lunedì 2 settembre 2019

AI CONFINI DELLA REALTÀ. A 25 anni dalla trattativa stato-mafia.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Sette anni fa, nei giorni del ventesimo anniversario della strage di Capaci e di quella subito successiva di via D'Amelio, mi stavo preparando a diventare padre. Ruolo per il quale, lungi dalle dicerie, non si nasce predisposti in quanto maschi: lo si diventa con l'impegno, la dedizione e l'amore - tratti per i quali è richiesto un certo sforzo.

Da allora, per qualche anno, ho accantonato ogni passione civile per dedicarmi a questo nuovo compito.

Oggi, per mia fortuna, ho ritrovato la forza  e il coraggio per riprendere il discorso (similmente alla paternità senza dedizione, senza passione non vi può essere una vita civile) e così finalmente leggere, a ben cinque anni dalla sua pubblicazione, Ė Stato La Mafia, il libro di Marco Travaglio sulla trattativa tra uomini dello Stato ed esponenti mafiosi, intrapreso dai primi 25 anni fa, all'indomani dell'uccisione di Giovanni Falcone.

E, credete: ce ne vuole non poco, di coraggio, se si considera che una lettura attenta delle sue poche pagine (153) è in grado di minare alla base quella speranza in un domani migliore senza la quale la vita politica - e di conseguenza l'impegno civile - non può darsi.

Ne ho parlato, confidenzialmente, con un conoscente, il quale, vistomi immerso, giorni fa, nella lettura del libro al tavolo dell'aperitivo (cosa non farei, pur di sputtanare gli hipsters del 'telefonino'), aveva manifestato un insolito, sorprendente interesse per la materia (sia cartacea che contenutistica). Risultato: "Sai, a me, cosa mi rende felice? Fare le cose che mi piacciono. Andare in palestra, mettere a posto il giardino, uscire con gli amici... Queste cose qui - indica il libro -, mi mettono tristezza.".

Certo: come ho appena detto, gioia non ne provoca, una simile lettura, come lo stesso Travaglio afferma nell'introduzione al testo ("... mi domandai quanti cittadini avrebbero pagato ... per ascoltare una storia così terribile e disperante."). Come è vero che con cittadini capaci di simili risposte, la politica è ben lungi dal temere di vedersi giudicata per i propri atti.

Sebbene, al tempo, non diedi la giusta lettura ai fatti di Capaci, prima, e via D'Amelio, dopo (ero troppo giovane e inesperto delle cose della vita), ricordo con chiarezza l'impressione di tragica irreversibilità che ricevetti da quelle due tragedie. Impressione poi confermata dalle parole pronunciate da Antonino Caponnetto in seguito alla scomparsa del suo amico Paolo Borsellino: "Ė tutto finito.". Caponnetto, uomo dal cuore grande, si pentì, successivamente, del disfattismo convogliato da quelle parole. Ma gli riconosciamo che ne aveva ben donde, se si pensa che Borsellino, uomo dal fiuto investigativo raro (altro che CSI!), era stato ucciso proprio perché, venuto al corrente che lo stato (a questo punto con una meritatissima s minuscola), lungi dal mettersi sulle tracce di chi aveva ucciso il suo collega e amico Giovanni Falcone, era sceso a patti con l'organizzazione che di quell'uccisione era mandante, tentò di ostacolarla con il coraggio della disperazione.

Mi permetto qui di dire - con rispetto per i morti - che, ben più che sui corpi dilaniati dei loro obbiettivi, fu l'impatto che quelle bombe ebbero sulla condotta politica italiana, intesa nella sua accezione più pura come gestione del bene e della cosa pubblici e non di mercato della compravendita cui siamo stati invece abituati, a risultare maggiormente devastante. Un'onda d'urto che si esaurisce, con buona pace dei suoi tanti difensori, nel consenso del 100% (!) incassato da Forza Italia in Sicilia alla elezioni politiche del 2001.

Troppo facile, quindi, uscire dalla vicenda ricordando ai giovani, ancora una volta, che devono leggere ed apprendere la lezione dello scandalo stato-mafia. Siamo noi che, al ivello generazionale, seppur con diverse intenzioni, abbiamo avallato la classe politica resasi protagonista della trattativa. Per i nostri giovani sarà, né più né meno, un capitolo di storia moderna, come il Watergate o il caso Moro - per restare in casa nostra -, mentre per noi è - e sarà a lungo - un'onta da elaborare.

Ė Stato La Mafia racconta in maniera chiara, dati alla mano, come tutti i versanti politici, nessuno escluso, abbiano contribuito, negli anni seguiti agli infami accordi del '92, al loro puntuale rispetto.

Come cittadini, vi abbiamo concorso, più o meno inconsapevolmente, ogni qual volta abbiamo portato rispetto a nomi, cariche e divise la cui concezione dello Stato - come è emerso spudoratamente dalle intercettazioni richieste per l'indagine - è risultata essere, semplicemente, inesistente - e che in un mondo normale avrebbero conosciuto la pena capitale con l'accusa di alto tradimento.

In questo panorama di assoluto degrado etico ed istituzionale emerge, però, un fatto sorprendente, al quale chi ancora è dotato di coscienza, non può che aggraparsi come il naufrago al frammento di scafo (mi si perdoni la metafora dettata dalla scottante attualità). E cioè: se oggi possiamo ventilare il nostro legittimo scandalo, oltre a Travaglio che ne ha fornito l'unica narrazione attendibile - e che, come ho avuto modo di dire più volte, in questo blog, è per me il più grande giornalista italiano di sempre, à la Montanelli -, lo dobbiamo al coraggio esemplare dei magistrati di Palermo, di Caltanissetta e di Firenze, veri ed unici eredi di Falcone e Borsellino, che hanno anteposto il loro dovere alla convenienza, indagando a testa bassa, come arieti, tutti coloro che la Legge ha indicato come perseguibili, restando indifferenti alle minacce e ai tanti lei-non-sa-chi-sono-io sicuramente ricevuti.

Siamo sinceri: chi non vorrebbe avere come vicini di casa uomini così?

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