sabato 12 marzo 2022

GIOVENTÙ BRUCIATA. L'inadeguatezza 'millenial' di fronte alla guerra.


Stamane (10 marzo), gli studenti di alcune scuole della mia città hanno sfilato lungo le strade per protestare contro la guerra in Ucraina (la specifica mi sembra d'obbligo, dato il sussistere, a livello internazionale, di numerosi altri conflitti armati). Mi sono imbattuto in loro per puro caso, nel mentre il corteo passava per le vie del centro, e subito sono stato portato ad alcune riflessioni che ritengo meritorie di condivisione. Ciò che mi ha colpito, di questa manifestazione, più di ogni altra cosa, è stato il suo quasi totale silenzio, un'assenza di fragore e di vitalità che mal si addiceva ad un evento come questo. Se si esclude il soffice trepestio da 'calzatura giovane' ed il chiacchiericcio divertito di alcuni, quello odierno è sembrato, più che un corteo di protesta, un corteo funebre. La memoria storica collettiva, intendendo con essa quella italica, porta ancora ben impresso quello che, ad oggi, si può dire sia stato l'unico modello di protesta civile messo in campo con efficacia nel paese: quello del'68. Coinvolgente, coraggioso, genuinamente idealista, rumoroso, certamente arrabbiato e, nel suo ultimo strascico ad inizio '70, ad altissimo potere persuasivo e conflittuale. Sorprende, pertanto, non solo che questi giovani impieghino, al fine di manifestare oggi contro la guerra, gli stessi metodi con i quali i loro nonni (!), 50'anni fa, esercitavano il diritto alla protesta: sorprende l'immiserimento del modello preso a prestito. Persino gli slogans, tenuti alti sopra le teste e compresi in un arco linguistico che andava dal gioco di parole (Put out Putin) all'abusato fate l'amore, non fate la guerra, passando per la citazione (“You may say I'm a dreamer, but I'm not the only one”) - precetti stucchevoli che il pacifismo prêt-à-porter impone ai propri seguaci esattamente come la Chiesa con la messa della domenica, il loggione con il bravo! al termine dell'aria celebre o la curva ultrà con i cori di supporto - sono vetusti al limite della decenza, ed accettati supinamente dai nostri giovani in una acriticità che non fa ben sperare. Tornando al silenzio, mi pare esso sia del tutto in linea con il basso voltaggio che caratterizza da sempre la generazione millenial, la quale, a partire dalla sua comparsa nella vita civile, possiamo dire non ha propriamente brillato per vitalità ed iniziativa (si pensi, ad esempio, alle Sardine, e si avrà, di quanto appena sostenuto, un'immagine emblematica). Si potrebbe obiettare, di fronte a questa mia critica, che c'è ben di che essere addolorati, se si pensa a quanto sta accadendo sul terreno di guerra e al tavolo di mediazione. Ma questo offrirebbe un alibi, ai nostri giovani, che ritengo non meritino, ed uno che, personalmente, non intendo offrire loro. Quello degli studi superiori, si sa, è un momento di dolorosa, ma fondamentale, crescita culturale. Cessa ufficialmente l'età dorata dell'infanzia, ed ha inizio il lento, inesorabile cammino verso quella adulta. Exit Babbo Natale, enter la vita vera. L'intervallo è finito, ragazzi. Mi chiedo, quindi, con quale tipo di coscienza, questi giovani, intendano affrontare il reale - specie se informato, come sembrano darne prova, ad un conflitto estremamente complicato come quello russo-ucraino. Ma, soprattutto, quale tipo di coscienza intendano formare i professori e gli amministratori comunali (il sindaco ha preso parte all'iniziativa ed ha parlato agli studenti) che, nell'anno 2022, concedono ed appoggiano simili iniziative. Sono stato, a mio tempo, un idealista pedante ed inguaribile. Capisco bene come possa suonare, e risuonare, nella testa di un giovane la notizia del bombardamento indiscriminato di una scuola o di un ospedale. Ma credere che una manifestazione come quella di oggi possa avere un impatto sulle coscienze e sulla comunità internazionale, mi sembra non solo pericoloso e diseducativo, ma anche parecchio presuntuoso. Ciò non significa che sia meglio e molto più conveniente votarsi al cinismo. Ritengo sia ora di spiegare ai nostri ragazzi (impiego spontaneamente il possessivo non per paternalismo, ma perché, all'anagrafe, potrei benissimo essere loro padre) che le guerre si fanno sì con gli eserciti, ma anche che il loro invio dipende, in ultima analisi, da decisioni ed opportunismi palesemente politici le cui responsabilità, checché se ne dica, ricadono anche sulla classe politica italiana ed europea. Credere, per restare in casa nostra, che dare dell'animale a Putin, inviare armi in Ucraina, sanzionare la Russia dopo avervi fatto lucrosissimi affari per 20'anni non rappresenti una responsabilità grave per ciò che sta accadendo al nostro paese (sottolineo: il nostro, non l'Ucraina) e per come il loro sentire di giovani ne è conseguentemente investito, significa non solo illudersi che, quando i genitori si separano, la colpa sia sempre o di quella zoccola di mamma o di quello stronzo di papà: significa crescere in una non più adeguata logica manichea di buoni e cattivi. In politica, come nella vita, le responsabilità sono sempre condivise. Sarebbe anche ora di chiarire loro che è più efficace informarsi seriamente e votare con attenzione che protestare inanemente, solo per saltare qualche ora di lezione. Se i ragazzi non lo capiranno – e al più presto - non c'è speranza.

mercoledì 2 febbraio 2022

IL DIRITTO ALLA CARTA IGIENICA. Le vuote rivendicazioni degli studenti al tempo della pandemia.

