venerdì 29 gennaio 2021

CATTIVI MAESTRI. Billie Eilish, l'olocausto e la generazione sdraiata.

Accendo la radio come di consueto (il senso di solitudine, ormai, richiede tante piccole misure di contenimento, nell'arco della giornata, e questa è una). Ed ecco che a metà mattina (è il fottuto giorno della memoria) mi becco il pippotto in diretta di una maestrina tutta infervorata a spiegare come, “per i nostri ragazzi... che non sanno niente, nulla di nulla”, sia più che mai importante, oggi, la formazione “di una memoria storica”.

Scusa?

Chi legge queste pagine o i miei sfoghi su Facebook sa già come io la pensi su Shoa e dintorni. Per gli altri (la stragrande maggioranza, ahimè) è forse utile precisare, senza tanti giri di parole, che, per quel che mi riguarda, l'argomento storico dello sterminio è una sentenza passata in giudicato, affrontabile, cioè, con quel distacco, dettato anche dall'arco temporale, in grado di garantire, oggi, una visione estremamente lucida e documentata di quanto accaduto, senza che ad ogni piè sospinto, nel corso di dibattiti storici, politici o più genericamente culturali, chicchessia debba sentirsi autorizzato a ricordare noi che, 76 anni fa, in Europa, abbiamo avuto Auschwitz – come invece è successo da noi con l'istituzione della giornata della memoria, fortemente voluta dalla sinistra nostrana per il semplice fatto che nel campetto in Polonia vi fecero irruzione i russi: fosse toccato agli australiani, ci sarebbe stato concesso di dimenticare in tutta serenità.

Detto questo, alle parole della sedicente insegnante, non ho potuto che rivolgere il mio pensiero ai ragazzi, a questa generazione che non amo, ma che mi sembra abbia più di una buona ragione per fregarsene di tutto e tutti. Anzitutto fregarsene di noi adulti: di me che scrivo, di quelli convinti che quel che serve loro, nell'anno 2021, sia la memoria storica, come di quelli che credono fermamente che questa generazione non stia aspettando altro che il loro appoggio, la loro condivisione o, peggio, il loro consiglio.

Nonostante non lo apprezzi più da tempo (la superiorità morale della sinistra vecchia guardia mi è divenuta intollerabile), è stato Michele Serra, con il suo romanzo Gli Sdraiati, quello che, a mio parere, ha meglio definito e fotografato la generazione dei millenials, così come il travaglio tutto nuovo che essa ha scatenato nel mondo adulto, dove schiere di genitori, illusi di possedere soluzioni al passo con i tempi per vincere l'estraniamento di un figlio adolescente, ne provocano, in realtà, l'ulteriore – e, a volte, estremo – allontanamento. Consiglio a chi è interessato al tema della formazione di includerlo nelle proprie letture, senza però darmene notizia, perché negli ultimi tempi queste manifestazioni di interesse mi confermano puntualmente il fraintendimento di quasi ogni lettura. Quindi: fottetevi.

Mia figlia, otto anni, mi parla da tempo di Billie Eilish, la ragazza statunitense che qualche anno fa è stata partorita dal buco nero di Internet divenendo un fenomeno tra i coetanei, ed oggi, ventenne, ha all'attivo 65 milioni di dischi venduti. All'ennesima sua citazione, mi sono fatto coraggio e sono andato a verificare di persona la consistenza di questa giovanissima che da quattro anni fagocita la passione di moltissimi della sua generazione. Ho ascoltato il disco d'esordio – l'unico, al momento. E tutto è apparso subito chiaro, inequivocabile: Billie Eilish ha scritto la colonna sonora dei millenials. Ecco, cosa. Tutto, dall'inerzia all'inspiegabile euforia, dalla depressione all'infatuazione, l'insoddisfazione per il proprio corpo, il bisogno di nuove droghe, gli obblighi social, tutto, del sommerso mondo dei sentimenti giovanili, è reso nel disco When We All Fall Asleep, Where Do We Go? con un suono ed un incedere assolutamente all'altezza della situazione, che spiegano, esaurendolo, il fenomeno Billie Eilish. Per me, genitore 50enne, è stato come un invito a guardare, ma senza toccare, senza poter entrare all'interno di questa panic room sonora. Ho pensato che, al mondo c'è chi nasce giovane, come questa davvero adorabile ragazza, e chi nasce vecchio - e furbo - come i componenti de Il Volo.

