettata dalla scottante attualità). E cioè: se oggi possiamo ventilare il nostro legittimo scandalo, oltre a Travaglio che ne ha fornito l'unica narrazione attendibile - e che, come ho avuto modo di dire più volte, in questo blog, è per me il più grande giornalista italiano di sempre, à la Montanelli -, lo dobbiamo al coraggio esemplare dei magistrati di Palermo, di Caltanissetta e di Firenze, veri ed unici eredi di Falcone e Borsellino, che hanno anteposto il loro dovere alla convenienza, indagando a testa bassa, come arieti, tutti coloro che la Legge ha indicato come perseguibili, restando indifferenti alle minacce e ai tanti lei-non-sa-chi-sono-io sicuramente ricevuti.
Siamo sinceri: chi non vorrebbe avere come vicini di casa uomini così?
Troppo facile, quindi, uscire dalla vicenda ricordando ai giovani, ancora una volta, che devono leggere ed apprendere la lezione dello scandalo stato-mafia. Siamo noi che, al ivello generazionale, seppur con diverse intenzioni, abbiamo avallato la classe politica resasi protagonista della trattativa. Per i nostri giovani sarà, né più né meno, un capitolo di storia moderna, come il Watergate o il caso Moro - per restare in casa nostra -, mentre per noi è - e sarà a lungo - un'onta da elaborare.
Ė Stato La Mafia racconta in maniera chiara, dati alla mano, come tutti i versanti politici, nessuno escluso, abbiano contribuito, negli anni seguiti agli infami accordi del '92, al loro puntuale rispetto.
Come cittadini, vi abbiamo concorso, più o meno inconsapevolmente, ogni qual volta abbiamo portato rispetto a nomi, cariche e divise la cui concezione dello Stato - come è emerso spudoratamente dalle intercettazioni richieste per l'indagine - è risultata essere, semplicemente, inesistente - e che in un mondo normale avrebbero conosciuto la pena capitale con l'accusa di alto tradimento.
In questo panorama di assoluto degrado etico ed istituzionale emerge, però, un fatto sorprendente, al quale chi ancora è dotato di coscienza, non può che aggraparsi come il naufrago al frammento di scafo (mi si perdoni la metafora dettata dalla scottante attualità). E cioè: se oggi possiamo ventilare il nostro legittimo scandalo, oltre a Travaglio che ne ha fornito l'unica narrazione attendibile - e che, come ho avuto modo di dire più volte, in questo blog, è per me il più grande giornalista italiano di sempre, à la Montanelli -, lo dobbiamo al coraggio esemplare dei magistrati di Palermo, di Caltanissetta e di Firenze, veri ed unici eredi di Falcone e Borsellino, che hanno anteposto il loro dovere alla convenienza, indagando a testa bassa, come arieti, tutti coloro che la Legge ha indicato come perseguibili, restando indifferenti alle minacce e ai tanti lei-non-sa-chi-sono-io sicuramente ricevuti.
Siamo sinceri: chi non vorrebbe avere come vicini di casa uomini così?
mercoledì 21 agosto 2019
PETER FONDA (1940 - 2019). Il coraggio delle verità scomode.
Peter Fonda sul set di Easy Rider. |
Il
pensiero che più mi infastidisce è quello delle schiere di
motociclisti che in questi giorni e in quelli a seguire – c'è da
giurarci – celebreranno con grandi sgasate la sua scomparsa, come fosse mancato un grande del motociclismo e non, invece,
un attore che, sebbene portatore di un cognome importante, rifiutò,
cinquant'anni fa, nel fiore della giovinezza artistica e biologica, i
remunerativi ruoli offertigli da Hollywood, per produrre ed
interpretare un film scomodo, epocale, quale fu Easy Rider.
D'altronde,
chi di voi ha mai visto delle motociclette parcheggiate a grappolo
fuori da una sala cinematografica? I motociclisti sono,
verosimilmente, oltre che i detentori di tutta una serie di records
in negativo, una categoria che il cinema, non solo lo disprezza, ma
che pure, dalle sue sedi preposte, si tiene ben alla larga (a meno
che la struttura non vanti una birreria annessa). Certo: negli anni il nostro ha contribuito a questa banalizzazione della pellicola, non
disdegnando periodiche apparizioni a bordo di luccicanti
motociclette, da vero fanatico delle due ruote (quale, sotto sotto,
effettivamente era). Ciò non toglie che, nell'estetica di Easy
Rider, la motocicletta
rappresenti un elemento tutt'altro che marginale o accessorio. Le due
ruote conferiscono al conducente una libertà atmosferica, panoramica
e viaria che sono esattamente quanto Wyatt - il protagonista della pellicola - va
metaforicamente cercando: cambiare aria, cambiare luogo, tentare
nuove vie.