Al tempo della scuola superiore (dovevo essere al primo o secondo anno), ricordo che presi parte ad uno sciopero, con tanto di corteo in strada, voluto e indetto dai rappresentanti delle singole classi, unitamente a quelli di istituto.
I primi erano spesso ragazzi alla ricerca di un posizionamento sociale, e soprattutto gerarchico, all'interno dell'istituto, sovente avvertito come luogo sottilmente aggressivo e carico di pericoli, mentre i secondi sembravano quasi sempre soggetti prelevati all'uopo da remoti riformatori maschili, talenti che, ben prima del suo inserimento nel Manuale diagnostico dei Disturbi mentali, avvenuto nel 2013, avevano nella naturale predisposizione al bullismo il loro tratto distintivo.
Un po' al fine evitare la squalifica sociale – pratica puntualmente esercitata su tutti coloro che non davano agli scioperi la loro adesione -, un po' per la paura di venire malmenato a titolo dimostrativo ed esemplificativo, ma soprattutto nel tentativo appassionato di saltare il più alto numero di ore di lezione, come si suol dire, scesi in piazza.
Ricordo, tra le motivazioni della protesta, che quella avanzata con maggiore rabbia e sdegno dalle rappresentanze era – udite udite - la mancanza di carta igienica nei bagni della scuola, carenza giudicata sistematica ed inaccettabile, e pertanto meritevole di essere combattuta a colpi di striscioni e di megafono.
Fu quindi così che Stefano Parenzan, più brufoli che anni, intorno la metà degli anni '80, rivendicò, con la propria presenza lungo le strade periferiche della città (a quell'ora di metà mattina, completamente deserte), il diritto degli studenti aronesi a nettarsi il culo con abbondanza di mezzi.


Quando ripenso a questo episodio, realizzo quanto è stato lungo, nel paese, lo strascico delle dimostrazioni sessantottine.
Fu a quel tempo, infatti, che l'ambizione - arrogantissima - ad ergersi al di sopra dell'istituzione scolastica venne dichiarata, a volte tacitamente, altre violentemente, diritto inalienabile, ed inculcata, da allora, nelle menti sempre facilmente plasmabili di mediocri e facinorosi, mentre per i più opportunisti divenne il cavallo di battaglia per carriere politiche in molti casi brillantemente dischiusesi.


Questo, per i tempi che furono.


Stamane (1 febbraio), molti degli approfondimenti dei
media tradizionali sui fatti del giorno si sono soffermati sugli scontri dei giorni scorsi tra studenti e Polizia in diverse città del paese, con i primi a dimostrare il loro sdegno per la morte sul lavoro di un coetaneo e i secondi ad eseguire l'ordine di impedire la manifestazione in quanto costituente assembramento in zone dichiarate arancione. Risultato: botte da orbi, feriti e le immancabili, trite polemiche del giorno dopo.
Alcuni portavoce dei manifestanti (qualche centinaio, questi ultimi, ma ugualmente autodichiaratisi rappresentativi di un micoruniverso di oltre sette milioni di studenti) sono stati degnati di interviste ed inviti in salotti da
talk show grazie ai quali è stato possibile ascoltare la loro versione dei fatti, le motivazioni alla base della protesta, le richieste (!) dei vari cortei e financo i consigli per riformare al meglio – secondo loro – il mondo della scuola.
Della cronaca dell'accaduto, però, il particolare che mi ha maggiormente colpito è la putrella di cartone che i giovani manifestanti intendevano donare alla sede di Assolombarda (siamo a Milano), a simboleggiare quella che, circa una settimana fa, in uno stabilimento di Udine, ha schiacciato mortalmente uno studente in tirocinio scuola-lavoro.
Non ho potuto, di fronte ad un gesto tanto teatrale quanto inane, non ripensare a quello sciopero per la carta igienica di quasi 40'anni fa, a quanto poco sia cambiata, la scuola italiana, nella percezione degli studenti, così come la loro visione del cosiddetto mondo-fuori.
Noi, allora, sapevamo poco o niente di tutto. Ciò era dovuto non solo ad un'ignoranza palpabile, ma anche, e in misura non trascurabile, all'assoluta mancanza di conoscenza delle cose della vita, inconsapevoli appartenenti, quali effettivamente eravamo, alla cosiddetta Generazione X, figli cresciuti in un paese dove le grandi emergenze sociali (scuola, lavoro, sanità, sicurezza) erano già state affrontate e risolte – per quanto in maniera raffazzonata ed approssimativa - da coloro che li avevano messi al mondo. La nostra esperienza di vita era pari a zero, non disponevamo di alcun titolo né di studio né tantomeno morale per avanzare richieste che non fossero, appunto, quelle per qualche rotolo di carta igienica.
Ciò che più mi rattrista, ed anche mi irrita, però, è constatare come questo giudizio - inappellabile, a mio parere – calzi perfettamente anche ai giovani manifestanti fronteggiati giorni fa dalla Polzia, che, a ragion veduta, potrebbero ben essere i nostri figli.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l'accusa, rivolta da uno dei loro rappresentanti nel corso di una diretta radiofonica, al sistema scolastico di valutazione, reo di avere provocato il suicidio di uno studente in un liceo scientifico del barese, due mesi fa - vittima, secondo il loro modo di vedere, di un voto, di un giudizio, tanto severo da risultare insopportabile, e quindi rimediabile solo con un gesto estremo.
Poche voci si sono alzate intimando loro di tacere. Che ne sapete, voi, di lavoro, del mondo del lavoro, di quale razza di vita conducano i vostri genitori una volta usciti di casa la mattina? Che idea avete di sacrificio? Chi credete di impressionare, con quella putrella di cartone? Quale differenza siete certi di fare? Quanti di voi rivendicano a gran voce l'importanza di una scuola diversa, in grado di fornire ai giovani una visione solidamente culturale, ma già meditano, domani, di iscriversi ad economia e commercio, ingegneria, medicina, perché meglio dottori, ingegneri e primari che poveri pezzenti? È davvero questa, la vostra 'rivoluzionaria' visione del mondo? Queste sono le domande che, secondo me, andavano rivolte all'accusatore e, per estensione, alla comunità dei manifestanti. Il diritto di parola andava esercitato nei loro confronti dandogli l'opportunità di rispondere a queste semplici domande e non predisponendosi ad un ascolto privo di ogni tensione critica.