Privata del futuro, svilita dal presente, delusa oltre ogni limite dagli adulti, questa generazione di giovani, abitata dal nichilismo, secondo il prof. Galimberti, inetta, per Bret Easton Ellis, e sdraiata, a detta di Michele Serra, ha trovato in Billie Eilish un portabandiera, il cantore di una visione delle cose che, all'infuori dell'ambito millenial, non interessa nessuno.

Pretendere la loro attenzione narrando concitatamente – manco fosse una scopata – di un campo di sterminio eretto 80'anni fa in una delle lande più fredde del continente, significa, ancora una volta e con aumentata forza, imporre loro quella visione adulta, sfacciatamente ideologica e passatista della vita che è, con buona probabilità, la causa prima della loro epocale chiusura.

sabato 2 gennaio 2021

LE VITE DEGLI ALTRI. Spiare il prossimo attraverso i 'social'.


Alla fine, non ho resistito. Dopo anni di virtuoso contenimento, sono andato a curiosare nei profili social di una serie di persone amici, conoscenti, simpatizzanti, followers, parenti, ex, amici degli amici, figure pubbliche e persino alcuni dei cosiddetti influencers - , al fine di scoprire cosa passi loro per la testa, cosa pubblichino, cosa li affligge, preoccupa, appassiona o rende felici, in questo momento storico così difficile ed atipico. In buona sostanza, ho concesso alle mie insicurezze di prendere il sopravvento, misurandole in un mortificante quanto fasullo confronto. Facebook, Instagram, Twitter, Tinder, Flickr, Pinterest, luoghi dove, con buona pace di molti benpensanti, si consuma, specie in questi giorni di reclusione emergenziale, la socialità 2020.

Mi sono così imbattuto in una sequenza di pubblicazioni che, se considerate prodotto dello sforzo creativo – si fa per dire - di persone adulte, gettano nello sconcerto, quando non nello sconforto più profondo. Materiale web che spazia senza soluzione di continuità dall'inadeguato (sette anni di posts consistenti in soli aggiornamenti del proprio autoscatto in differenti contesti domestici) al bizarre (un tizio la cui immagine del profilo è un enorme pene eretto che sembra nessuno abbia ancora provveduto a rimuovere tramite banning). Nel mezzo, milioni di terabyte di vero e proprio metano linguistico e comunicativo, dove grammatica e tipografia risultano bellamente ignorate a favore di regole del tutto nuove, spesso rivendicate dai loro utilizzatori come libero esercizio di spontaneità.

Albe, tramonti, nebbie, pietanze, selfies, falsi clamorosi, paesaggi fantastici, citazioni improbabili, condivisioni imbarazzanti, video amatoriali, posts impiegati per comunicazioni private (“Ehi raga ci vediamo da Nello alle otto” [sic], “Lavori, domani?”), interi profili dedicati al culto di personalità vere o presunte dello spettacolo, dello sport, della politica, profili di neonati (!), di defunti (!) e financo di animali domestici (!). Il tutto in una orizzontalità che equipara senza curarsene Nelson Mandela ed il mostro del Circeo, Jovanotti e Miles Davis, J. K. Rowling e Shakespeare, l'Angelus del papa e la marcia dei suprematisti a Charlottesville, solo per citare degli esempi a caso (sui social è ormai concessa ogni permutazione morale). Esibizioni, erezioni ed ordinaria follia, avrebbe detto Charles Bukowski.