Si
insite da tempo che questo e quel film andrebbero fatti vedere nelle
scuole. Cioè: a sentire simili sparate, sembra che alla scuola –
istituzione certo non a corto di problemi – venga consigliato
caldamente di sospendere gli attuali programmi di insegnamento per
trasformarsi in cineforum (sogno proibito dei distributori di mezzo
mondo, i quali, passato l'ostacolo dell'impegno iniziale,
procederebbero a testa bassa ad inondare gli istituti con le
pellicole dei vari Muccino, Spielberg, Gibson, Nolan, con storie di
Shoa e Shoe, tratto-da-una-storia-vera, tratto-da-una-storia-falsa,
la-vera-storia-di, la vera-storia-del e chi più ne ha più ne metta,
pattume pseudo-storico il cui unico fine sarebbe, nuovamente, quello
di asservire l'ideologia globalizzante di un mercato unico delle
menti, caratterizzato, in quanto tale, da una sola versione dei
fatti, quella ufficiale, e così, nel giro di poco, il nostro bel
cineforum si vedrebbe mutato in multisala).
Dato, però, che anch'io, spesso, vengo preso da questo integralismo cinematografico, suggerirei una sfida. Mettiamola così: se chiedessero a me (improbabile, lo so) una
buona ragione per sottoporre i nostri giovani alla visione di
EasyRider, direi quanto segue.
"So
come vi sentite: vi sentite sconfitti. Vi sentite sconfitti perché
questa società, arroccata com'è su concezioni appartenenti ad un
passato lontano, è, appunto, una società vecchia, vecchia dentro,
che dei giovani non sa che farsene (guardate la politica di casa
nostra, se ne avete coraggio: gente che, pur avendo sconfinato negli
80, ancora si arrabatta per restare 'nel giro': come poter credere
che in un qualsiasi momento delle sue affannose giornate possa anche
solo lontanamente pensare a voi, ai vostri problemi, alle vostre
paure, alla vostre ambizioni, ai vostri sogni?). Vi sentite
sconfitti, ed è giusto, sano, che vi sentiate così. Quale persona
che voglia dirsi sana, infatti, può non provare questo sentimento,
trovandosi nella condizione in cui state voi oggi? Fareste però un
errore grossolano a credere di essere voi gli unici grandi sconfitti
della storia. Cinquant'anni fa, un giovane attore statunitense,
figlio di uno delle più grandi stars di Hollywood, realizzò
di tasca propria, insieme ad un amico altrettanto giovane,
altrettanto bravo, ma più squattrinato, un film intitolato Easy
Rider, dove è raccontata la vicenda di un giovane americano, Wyatt, il quale, durante un viaggio in motocicletta da Los Angeles da New Orleans,
realizza che non solo lui, ma l'intera sua generazione – parliamo
di ragazzi poco più grandi di voi -, l'intera America, il suo paese, è di fronte
ad una sconfitta epocale. I sogni di libertà, di emancipazione, di
fratellanza, di eguaglianza, di rispetto del prossimo, di corsa al
disarmo, di fine dei conflitti armati in corso, i sogni di
quell''estate dell'amore', come è stata poi definita, che fu il
1968, non avevano lasciato traccia, neanche una, lungo l'America
attraverso la quale Wyatt stava viaggiando. Era una verità scomoda da
dire, al tempo. Più facile tacere. Va tutto bene, l'amore trionfa,
il colore della pelle non è un problema, aboliremo gli eserciti, il
diritto allo studio sarà per tutti e non dipenderà dal portafoglio
di papà. Più facile ancora fare un bel film pieno di belle attrici
e begli attori che si baciano, si amano e vivono solo della loro
passione amorosa, lontano da problemi e scazzi di ogni genere.
Certo: espediente, questo, impiegato sistematicamente anche oggi. Ma allora,
fidatevi, il rischio era maggiore. E invece, il nostro giovane rampollo,
che fa? Realizza un film che Hollywood teme nel profondo, che parla di una verità
scomoda. Perché, dopo una visione come Easy Rider, una storia
che è la storia di una sconfitta bella e buona, hai voglia dire al
tuo pubblico che l'amore trionferà. Questa fu la paura di Hollywood: che al suo interno vi si potesse trovare qualcuno capace di raccontare una verità scomoda, qual è sempre la sconfitta quanto la si vuole tacere.
"Quel giovane attore coraggioso si chiamava Peter Fonda, ed è morto a Los Angeles il 16 agosto scorso, all'età di 79 anni.
"Abbiate sempre il coraggio della verità, ragazzi. è il mio più grande augurio.
"Buona visione.".
"Quel giovane attore coraggioso si chiamava Peter Fonda, ed è morto a Los Angeles il 16 agosto scorso, all'età di 79 anni.
"Abbiate sempre il coraggio della verità, ragazzi. è il mio più grande augurio.
"Buona visione.".
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