Cari manifestanti, la verità è che, voi, “non sapete nulla, del mondo reale. Siete andati a scuola meno di Greta Thunberg”, ed ora pretendete di dettare le linee-guida del paese. Dite di voler abolire la prova scritta all'esame di maturità scrivendone la proposta direttamente al Ministro dell'Istruzione, ma lo fate con un lessico ridotto al minimo e con una sintassi che denuncia tutta la vostra inadeguatezza al ruolo che vi siete arbitrariamente assunti. Vi dite rappresentanti, ma non siete stati eletti da nessuno. Andate in giro sostenendo che il quattro dato alla vostra impreparazione è un'onta insanabile, e nel mentre ignorate chi è sopravvissuto ai campi di sterminio, alle guerre, alla povertà più nera e ad una traversata del Mediterraneo a bordo di una bagnarola. Vi ritenete vittime di tutto quanto non si presenti voi come accessibile, inclusivo, precotto, in grado di consentire un percorso privo di sobbalzi e perfettamente aderente alle aspettative. Vi ritenete vittime ed in effetti lo siete. Ma non del sistema: di voi stessi.
Che dirvi, quindi?
Benvenuti nella vita vera, ragazzi
.

domenica 7 novembre 2021

LIBERI DA CHE COSA? Radio Freccia e la musica di Kurt Cobain.

Kurt Cobain non era una persona maleducata: era una persona disperata e sincera. Il materiale video che lo ritrae in contesti non performativi - oggi disponibile in rete in quantità industriale, per quanto non sempre di buona fattura – ne fornisce una testimonianza palpabile e a tratti struggente - almeno per coloro che lo hanno davvero amato, come artista e come persona.

Non ho motivi per assumere in questa sede – come, d'altronde, in qualunque altra - la difesa di una rockstar che, per quanto leggendaria e financo defunta (o forse leggendaria, per i più, proprio perché defunta), ha sempre saputo tutelare autonomamente la propria persona semplicemente assumendo, a seconda dei frangenti, atteggiamenti schivi quando non freddamente o smaccatamente ironici (per capirci, ad un giornalista che si era permesso di chiedergli se gli piaceva la vodka, riducendolo in tal modo, seduta stante, da artista ad enologo, rispose senza preamboli ne chiose: “I like vodka”).

Ne ho invece diversi, di motivi – e qui sta il punto -, per attaccare a testa bassa i tanti che, in terra italica, ne strumentalizzano da tempo la memoria facendo leva, principalmente, su due punti: l'ignoranza olimpionica di quest'ultima generazione - cui tutto può essere raccontato, certi di vedervi tributato il suo solito, apatico credito - e la distanza trentennale che separa questi tristi giorni dall'opera e dalla scomparsa di Cobain – fattore respingente cui solo una buona memoria nell'ambito del costume e della cultura pop è in grado di opporsi.

Nutro una vera e propria ossessione, per quelli di Radio Freccia, un po' come la sinistra pidina con Berlusconi ai tempi d'oro di quest'ultimo (i tempi d'oro del PD non li ricorda probabilmente nemmeno Enrico Letta). Si spacciano per gli alternativi, portatori di una non meglio specificata esperienza di vita, puntualmente ventilata ad ogni jingle, manco fossero reduci da una guerra o da una turnazione con Emergency. E lo fanno bellamente in un contesto, quello dell'emittenza-radio nazionale, dove è completamente assente ogni vera alternativa o forma di concorrenza (a meno di non considerare come tali stazioni-radio quali Radio Capital o Virgin Radio), uomo solo al comando.