Quel che maggiormente mi ha colpito, però, è il quasi assoluto scollamento dall'attualità riscontrato. Sembra davvero che, per molti, non vi sia evento degno di una riga vergata di proprio pugno, di una presa di posizione. Nel migliore dei casi, mi sono imbattuto nella semplice condivisione di notizie, mutuate dai siti di informazione generalista, senza riuscire in alcun modo a capire se il 'condivisore' ne fosse deliziato od irritato. È un atteggiamento riscontrabile anche nella socialità, ma soggetto ad una brusca mutazione quando la notizia impatta con la quotidianità di questi 'indifferenti digitali', con la vita nei suoi aspetti materiali. Allora diviene tutto un pubblicare, condividere, 'taggare', polemizzare ferocemente che molto dovrebbe far riflettere sul presunto ampliamento di vedute stimolato dalla 'rete'. Non più attivate dall'attualità, le persone cercano altrove quella scossa senza la quale non è possibile alzarsi dal letto la mattina. Si giunge così alla fuga nel fantastico.

FANTASY

Penso anch'io, come lo sceneggiatore Jason Hall, che, per molte persone, il male non esista, e che tale illusione sia quella che le rende del tutto impreparate alla sua inevitabile comparsa. Per molte altre, invece, l'averlo dolorosamente sperimentato sulla propria pelle sembra averne causato la quasi totale rimozione. Non si spiega in altro modo, il proliferare incontrollato di immagini fantastiche, luoghi non fisici frutto di ritocco, cui tante persone, attraverso i propri profili social, sembrano affidare l'espressione dei propri più intimi sentimenti. Chalets di montagna immersi in ambientazioni da film, attici soffusamente illuminati con vista mozzafiato, aperitivi in luoghi esclusivi, deluxe, giovani donne griffate dalla testa ai piedi, famiglie sorridenti e felici riunite sotto fastosi alberi di natale, caminetti dalla luce primigenia, animali che sorridono (giuro), intimo femminile abbandonato allusivamente in sfarzose camere da letto, cene romantiche durante 'perfette' tempeste di neve. Puntualmente, ognuna di queste immagini risulta chiosata all'insegna della stucchevolezza più decadente o di un astio represso a fatica. Slogans e aforismi cui sembra venire affidato un desisderio di rivincita sopito da tempo: nei confronti della vita, nei confronti di un partner. “Inizia la settimana più magica dell'anno”, “Il tempo […] restituisce tutto a tutti”, “Dedicato a chiunque stia aspettando qualcosa”, “È la sincerità che rende speciale una persona in questo mondo di false apparenze”, “Un momento di gioia […] non siamo noi ad afferrarlo, ma è lui ad afferrare noi”, “Che parole meravigliose sono gli sguardi”, “Dance is my life”, “Chi non perde mai la testa smarrisce il cuore”, “La vita ti sorride quando hai il coraggio di fare ciò che ti fa sorridere”, “Vi auguro tempeste di felicità”, “La dolcezza, un abito che non passa mai di moda” e via dicendo. Risucchiato dal vuoto pneumatico di queste banalità un tanto al kilo, è stato solo dopo parecchia 'navigazione' che ho realizzato quanto segue: il 100% di questo orrore, quello nel quale mi sono imbattuto, risulta pubblicato su profili appartenenti a donne.

