mercoledì 2 febbraio 2022

IL DIRITTO ALLA CARTA IGIENICA. Le vuote rivendicazioni degli studenti al tempo della pandemia.

Al tempo della scuola superiore (dovevo essere al primo o secondo anno), ricordo che presi parte ad uno sciopero, con tanto di corteo in strada, voluto e indetto dai rappresentanti delle singole classi, unitamente a quelli di istituto.
I primi erano spesso ragazzi alla ricerca di un posizionamento sociale, e soprattutto gerarchico, all'interno dell'istituto, sovente avvertito come luogo sottilmente aggressivo e carico di pericoli, mentre i secondi sembravano quasi sempre soggetti prelevati all'uopo da remoti riformatori maschili, talenti che, ben prima del suo inserimento nel Manuale diagnostico dei Disturbi mentali, avvenuto nel 2013, avevano nella naturale predisposizione al bullismo il loro tratto distintivo.
Un po' al fine evitare la squalifica sociale – pratica puntualmente esercitata su tutti coloro che non davano agli scioperi la loro adesione -, un po' per la paura di venire malmenato a titolo dimostrativo ed esemplificativo, ma soprattutto nel tentativo appassionato di saltare il più alto numero di ore di lezione, come si suol dire, scesi in piazza.
Ricordo, tra le motivazioni della protesta, che quella avanzata con maggiore rabbia e sdegno dalle rappresentanze era – udite udite - la mancanza di carta igienica nei bagni della scuola, carenza giudicata sistematica ed inaccettabile, e pertanto meritevole di essere combattuta a colpi di striscioni e di megafono.
Fu quindi così che Stefano Parenzan, più brufoli che anni, intorno la metà degli anni '80, rivendicò, con la propria presenza lungo le strade periferiche della città (a quell'ora di metà mattina, completamente deserte), il diritto degli studenti aronesi a nettarsi il culo con abbondanza di mezzi.


Quando ripenso a questo episodio, realizzo quanto è stato lungo, nel paese, lo strascico delle dimostrazioni sessantottine.
Fu a quel tempo, infatti, che l'ambizione - arrogantissima - ad ergersi al di sopra dell'istituzione scolastica venne dichiarata, a volte tacitamente, altre violentemente, diritto inalienabile, ed inculcata, da allora, nelle menti sempre facilmente plasmabili di mediocri e facinorosi, mentre per i più opportunisti divenne il cavallo di battaglia per carriere politiche in molti casi brillantemente dischiusesi.


Questo, per i tempi che furono.