Quest'anno ricorre il quinto compleanno di Radio Freccia. Per festeggiarlo, è stata realizzata una serie di spot audio-video nei quali gli autori dell'emittente (ma esistono davvero? E chi sono?), al suono di alcune tra le più significative canzoni di Cobain e dei suoi Nirvana, hanno inserito le peggiori fregnacce che si potessero imbastire in una simile occasione ed in un simile contesto.

Ecco di seguito, in esclusiva per i sempre più radi lettori di Sala Colloqui, alcune delle cialtronerie di cui sopra, e, fra parentesi, i titoli dei brani ai quali sono state impunemente associate. Giudicate voi (sintassi e punteggiatura a cura della spettabile azienda Radio Freccia).

  • Ci conosciamo bene. Siamo sintonizzati sulla stessa frequenza. [Radio Freccia] Libera come noi (In Bloom).

  • Per noi la libertà è una cosa diversa. … liberi di guardare un film che racconta una storia che non hanno il coraggio di vivere (Polly + Smells like Teen Spirit).

  • Ci vuole fegato per vivere in questo mondo folle... ci vogliono un sacco di cose per vivere in questo mondo folle. A darti il rock ci pensiamo noi. Riesci a prendermi, vita? Se non ci riesci, è perché ballo forte. E se non ti stringo la mano, è perché ce le ho entrambe per aria (In Bloom).

  • È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo (Breed).

Mi immagino, qui, Cobain con il fucile in mano, qualche attimo prima di spararsi in testa. E che quelli di Radio Freccia (gli 'sfrecciati', come amano definirsi), per un caso fortuito, stiano passando davanti a quell'americanissimo ed alquanto comune capanno per gli attrezzi, così cogliendo Cobain proprio nel mentre sta puntando il fucile. Cobain li vede, lancia loro uno sguardo supplice, implora davvero per l'ultima volta di dargli una buona ragione per non farlo, la speranza che vi sia ancora una soluzione da tentare. E loro: - Kurt, no! È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo.

BUM!

Molte delle canzoni di Cobain – ed in particolar modo quelle impiegate da Radio Freccia per suoi recenti spot celebrativi – sono caratterizzate da un'impostazione sostanzialmente non-ideologica, amorale. Non impartiscono lezioni né, tantomeno, hanno la pretesa di costituire viatici à la carte per qualsivoglia tipo di condotta. Sono piuttosto canzoni impregnate di sofferenza, di disincanto, di ironica amarezza – tratti, questi, facilmente riconducibili ai trascorsi abbandonici vissuti da Cobain in infanzia e buona parte dell'adolescenza. Giovanilismo, disagio psichico, esclusione, la disperazione nello sguardo altrui, la ricerca di un briciolo di sincerità nei rapporti umani, sono tutti aspetti del vivere che proprio le canzoni di maggior successo dei Nirvana hanno fatto risuonare in animi spesso spenti e indifferenti – non esclusi quelli di molti fan -, attraverso la voce rabbiosa, a tratti implorante, di Cobain – e va da sé che quel che cantava era fuor di dubbio sé stesso, la sua visione nera e bipolare della vita. Ecco: nessuno – dico, nessuno – di questi temi è in alcun modo riconducibile agli arbitrari e manipolatori montaggi operati dalla redazione di Radio Freccia. Il loro messaggio – sempre che si sia disposti ad individuarvene uno od anche più – è qui integralmente distorto a fini meramente autocelebrativi e commerciali (commuove, nel tentativo di dare seguito a quest'ultima considerazione, il ricordo dello scatto del fotografo statunitense Mark Saliger per quella che fu la prima copertina di Rolling Stone dei Nirvana [aprile 1992], quando Cobain si presentò sul set indossando una maglietta con la scritta Corporate-Magazines-still-suck).

Quella della manipolazione delle parole, della distorsione senza scrupolo della verità altrui, della più irrispettosa strumentalizzazione, è un costume che, in Italia, ha attecchito, più o meno, in quel lontano aprile del 1994 (un caso, certo, ma alquanto significativo). Qualche giorno prima del suicidio di Cobain, infatti, un partito fondato con un solo anno d'anticipo sulle elezioni politiche, si piazzò al primo posto con uno sconcertante score del 21%, in tal modo travolgendo tutto quanto politicamente ed ideologicamente l'aveva preceduto. Il nome del partito era Forza Italia, e con il consenso creditatogli in cabina elettorale il paese aveva dato credito alle sue promesse per un futuro fatto di fica, caviale e champagne. Da allora la pianta è cresciuta, le sue ramificazioni hanno lentamente, ma inesorabilmente, invaso ogni ambito del paese: politico, civile, culturale. L'italiano medio è passato da una condizione di semianalfabetismo ad una apparentemente più innocua di compiaciuta passività, dove la circonvenzione è supinamente accettata a patto di saperla composta da atteggiamenti tonitruanti, immagini patinate, vocabolario basic, una malcelata bibliofobia ed un opportunismo raro. In termini mediatici, esattamente quanto Radio Freccia va praticando con gli spot dell'anniversario. Libera come noi, quindi, di dire tutto e il contrario di tutto (non si dimentichi che la coalizione vincente in quell'aprile funestato dalla scomparsa di Cobain rispondeva, appunto, al nome de Il Polo delle Libertà): l'importante, è farlo in altissima definizione.