CHECK POINT CHARLIE

Un'altra tendenza diffusa, emersa durante lo spionaggio di cui sopra, è quella all'impiego fazioso, distorto e, obiettivamente, diffamante del mitico fumetto yankee Charlie Brown. Charlie ed i suoi piccoli amici hanno guadagnato un posto nell'immaginario collettivo grazie all'innocenza disarmante con cui per cinque decenni hanno chiosato quotidianamente (!) non solo l'attualità quando questa si faceva tanto invadente da non poter essere ignorata, ma anche le spesso amare constatazioni sulla vita emerse nel corso di un breve dialogo o frutto di riflessione. Arguzie, battute, un pizzico di understatement, mai una volgarità. Esattamente l'opposto di quanto caratterizza gli stessi personaggi nella versione social. Singoli quadri del fumetto vengono selezionati e montati a dovere al fine di adeguarli all'espressione di pensieri, parole opere ed omissioni di dubbia origine, sconcertante grevità e di una banalità che mette alla prova. Ma soprattutto: lontani anni-luce dal pensiero di Schulz, il papà della 'striscia'. “Ti spaventa l'infinito?”, “Più il congiuntivo.”; “Il problema è che gli stronzi vivono bene e spensierati e i buoni vivono in ansia e con la gastrite.”; “Lo spread sale ma lo spritz scende che è una meraviglia.”; “Houston, passami Lourdes.”; “Ci si stanca anche di rimanerci male.”; “Anche le mie ansie hanno l'ansia.”; “In vino veritas in vodka figuriamocis.”. Trionfo del fake, pensiero conto-terzi, apologia di ignoranza. Frasi che i protagonisti del fumetto MAI si sarebbero sognati di pronunciare, e che ora campeggiano in bella vista in molti profili social e financo come immagini di copertina, ad indicare, in una totale assenza di vergogna, la fonte temporanea, passeggera, effimera, del proprio pseudopensiero.

LONELY HEARTS CLUB.

Una dinamica che emerge altrettanto chiaramente, rispetto a quanto fin qui descritto, è quella uomo-donna. Il primo, rimosso ogni tratto contenutistico, se mai ve n'è stato alcuno, sembra essersi specializzato, negli anni, nel commento sessualmente allusivo quando non addirittura spudorato, bavoso. “Bellissima”, “Stupenda”, “Sei una gnocca davvero”, “Non ho parole”, “Ho una paresi”, “Sirena voglio essere il tuo scoglio”, “Come vorrei essere quella maglietta”, “Questa sera serata con Federica la mano amica”, “Uno schianto”, “Mmmm”. Imbarazzo a parte, sono frasi che, dette di persona, porterebbero in tribunale per direttissima, con molta probabilità per volere delle stesse destinatarie, mentre nel contesto social assumono la valenza di punteggio da classifica-cannonieri. In una disperata ricerca di consenso a colpi di scollature, sguardi bovini fuori campo ed ammiccamenti da anni della 'Disco', la donna social, infatti, ha completamente annientato le poche, concrete conquiste conseguite dal femminismo barricadero, in un tripudio di autoscatti settimanali a bassa definizione, sostanzialmente identici gli uni agli altri, nonostante l'evidente pretesa di presentarli come sfaccettature sempre diverse ed irriproducibili del femminile. “Stasera decido io”, “Shhhhhh”, “Dedicato a chi ama sé stessa”, “Due gocce di profumo e... pronta”, “Oggi sono solo mia”. Se gli altri networks rimangono prevalentemente deputati alla polemica rabbiosa, gratuita (hating), e ad un esibizionismo erotico e narcisistico, Facebook, in particolar modo, sembra diventato un club per cuori solitari, dove, da profilo a profilo, ha luogo quella dinamica decadente di corteggiamento un tempo appalto di night e balere – dove, risaputamente, la tecnica per il cosiddetto 'struscio' o 'rimorchio' per la conquista dell'agognato rapporto occasionale, da esibire come trofeo nella sala della caccia, è sempre consistito nell'approcciare sistematicamente ed insistentemente tutti i tavoli occupati da almeno un essere umano.