Stamane (1 febbraio), molti degli approfondimenti dei
media tradizionali sui fatti del giorno si sono soffermati sugli scontri dei giorni scorsi tra studenti e Polizia in diverse città del paese, con i primi a dimostrare il loro sdegno per la morte sul lavoro di un coetaneo e i secondi ad eseguire l'ordine di impedire la manifestazione in quanto costituente assembramento in zone dichiarate arancione. Risultato: botte da orbi, feriti e le immancabili, trite polemiche del giorno dopo.
Alcuni portavoce dei manifestanti (qualche centinaio, questi ultimi, ma ugualmente autodichiaratisi rappresentativi di un micoruniverso di oltre sette milioni di studenti) sono stati degnati di interviste ed inviti in salotti da
talk show grazie ai quali è stato possibile ascoltare la loro versione dei fatti, le motivazioni alla base della protesta, le richieste (!) dei vari cortei e financo i consigli per riformare al meglio – secondo loro – il mondo della scuola.
Della cronaca dell'accaduto, però, il particolare che mi ha maggiormente colpito è la putrella di cartone che i giovani manifestanti intendevano donare alla sede di Assolombarda (siamo a Milano), a simboleggiare quella che, circa una settimana fa, in uno stabilimento di Udine, ha schiacciato mortalmente uno studente in tirocinio scuola-lavoro.
Non ho potuto, di fronte ad un gesto tanto teatrale quanto inane, non ripensare a quello sciopero per la carta igienica di quasi 40'anni fa, a quanto poco sia cambiata, la scuola italiana, nella percezione degli studenti, così come la loro visione del cosiddetto mondo-fuori.
Noi, allora, sapevamo poco o niente di tutto. Ciò era dovuto non solo ad un'ignoranza palpabile, ma anche, e in misura non trascurabile, all'assoluta mancanza di conoscenza delle cose della vita, inconsapevoli appartenenti, quali effettivamente eravamo, alla cosiddetta Generazione X, figli cresciuti in un paese dove le grandi emergenze sociali (scuola, lavoro, sanità, sicurezza) erano già state affrontate e risolte – per quanto in maniera raffazzonata ed approssimativa - da coloro che li avevano messi al mondo. La nostra esperienza di vita era pari a zero, non disponevamo di alcun titolo né di studio né tantomeno morale per avanzare richieste che non fossero, appunto, quelle per qualche rotolo di carta igienica.
Ciò che più mi rattrista, ed anche mi irrita, però, è constatare come questo giudizio - inappellabile, a mio parere – calzi perfettamente anche ai giovani manifestanti fronteggiati giorni fa dalla Polzia, che, a ragion veduta, potrebbero ben essere i nostri figli.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l'accusa, rivolta da uno dei loro rappresentanti nel corso di una diretta radiofonica, al sistema scolastico di valutazione, reo di avere provocato il suicidio di uno studente in un liceo scientifico del barese, due mesi fa - vittima, secondo il loro modo di vedere, di un voto, di un giudizio, tanto severo da risultare insopportabile, e quindi rimediabile solo con un gesto estremo.
Poche voci si sono alzate intimando loro di tacere. Che ne sapete, voi, di lavoro, del mondo del lavoro, di quale razza di vita conducano i vostri genitori una volta usciti di casa la mattina? Che idea avete di sacrificio? Chi credete di impressionare, con quella putrella di cartone? Quale differenza siete certi di fare? Quanti di voi rivendicano a gran voce l'importanza di una scuola diversa, in grado di fornire ai giovani una visione solidamente culturale, ma già meditano, domani, di iscriversi ad economia e commercio, ingegneria, medicina, perché meglio dottori, ingegneri e primari che poveri pezzenti? È davvero questa, la vostra 'rivoluzionaria' visione del mondo? Queste sono le domande che, secondo me, andavano rivolte all'accusatore e, per estensione, alla comunità dei manifestanti. Il diritto di parola andava esercitato nei loro confronti dandogli l'opportunità di rispondere a queste semplici domande e non predisponendosi ad un ascolto privo di ogni tensione critica.


Cari manifestanti, la verità è che, voi, “non sapete nulla, del mondo reale. Siete andati a scuola meno di Greta Thunberg”, ed ora pretendete di dettare le linee-guida del paese. Dite di voler abolire la prova scritta all'esame di maturità scrivendone la proposta direttamente al Ministro dell'Istruzione, ma lo fate con un lessico ridotto al minimo e con una sintassi che denuncia tutta la vostra inadeguatezza al ruolo che vi siete arbitrariamente assunti. Vi dite rappresentanti, ma non siete stati eletti da nessuno. Andate in giro sostenendo che il quattro dato alla vostra impreparazione è un'onta insanabile, e nel mentre ignorate chi è sopravvissuto ai campi di sterminio, alle guerre, alla povertà più nera e ad una traversata del Mediterraneo a bordo di una bagnarola. Vi ritenete vittime di tutto quanto non si presenti voi come accessibile, inclusivo, precotto, in grado di consentire un percorso privo di sobbalzi e perfettamente aderente alle aspettative. Vi ritenete vittime ed in effetti lo siete. Ma non del sistema: di voi stessi.
Che dirvi, quindi?
Benvenuti nella vita vera, ragazzi
.

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