Ma a questo punto, passando da Kurt Cobain a Vasco Rossi, da Aberdeen WA a Zocca (MO), ad un territorio, cioè, a noi più familiare, viene proprio da chiedersi: “Liberi, liberi / liberi da che cosa? / Chissà cos'è?”.

sabato 9 ottobre 2021

LE IDIOZIE DELLA PICCOLA AMBRA MARIE. La generazione dei senza-vergogna.

Sono passati 30'anni dalla pubblicazione di Nevermind, il disco che fece dei Nirvana un fenomeno planetario, così sottraendoli, loro malgrado, alla scena grunge dell'area di Seattle.

Eppure, per molti conduttori delle nostre miserrime emittenti-radio commerciali, sembra proprio che tre decenni non siano un tempo sufficiente per produrre, al riguardo, una riflessione, almeno per una volta, seria, profonda, in grado di restituire agli ascoltatori quello che fu il clima nel quale canzoni come Smells like Teen Spirit, In Bloom, Come as You are, Lithium, letteralmente esplosero in faccia agli ascoltatori, musicalmente imberbi quando non del tutto analfabeti.

La conseguenza principale di tale inettitudine riflessiva mi sembra oggigiorno ben rappresentata dall'anacronismo del fenomeno Måneskin, in Italia, e – giusto per pareggiare i conti e sentirci un po' meno soli nella miseria - da quello ancor più triste degli statunitensi Greta Van Fleet, altrove.

In uno spettacolo di qualche anno fa, lo stand-up comedian Jimmy Carr, colpito dall'espressione basita di uno degli spettatori delle prime file, chiosò sarcasticamente che esiste un livello di comprensione sotto il quale non è consentito assistere ad una serata di stand-up comedy, pena l'estromissione dalla sede dell'evento (“There's a level of minimum understanding, here. You know what I mean?”).

Contorto quanto volete, ma è a questo che ho pensato, giorni addietro, quando ho sentito tale Ambramarie, una delle conduttrici di Radio Freccia – l'emittente radiofonica con il più alto tasso di crescita negli ascolti del paese –, inanellare una serie di castronerie da stazione-radio locale.

Portata ad una strana forma di eccitazione sconosciuta ai più dall'ascolto di Ohio, di Crosby, Still, Nash & Young, la nostra ha prima affermato di sognare una vita negli anni '60 o '70, evidentemente ritenuti similari; o, in alternativa, nel 1991, anno nel quale, per l'appunto, i Nirvana pubblicavano Nevermind - periodo tra i più difformi, per quanto possibile, dai conflittuali, travagliati due decenni appena citati.

Il tempo di mandare in onda il brano e la nostra è già sulla difensiva.
- Non vorrei aver dato l'idea di una che vuole essere una 'hippy' o un figlio dei fiori, o roba così -, dice. - Io non so neanche cosa sono, gli 'hippy'. Sono degli stivali, forse? -.
A parte il mancato uso del congiuntivo e la finta modestia, sui quali si potrebbe aprire un post a sé stante, per tornare alla frecciata di Carr, c'è davvero un limite inferiore a ciò che ci si può permettere di non comprendere, pena l'inclusione nella sempre più affollata categoria dei subnormali.

Lungi da me il voler assumere qui o altrove la difesa di una categoria – quella degli hippy - sostanzialmente estinta, fatta eccezione per l'assurdo stoicismo di alcune sacche di disadattati ancora presenti sul territorio nazionale. È certa di essere estremamente simpatica, Ambramarie, o quantomeno di risultare tale all'attenzione del suo seguito.

Cito integralmente dal suo profilo, così come pubblicato sul sito di Radio Freccia (ortografia, lessico e tipografia a cura dell'autrice):

Ambramarie, classe 1987, inquieta e curiosa per indole (miei coglioni!, n.d.r.), si avvicina al rock dall’infanzia, quando tra le mani e le orecchie le capita il greatest hits 'Cross Road' di Bon Jovi (caspita, davvero un disco seminale, n.d.r.). Più avanti, nell’adolescenza, con 'Post Orgasmic Chill' degli Skunk Anansie (mai senza, n.d.r.) si rende conto che è proprio quello che vuole fare nella vita: la cantante ruuuuoookkk (Wow!, n.d.r.). Forma la sua prima e attuale band a 17 anni, vivendo tra un furgone sgangherato e la sua amata mansarda, dove si rinchiude a macinare dischi e film, sdraiata con la pizza sul letto (e questa è la stessa che non vuole essere scambiata per una hippy, n.d.r.). Si appassiona follemente al mondo della radio dopo aver visto il film I love Radio Rock (parallelo tra la radio pirata del film e Radio Freccia, davvero senza vergogna, n.d.r.), perché libertà e ribellione sono l’unica via per essere felici e cambiare veramente Qualcosa (scritto con la maiuscola, ma se ne ignora il perché, n.d.r.).”