FELLATIO

Se per Harvey Keitel in Pulp Fiction l'abbandono ai facili entusiasmi era un atteggiamento da tenere ben a freno (“..., non è ancora il momento di cominciare a farci i pompini a vicenda.”) - una delle sequenze più belle e divertenti degli ultimi 30'anni -, va da sé che il popolo della 'rete' o non ha visto il film (probabile) o l'ha visto e non ha capito (probabile). O, ancora, l'ha visto e l'ha disapprovato (improbabile). Incuranti dei preziosi consigli di Keitel/Wolf, le coppie social non perdono infatti occasione di esibire il proprio status solido al giungere di anniversari di fidanzamento o matrimonio. È il trionfo del modello Mulino Bianco, della grande illusione, dell'ipocrisia sfacciata. Lui scrive a lei auguri sperticati: lei fa lo stesso. Il popolo, astante, si produce in un profluvio di consenso digitale e commenti robotici. Fellatio. Eiaculazione. Tripudio. “Auguri, amore mio”, “Vent'anni innammurati”, “Dieci anni... IN CIMA AL MONDO”, “Quindici anni insieme e una famiglia fantastica GRAZIE AMORE MIO”, “Grazie di esistere... per sempre”. Secondo uno studio condotto dal centro-statistiche Cavenaghi Seminara di Pozzallo (RG), negli ultimi quindici anni, da quando cioè la rivoluzione digitale ha colmato il fisiologico gap iniziale, risulta che il 79% delle coppie titolari di un profilo social consumi il tradimento del partner entro il quinto anno dalla registrazione al network di preferenza. Ciò significa che la comparsa di quello che nella cultura popolare italica è riconosciuto come inequivocabile segno di tradimento subìto, le corna, deve la propria crescita ad incontri ad alto potenziale erotico ed esibizionistico stimolati dalla frequentazione assidua e notturna dello stesso network nel quale, ora, si celebra l'inossidabilità dell'unione. Quindi, vaffanculo.

PUGNETTE

A chiusura di questa carrellata horror, non posso non soffermarmi sulla tristezza indottami dalla ripetuta visione dei selfies orgogliosamente campeggianti in quasi tutti i profili visitati. Da bambino, ma anche successivamente, fino ben dentro l'età adulta, ricordo di avere sempre provato una forte pena per quei coetanei affetti da strabismo più o meno accentuato. Quella loro apparente incapacità a mettersi in asse con il tuo sguardo mi distraeva, paralizzandomi, da qualunque cosa stessero dicendo, fosse anche un insulto o la minaccia di pestarmi per bene fuori da scuola. Sensazione rivissuta in questi anni di proliferazione incontrollata dell'autoscatto, del selfie, negli sguardi puntualmente disallineati dall'obbiettivo, la tensione muscolare di sessioni fotografiche prolungate che modifica sensibilmente l'espressione del viso, i fondali tristissimi di appartamenti spogli o di camere scarsamente illuminate, il cui messaggio implicito sembra sempre essere: siamo soli. (se avessero letto qualche buon libro in più, godrebbero oggi del doppio conforto dato dallo scoprire che le più belle pagine sulla solitudine cosmica non le ha scritte quel segaiolo di Garcia Marquez bensì Primo Levi). Selfie è neologismo sorto dal sostantivo self, indicante il nostro 'sé', suffissato alla maniera sassone al fine di formarne il diminutivo. Lo slang più fortemente liberal delle tante comunità della west coast statunitense anni '50, lo impiegò nell'accezione di 'pugnetta', di autoerotismo, di qualcosa di sminuente che si fa a sé stessi in totale autonomia. Mi-sono-fatto-un-selfie si può ben intendere come: "Mi sono fatto una sega e l'ho messa 'in rete'". E così in diversi momenti della giornata, siano essi quelli biologici della sveglia e del coricamento o quelli pre-lockdown della preparazione ad un'uscita che sempre è spacciata per galante, ricca di attese e sottintesi, e chiosata con auguri di vario genere (“Buonanotte a tutti”, “Una buona giornata”, “Il mattino ha l'oro in bocca”), ecco apparire, immancabile, la 'pugnetta' del giorno, una manifestazione davvero in grado di annientare ogni sincero, spontaneo moto d'amore per la vita, con conseguenze letali.

Rimangono, all'inventario di questa breve operazione di spionaggio, tutte quelle pubblicazioni meritevoli di attenzione per il solo, semplice fatto di essere frutto di una passione seriamente e lungamente coltivata, pertanto meritevole di condivisione. Ed anche tutti i posts originanti da una condivisione attiva, ponderata. Ma la loro comparsa altro non fa che evidenziare drammaticamente, per difetto, l'uniformità di pensiero del mondo social.

mercoledì 25 novembre 2020

PECORE, LUPI & CANI-PASTORE. La nuova morale impartita dal cinema.

