Al tempo della scuola superiore (dovevo essere al primo o secondo anno), ricordo che presi parte ad uno sciopero, con tanto di corteo in strada, voluto e indetto dai rappresentanti delle singole classi, unitamente a quelli di istituto.
I primi erano spesso ragazzi alla ricerca di un posizionamento sociale, e soprattutto gerarchico, all'interno dell'istituto, sovente avvertito come luogo sottilmente aggressivo e carico di pericoli, mentre i secondi sembravano quasi sempre soggetti prelevati all'uopo da remoti riformatori maschili, talenti che, ben prima del suo inserimento nel Manuale diagnostico dei Disturbi mentali, avvenuto nel 2013, avevano nella naturale predisposizione al bullismo il loro tratto distintivo.
Un po' al fine evitare la squalifica sociale – pratica puntualmente esercitata su tutti coloro che non davano agli scioperi la loro adesione -, un po' per la paura di venire malmenato a titolo dimostrativo ed esemplificativo, ma soprattutto nel tentativo appassionato di saltare il più alto numero di ore di lezione, come si suol dire, scesi in piazza.
Ricordo, tra le motivazioni della protesta, che quella avanzata con maggiore rabbia e sdegno dalle rappresentanze era – udite udite - la mancanza di carta igienica nei bagni della scuola, carenza giudicata sistematica ed inaccettabile, e pertanto meritevole di essere combattuta a colpi di striscioni e di megafono.
Fu quindi così che Stefano Parenzan, più brufoli che anni, intorno la metà degli anni '80, rivendicò, con la propria presenza lungo le strade periferiche della città (a quell'ora di metà mattina, completamente deserte), il diritto degli studenti aronesi a nettarsi il culo con abbondanza di mezzi.
Quando
ripenso a questo episodio, realizzo quanto è stato lungo, nel paese,
lo strascico delle dimostrazioni sessantottine.
Fu a quel tempo,
infatti, che l'ambizione - arrogantissima - ad ergersi al di sopra
dell'istituzione scolastica venne dichiarata, a volte tacitamente,
altre violentemente, diritto inalienabile, ed inculcata, da allora,
nelle menti sempre facilmente plasmabili di mediocri e facinorosi,
mentre per i più opportunisti divenne il cavallo di battaglia per
carriere politiche in molti casi brillantemente dischiusesi.
Questo,
per i tempi che furono.
Stamane
(1 febbraio), molti degli approfondimenti dei media
tradizionali sui fatti del giorno si sono soffermati sugli scontri
dei giorni scorsi tra studenti e Polizia in diverse città del paese,
con i primi a dimostrare il loro sdegno per la morte sul lavoro di un
coetaneo e i secondi ad eseguire l'ordine di impedire la
manifestazione in quanto costituente assembramento in zone dichiarate
arancione. Risultato: botte da orbi, feriti e le immancabili, trite
polemiche del giorno dopo.
Alcuni portavoce dei manifestanti
(qualche centinaio, questi ultimi, ma ugualmente autodichiaratisi
rappresentativi di un micoruniverso di oltre sette milioni di
studenti) sono stati degnati di interviste ed inviti in salotti da
talk show grazie ai
quali è stato possibile ascoltare la loro versione dei fatti, le
motivazioni alla base della protesta, le richieste (!) dei vari
cortei e financo i consigli per riformare al meglio – secondo loro
– il mondo della scuola.
Della cronaca dell'accaduto, però, il
particolare che mi ha maggiormente colpito è la putrella di cartone
che i giovani manifestanti intendevano donare alla sede di
Assolombarda (siamo a Milano), a simboleggiare quella che, circa una
settimana fa, in uno stabilimento di Udine, ha schiacciato
mortalmente uno studente in tirocinio scuola-lavoro.
Non ho
potuto, di fronte ad un gesto tanto teatrale quanto inane, non
ripensare a quello sciopero per la carta igienica di quasi 40'anni
fa, a quanto poco sia cambiata, la scuola italiana, nella percezione
degli studenti, così come la loro visione del cosiddetto
mondo-fuori.