Curioso ed illuminante che la nostra ometta elegantemente la partecipazione ad X Factor come il suo essere stata tra le prime 'grandi promesse' del programma.

All'uscita di Nevermind avevo 21'anni, e la sua forza d'urto mi colpì come una vergine al primo rapporto. Impiegai del tempo a realizzare che questo disco per me straordinario era invece considerato da Kurt Cobain una sorta di sottoprodotto, un disco estremamente commerciale il cui fine era compiacere quella gioventù – il 'teen spirit' - già allora senza arte né parte della quale io pure ero parte integrante ed attiva; una registrazione dal cui suono Cobain diceva di non sentirsi rappresentato.

Oggi davvero si può dire tutto e, minuti dopo, il contrario di tutto, senza nemmeno l'ansia derivante dalla possibilità, divenuta assai remota, di venire scoperti. I personaggi a la Ambramarie sono ormai la normalità, e non c'è morale o cultura - checché ne dicano gli intellettualoni del paese - che possa arginarne la deriva. Indignarsi, come io faccio spesso, serve a poco o a niente. Questi fenomeni vanno affrontati e sconfitti sul loro terreno di gioco, lì dove si sentono maggiormente protetti, al sicuro – un po' come quando si riesce nell'impresa di umiliare la squadra più forte del torneo nella partita che questa gioca in casa. Scendere in campo, sporcarsi le mani, accettare la sfida secondo regole altrui, ironizzare senza pietà e in maniera pungente, senza rimorso, contro questa generazione di senza-scrupoli, di senza-vergogna. Con il fare messo in campo sistematicamente nel corso dello spazio tributatole settimanalmente da Radio Freccia, Ambramarie sarebbe stata schifata dai suoi tanto decantati idoli pop sia come hippy che come nativa di Olympia WA. George Harrison, che visse con il massimo candore possibile la grande illusione dell''estate dell'amore' 1968, scappò letteralmente a gambe levate quando, in visita al quartiere di Haight-Ashbury, in quel di San Francisco, vide con i propri occhi in cosa realmente consisteva la cosiddetta cultura hippy. Quanto a Cobain - che la nostra vorrebbe vicino a sé per mezzo di reincarnazione nell'anno 1991 - che dire? Forse che anche per fuggire dalla stupidità e dall'ipocrisia di persone come lei Cobain si tolse la vita. È sufficiente leggere con calma i suoi diari, per capirlo.

Ma per sentire, al riguardo, cazzate firmate Ambramarie, abbiamo tempo fino all'aprile 2024.

lunedì 4 ottobre 2021

LA PROFEZIA DI 'AMERICAN BEAUTY'. Il fenomeno delle dimissioni volontarie.

Sono certo che molti ricorderanno la sequenza spassosissima di American Beauty – una delle tante inserite nella pellicola – dove Kevin Spacey, astutamente ed in maniera del tutto spregiudicata, estorce 60.000 dollari di liquidazione al proprio capufficio, con la minaccia di rendere note alcune molestie sessuali del tutto fasulle nei suoi confronti (“Puoi provare che non ti sei offerto di salvarmi il posto se io ti lasciavo spompinarmi?”).

Ebbene, a più di 20'anni di distanza da quel film, davvero strepitoso sotto ogni punto di vista, il tema della qualità del lavoro torna oggi prepotentemente alla ribalta.

Nel paese si registra un fenomeno mai conosciuto prima - se non, appunto, attraverso il cinema -, del quale, tanto per cambiare, non si parla, essendo il dibattito risaputamente monopolizzato dalle crisi di mezza età piccole e grandi dei partiti politici: le dimissioni volontarie – scelta, quest'ultima, imputabile con quasi assoluta certezza al periodo di lockdown recentemente vissuto, dove molti, pur nella difficoltà a volte estrema, hanno chi scoperto chi riscoperto una vita non più fatta di ritmi disumani, di competizione, di assenza di limiti, bensì di affettività, di cose semplici come poterebbe essere il preparare un pasto, leggere un libro in tranquillità o riposare il necessario. Ma, soprattutto, una vita dove è possibile ritrovare l'ascolto del proprio sentire interiore, profondo, l'aspetto che maggiormente ci caratterizza in quanto persone.

Gli aziendalisti sono coloro che meglio di altri hanno vissuto – ed in alcune sacche ancora vivono – la grande illusione del lavoro come soluzione al male di vivere (quasi sempre, il proprio).
Alla pari di certi partner gelosi, per i quali l'amore è vissuto come un sentimento esclusivo, l'aziendalista tende a vedere il proprio rapporto con il datore di lavoro in identica maniera, escludendo, in un misto di gelosia e competizione, tutti coloro - eccellenze incluse - che, praticando un diverso atteggiamento, li mettono indirettamente in discussione.
Va da sé, però, che, da parte di molte realtà lavorative, l'aziendalismo è tacitamente incentivato, con le conseguenze che è possibile leggere nell'articolo di Francesca Coin 'La nuova Economia delle Dimissioni', apparso stamane su Il Fatto Quotidiano.