Nel suo libro cult Il Giorno Della Civetta, Leonardo Sciascia diede vita ad una classifica, divenuta celebre, a metà tra la boutade e l'amara constatazione. A colloquio con il Capitano Bellodi, in un dialogo davvero indimenticabile, il capomafia Don Mariano – assurto al ruolo massimo non tanto perché esperto di crimine, si intuisce, ma perché capacissimo nel cogliere l'essenza delle persone - stabilisce una sorta di top five dei tipi umani. A salire: i quaquaraquà, i pigliainculo, gli ominicchi, i mezz'uomini ed infine gli uomini. “Lei, anche se mi inchioderà a queste carte come un Cristo, lei è un uomo...”, dice Don Mariano. E Bellodi: “Anche Lei.”. Fantastico. Per almeno cinque decenni, questa classificazione, ha rappresentato impietosamente l'antropologia italica (la quale, naturalmente, ha dato nel frattempo il meglio di sé immettendo sul mercato umano svariati esemplari dei primi e “pochissimi” dei secondi, proprio come profetizzato dal saggio capomafia). Da allora, fino, diciamo, allo spegnersi dell'inchiesta Mani Pulite, nessun nuovo ingresso in classifica è stato in grado di scardinare questa visione: sia per ciò che riguarda le posizioni di fondo (il proliferare sconcertante di pigliainculo ed ominicchi) sia per il suo vertice (la scarsità di veri uomini). Una vera e propria tavola periodica dell'umanità, ordinata, parascientifica eppure inossidabile.

Poi è successo qualcosa.

Una mutazione radicale, avvenuta in termini di perdita di informazione (parliamo, quindi, di un processo involutivo), ha interessato la società in cui viviamo. Si è assistito, cioè, ad un innalzamento delle forme di violenza, di abuso, di sopruso, di inciviltà, di disumanità in generale. I protagonisti della classifica sciasciana, negli anni, si sono resi colpevoli di gesta sconcertanti, spregevoli e spesso inspiegabili: uomini straordinari finiti sotto indagine e persino condannati per casi gravi di corruzione ed omicidio; ominicchi della terra di mezzo dell'alta finanza, dell'imprenditoria e financo della filantropia condannati per abuso sessuale, sfruttamento della prostituzione, pedofilia; pigliainculo ritenuti inoffensivi, hanno improvvisamente trovato la forza bruta per sterminare le rispettive famiglie a seguito di un 'no', di un amore legittimamente negato; quaquaraquà sui quali non si sarebbe giocato un soldo, scoperti con fortune senza precedenti quasi sempre sottratte ai fondi pubblici per la sanità, per i terremotati, per la prima accoglienza. Predatori grandi e piccoli accomunati dalla spinta a soddisfare senza mezze misure i propri appetiti: sessuali, di potere, monetari, di controllo. Il nostro tempo, si può dire, è quello che ha visto l'avvento della gratuità del gesto violento ed inconsulto (assenza di movente, anaffettività). Aberrazioni con le quali ci si è trovati a convivere, nostro malgrado, scoprendo nel vicino di casa, nel conoscente, nel giovane del quartiere, nel parente alla lontana, nel prossimo, ma anche, a volte, nell'amico e nel congiunto, una insospettata doppiezza che persino lo sguardo indagatore del Don Mariano di Sciascia - personaggio di in un mondo bidimensionale dove l'essere umano ancora conservava aspetti della personalità accessibili ed interpretabili, trasparenti di quella trasparenza con la quale da tempo ci riempie la bocca invocandola in ogni frangente come la virtù risolutiva, l'arma finale contro le tante derive della società -, persino un osservatore così attento avrebbe faticato a decifrare.