Noi, allora, sapevamo poco o niente di tutto. Ciò
era dovuto non solo ad un'ignoranza palpabile, ma anche, e in misura
non trascurabile, all'assoluta mancanza di conoscenza delle cose
della vita, inconsapevoli appartenenti, quali effettivamente eravamo,
alla cosiddetta Generazione X, figli cresciuti in un paese dove le
grandi emergenze sociali (scuola, lavoro, sanità, sicurezza) erano
già state affrontate e risolte – per quanto in maniera
raffazzonata ed approssimativa - da coloro che li avevano messi al
mondo. La nostra esperienza di vita era pari a zero, non disponevamo
di alcun titolo né di studio né tantomeno morale per avanzare
richieste che non fossero, appunto, quelle per qualche rotolo di
carta igienica.
Ciò che più mi rattrista, ed anche mi irrita,
però, è constatare come questo giudizio - inappellabile, a mio
parere – calzi perfettamente anche ai giovani manifestanti
fronteggiati giorni fa dalla Polzia, che, a ragion veduta, potrebbero
ben essere i nostri figli.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il
vaso è stata l'accusa, rivolta da uno dei loro rappresentanti nel
corso di una diretta radiofonica, al sistema scolastico di
valutazione, reo di avere provocato il suicidio di uno studente in un
liceo scientifico del barese, due mesi fa - vittima, secondo il loro
modo di vedere, di un voto, di un giudizio, tanto severo da risultare
insopportabile, e quindi rimediabile solo con un gesto estremo.
Poche
voci si sono alzate intimando loro di tacere. Che ne sapete, voi, di
lavoro, del mondo del lavoro, di quale razza di vita conducano i
vostri genitori una volta usciti di casa la mattina? Che idea avete
di sacrificio? Chi credete di impressionare, con quella putrella di
cartone? Quale differenza siete certi di fare? Quanti di voi
rivendicano a gran voce l'importanza di una scuola diversa, in grado
di fornire ai giovani una visione solidamente culturale, ma già
meditano, domani, di iscriversi ad economia e commercio, ingegneria,
medicina, perché meglio dottori, ingegneri e primari che poveri
pezzenti? È davvero questa, la vostra 'rivoluzionaria' visione del
mondo? Queste sono le domande che, secondo me, andavano rivolte
all'accusatore e, per estensione, alla comunità dei manifestanti. Il
diritto di parola andava esercitato nei loro confronti dandogli
l'opportunità di rispondere a queste semplici domande e non
predisponendosi ad un ascolto privo di ogni tensione critica.
Cari manifestanti, la verità è che, voi, “non sapete nulla, del mondo
reale. Siete andati a scuola meno di Greta Thunberg”, ed ora
pretendete di dettare le linee-guida del paese. Dite di voler abolire
la prova scritta all'esame di maturità scrivendone la proposta
direttamente al Ministro dell'Istruzione, ma lo fate con un lessico
ridotto al minimo e con una sintassi che denuncia tutta la vostra
inadeguatezza al ruolo che vi siete arbitrariamente assunti. Vi dite
rappresentanti, ma non siete stati eletti da nessuno. Andate in giro sostenendo che il quattro dato alla vostra impreparazione è un'onta
insanabile, e nel mentre ignorate chi è sopravvissuto ai campi di
sterminio, alle guerre, alla povertà più nera e ad una traversata
del Mediterraneo a bordo di una bagnarola. Vi ritenete vittime di tutto quanto non si presenti voi come accessibile, inclusivo,
precotto, in grado di consentire un percorso privo di sobbalzi e
perfettamente aderente alle aspettative. Vi ritenete vittime ed in effetti lo
siete. Ma non del sistema: di voi stessi.
Che dirvi,
quindi?
Benvenuti nella vita vera, ragazzi.
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