Provate a chiedere ad amici e conoscenti, possibilmente attivando il vostro personale rilevatore di sincerità, quanti di loro si sentono veramente gratificati dall'attività lavorativa svolta, quanti, cioè, trovano nel lavoro quell'ambiente professionale ed umano definito da Primo Levi – che sul tema del 'lavoro inutile' ha scritto pagine destinate a restare nei secoli – come “la più grande approssimazione alla felicità sulla terra”.

Io, l'ho fatto. E vi posso assicurare che quel che riceverete in risposta, nella stragrande maggioranza dei casi, sarà la denuncia, da appartenenti alle più disparate e – a volte – insospettabili categorie, di una condizione mista di frustrazione e disincanto. Nessuno più, per tornare al film di Sam Mendes, è disposto a tollerare un mondo del lavoro dove la principale attività, troppo spesso, dice il protagonista, Lester, “... consiste fondamentalmente nel mascherare il mio disprezzo per quegli stronzi dei miei capi e, almeno una volta al giorno, nel ritirarmi nel bagno degli uomini per farmi una sega, mentre fantastico su una vita che non somigli per filo e per segno all'inferno”.

Non mi permetterò, qui, di affermare che il lavoro da casa (il fottuto smart working) è identico in tutto a e per tutto a quello d'ufficio. Ma è chiaro che l'inaspettato successo di questa modalità denuncia, essenzialmente, il disagio grande di molti lavoratori sia per la logistica dei trasferimenti, mai realmente implementati, sia per il rapporto umano devastante - disruptive, direbbe uno psicologo - con i colleghi della specie aziendalista – artefice, in passato, grazie alla fede cieca che la caratterizza, dello sviluppo industriale del paese, ed oggi, nel globalizzato mondo dell'anno 2021, vero e proprio cancro sociale.

Se in 30'anni siamo passati della ricerca del lavoro alla dimissione volontaria, ciò sta a significare che negli ultimi 20 la profezia di American Beauty è divenuta realtà.

mercoledì 7 aprile 2021

LIBIA - ITALIA / 1 - 0. L'oscuro piacere del perdere con l'ultima in classifica.

 

Cioè... mi fa impressione vedere Mario Draghi impegnato all'estero nella veste di Presidente del Consiglio (e, per favore: basta con 'sto premier, ché la maggior parte di coloro che impiegano il termine lo fanno ignorando ogni sua effettiva implicazione).

A me viene da dire che, se sei l'esponente primo di un governo tecnico – e Draghi lo è -, devi volare basso, limitarti a fare esclusivamente quel che è richiesto dal tuo ruolo, nulla più.
Un governo tecnico è quello chiamato a risolvere specifici problemi 'qui ed ora'. Decisioni politiche che possono avere conseguenze impattanti e durature, non gli competono.
Ma poi mi ricordo a quale paese appartengo, e tutto torna ad essere a suo modo chiaro, rispondente, come sempre, alle sue sole ed oscure logiche interne.
Ancor più impressione, però, mi fa il vederlo a colloquio con quei suoi pari che il destino (si fa per dire) ha voluto alla guida dei cosiddetti paesi-catorcio, luoghi nei quali, messa da parte tutta la retorica umanitaria e disgustosamente moralista della sinistra nostrana, nessuno di noi vivrebbe più di un mese senza pensare di spararsi.
È il caso della Libia.

Draghi si è complimentato con il collega del governo libico per quanto il suo paese fa in merito ai salvataggi in mare (!). Che è come ringraziare Putin per le sue battaglie a favore della libertà d'opinione o l'Arabia Saudita per la difesa dei diritti civili.
Ha poi promesso di “facilitare le
procedure dei visti a favore dei libici aumentando il numero di quelli rilasciati specialmente a studenti, uomini d’affari, malati, oltre a facilitare le procedure della comunità libica in Italia anche per quanto riguarda banche e residenza” e “borse di studio per gli studenti libici” (Il Fatto Quotidiano, 7 aprile).
Sarà anche un governo tecnico, questo. Ma a me ricorda molto il PD.
Ha financo prospettato un ritorno agli accordi bilaterali in auge al tempo di Gheddafi – non so se mi spiego.

Nei miei sogni bagnati, raffiguro spesso i nostri rappresentanti governativi annunciare strette cooperazioni con la Danimarca (un paese che, solo per fare un esempio, costruirebbe il ponte di Messina in meno di due anni, se solo ve ne fossero le concrete, serie intenzioni).
Ma una volta sveglio, è la dura realtà a prendere il sopravvento: Salvini e la Russia, Renzi e l'Arabia Saudita, Draghi e la Libia.

Insomma, dopo l'Egitto, altro splendido paese che, con il caso Regeni ed il più recente caso Zaki, strizza le palle del nostro governo almeno una volta la settimana, ora anche la Libia può divertirsi allo stesso modo dei loro vicini, nella quasi assoluta certezza di vedere soddisfatte tutte le richieste avanzate ieri l'altro al buon Mario.
Questo perché, dietro la fuffa programmatica dell'innovazione a tutto tondo, l'Italia va ancora a carbonella. E la carbonella di cui abbiamo bisogno come del pane si chiama petrolio.

Meditate, gente.