È accaduto, allora, che un giorno, l'organigramma sciasciano, per più di tre decenni imprescindibile riferimento bibliografico per un'antropologia dal sapore letterario, è tornato appalto delle poche antologie che ancora oggi ritengono salubre ospitare al loro interno estratti dell'opera di Sciascia, vero e proprio pezzo di antiquariato da mostrare con saccenza alle nuove generazioni (le quali, come è forse inevitabile che sia, l'avranno trovata poco stimolante e del tutto anacronistica, fuori dal tempo). Il cinema, che invece in questa ultima mutazione dell'animo umano ha sempre trovato spunti creativi grazie alla sensibilità della straordinaria generazione di sceneggiatori avente come capostipite Alan Ball, si è sostituito alla letteratura, rivelatasi da allora incapace a risuonare del quotidiano, della everyday life; non più in grado, come sosteneva David Foster Wallace, di trattare argomenti come una giornata di lavoro o la vita di chi si scopa la stessa donna per 30'anni (suggerimento smaccatamente sessista, ma non dimentichiamo che Foster Wallace, come tutti i geni, era un nevrotico della prima ora).

Ci sono tre tipi di persone a questo mondo: le pecore, i lupi e i cani da pastore. Ci sono persone che preferiscono credere che nel mondo il male non esista. E se mai si affacciasse alla loro porta, non saprebbero come proteggersi. Quelle sono le pecore. E poi ci sono i predatori, che usano la violenza per sopraffare i deboli. Quelli sono i lupi. E poi ci sono quelli a cui Dio ha donato la capacità di aggredire e il bisogno incontenibile di difendere il gregge. Questi individui sono una specie rara, nata per affrontare i lupi. Sono i cani da pastore. In questa famiglia noi non alleviamo pecore, e io vi ammazzo a cinghiate se diventate dei lupi. [...] Ma proteggiamo chi amiamo. Se qualcuno prova a picchiarti, se c'è chi fa il bullo con tuo fratello, vi autorizzo a farlo smettere.”.

Il brano riportato, è opera dello sceneggiatore statunitense Jason Hall, ed è tratto dal film American Sniper, di Clint Eastwood.

Quella di Eastwood è una visione del vivere civile molto tradizionale, repubblicana, di vecchio stampo e genuinamente guerrafondaia – per non dire anche in parte apologetica. In questa pellicola in particolare, è facile ravvedere una presa di posizione solidale nei confronti di quegli americani cui tocca il compito, in verità assai ingrato, di condurre le guerre che, di volta in volta, i vari governi, nessuno escluso, vanno dichiarando per fini destinati a restare oscuri. Una volta costituito il contingente, però, Eastwood sembra attivare una sottomorale: trascura le motivazioni di natura aggressiva con le quali gli Stati Uniti d'America, da decenni, muovono guerra agli stati reputati nemici, e si concentra sul corpo di spedizione che diviene, così, il gregge da difendere dai lupi del succitato dialogo. Diciamo, semplicemente, che, a 90'anni, puoi permettertelo.

Pecore. Lupi. Cani-pastore.

C'è un modo dignitoso e condivisibile per essere di destra - per essere repubblicani, nel caso dei fratelli statunitensi - senza vergogna, senza avvertire una compromissione colpevole ed irreversibile della propria reputazione (sempre che se ne abbia una: è tendenza recente e diffusa, infatti, quella di rivendicare primati morali difficilmente verificabili). Nelle cronache dell'Africa postcoloniale, per citare un esempio, vennero registrati casi di manipoli di mercenari - non propriamente tesserati del Fronte Della Gioventù - che offrirono le proprie competenze belliche alle minoranze oppresse dallo sfruttamento occidentale (valga su tutti il caso del Biafra). Con il senno di poi, è quindi possibile affermare che questi specialisti della guerra (i Dogs Of War magnificamente narrati da Frederick Forsyth) furono moralmente assai più ineccepibili dei tanti politici che al tempo rivendicavano per loro stessi patenti democratiche e liberali attraverso retoriche improntate ad un nebuloso pacifismo. Ecco il punto: si può essere e restare onestamente di sinistra e, nel contempo, conservare la libertà di giudizio necessaria a riconoscere che il dialogo genitore-figlio di American Sniper è, ad oggi, l'unico all'altezza di fornire una visione ed una soluzione a questi nostri tempi problematici. Realismo, un po' di sano familismo, comportamenti che fungano da esempio, dedizione ai compiti educativi e responsabilizzazione.