Meditate.

venerdì 29 gennaio 2021

CATTIVI MAESTRI. Billie Eilish, l'olocausto e la generazione sdraiata.

Accendo la radio come di consueto (il senso di solitudine, ormai, richiede tante piccole misure di contenimento, nell'arco della giornata, e questa è una). Ed ecco che a metà mattina (è il fottuto giorno della memoria) mi becco il pippotto in diretta di una maestrina tutta infervorata a spiegare come, “per i nostri ragazzi... che non sanno niente, nulla di nulla”, sia più che mai importante, oggi, la formazione “di una memoria storica”.

Scusa?

Chi legge queste pagine o i miei sfoghi su Facebook sa già come io la pensi su Shoa e dintorni. Per gli altri (la stragrande maggioranza, ahimè) è forse utile precisare, senza tanti giri di parole, che, per quel che mi riguarda, l'argomento storico dello sterminio è una sentenza passata in giudicato, affrontabile, cioè, con quel distacco, dettato anche dall'arco temporale, in grado di garantire, oggi, una visione estremamente lucida e documentata di quanto accaduto, senza che ad ogni piè sospinto, nel corso di dibattiti storici, politici o più genericamente culturali, chicchessia debba sentirsi autorizzato a ricordare noi che, 76 anni fa, in Europa, abbiamo avuto Auschwitz – come invece è successo da noi con l'istituzione della giornata della memoria, fortemente voluta dalla sinistra nostrana per il semplice fatto che nel campetto in Polonia vi fecero irruzione i russi: fosse toccato agli australiani, ci sarebbe stato concesso di dimenticare in tutta serenità.

Detto questo, alle parole della sedicente insegnante, non ho potuto che rivolgere il mio pensiero ai ragazzi, a questa generazione che non amo, ma che mi sembra abbia più di una buona ragione per fregarsene di tutto e tutti. Anzitutto fregarsene di noi adulti: di me che scrivo, di quelli convinti che quel che serve loro, nell'anno 2021, sia la memoria storica, come di quelli che credono fermamente che questa generazione non stia aspettando altro che il loro appoggio, la loro condivisione o, peggio, il loro consiglio.

Nonostante non lo apprezzi più da tempo (la superiorità morale della sinistra vecchia guardia mi è divenuta intollerabile), è stato Michele Serra, con il suo romanzo Gli Sdraiati, quello che, a mio parere, ha meglio definito e fotografato la generazione dei millenials, così come il travaglio tutto nuovo che essa ha scatenato nel mondo adulto, dove schiere di genitori, illusi di possedere soluzioni al passo con i tempi per vincere l'estraniamento di un figlio adolescente, ne provocano, in realtà, l'ulteriore – e, a volte, estremo – allontanamento. Consiglio a chi è interessato al tema della formazione di includerlo nelle proprie letture, senza però darmene notizia, perché negli ultimi tempi queste manifestazioni di interesse mi confermano puntualmente il fraintendimento di quasi ogni lettura. Quindi: fottetevi.

Mia figlia, otto anni, mi parla da tempo di Billie Eilish, la ragazza statunitense che qualche anno fa è stata partorita dal buco nero di Internet divenendo un fenomeno tra i coetanei, ed oggi, ventenne, ha all'attivo 65 milioni di dischi venduti. All'ennesima sua citazione, mi sono fatto coraggio e sono andato a verificare di persona la consistenza di questa giovanissima che da quattro anni fagocita la passione di moltissimi della sua generazione. Ho ascoltato il disco d'esordio – l'unico, al momento. E tutto è apparso subito chiaro, inequivocabile: Billie Eilish ha scritto la colonna sonora dei millenials. Ecco, cosa. Tutto, dall'inerzia all'inspiegabile euforia, dalla depressione all'infatuazione, l'insoddisfazione per il proprio corpo, il bisogno di nuove droghe, gli obblighi social, tutto, del sommerso mondo dei sentimenti giovanili, è reso nel disco When We All Fall Asleep, Where Do We Go? con un suono ed un incedere assolutamente all'altezza della situazione, che spiegano, esaurendolo, il fenomeno Billie Eilish. Per me, genitore 50enne, è stato come un invito a guardare, ma senza toccare, senza poter entrare all'interno di questa panic room sonora. Ho pensato che, al mondo c'è chi nasce giovane, come questa davvero adorabile ragazza, e chi nasce vecchio - e furbo - come i componenti de Il Volo.

Privata del futuro, svilita dal presente, delusa oltre ogni limite dagli adulti, questa generazione di giovani, abitata dal nichilismo, secondo il prof. Galimberti, inetta, per Bret Easton Ellis, e sdraiata, a detta di Michele Serra, ha trovato in Billie Eilish un portabandiera, il cantore di una visione delle cose che, all'infuori dell'ambito millenial, non interessa nessuno.

Pretendere la loro attenzione narrando concitatamente – manco fosse una scopata – di un campo di sterminio eretto 80'anni fa in una delle lande più fredde del continente, significa, ancora una volta e con aumentata forza, imporre loro quella visione adulta, sfacciatamente ideologica e passatista della vita che è, con buona probabilità, la causa prima della loro epocale chiusura.