Scrive, Sergio Romano nelle sue memorie: “[...] il conservatore […] Crede che tutti gli uomini «siano stati creati uguali», secondo l'affermazione iniziale della Dichiarazione americana d'indipendenza, ma sa che essi si disporranno lungo la strada della vita secondo una inevitabile gerarchia.”

Improbabile che Eastwood e Hall abbiano letto le pagine di questo nostro principesco memorialista. Ma la sintonia con la chiusa del dialogo citato è impressionante. “Quello aveva preso di mira Jack”, dice il giovane Chris. “È vero?”, chiede il padre al piccolo Jack il quale subito annuisce. E di nuovo rivolto a Chris: “Allora tu sai chi sei.”.

Chissà cosa penserebbe Sciascia, di tutto questo.



giovedì 12 novembre 2020

DIVENTARE (E RESTARE) SÉ STESSI. I Nine Inch Nails nella 'Rock 'n Roll Hall Of Fame'.

Forse l'unico aneddoto che valga la pena raccontare, riguardo il legame estetico, emotivo – ed, in parte, anche filosofico -, che da 25 anni or sono mi lega, con con alti e bassi, a Trent Reznor e ai suoi Nine Inch Nails, è quello di quando decisi che era ora di partire per gli Stati Uniti d'America e finalmente assistere ad un concerto di quella che già allora poteva dirsi la mia band preferita. Era il 1999, ed entrare negli Stati Uniti non rappresentava la seccatura che è divenuta oggi. Sbarcai in California, dove, al contrario del nostro paese, Internet era già altamente performante e capillarmente diffuso. A San Francisco prima e a Los Angeles qualche giorno dopo, con atteggiamento da vero provinciale, visitai in rapida sequenza tutta una serie di librerie e di negozi di dischi del circuito indipendente, chiedendo notizia di date californiane dei Nine Inch Nails. Risposero quasi tutti che la cosa migliore era consultare il 'Web' (azione per la quale sembravo evidentemente del tutto inadeguato, al punto che un giovane commesso, mosso da umana pietà, si offrì di compierla per me). Scoprii così, con divertito stupore, che, in quello che sarebbe passato alla storia come uno dei periodi più straordinari di questa one-man band, l'anno, cioè, che aveva da poco visto la pubblicazione di uno dei suoi dischi più belli e più ricercati,The Fragile; nel mentre battevo le strade della California alla loro disperata ricerca, i Nine Inch Nails sbarcavano all'Alcatraz di Milano per l'unica data italiana di Fragility v1.0 (!).

Insomma: ero andato nella West Coast per un gran scopata, e me ne stavo tornando a casa con un carico di pugnette accuratamente rubricato nelle statistiche di quella che poteva comunque dirsi, a bilancio chiuso, una vacanza memorabile – e non senza prima aver vagabondato per bene tra i tanti luoghi della scena indie e di quella pregevolissima del jazz alternativo.

I Nine Inch Nails, che da quel mese di novembre di più di 20'anni fa hanno suonato in Italia poche volte e con un riscontro di pubblico del tutto relativo, specie se confrontato con le immancabili vendite sold-out di molti loro colleghi, sono entrati ieri l'altro nella Rock 'n Roll Hall Of Fame (istituzione yankee di grande decadenza e del tutto ininfluente sotto il profilo artistico, una sorta di Confindustria per rockettari). Questo significa sostanzialmente due cose. La prima è che la vacca del circuito mainstream deve avere realmente finito il latte, se per conferire ancora un po' di lustro a questo inutile luogo (la 'Hall O Fame' è un museo sito a Cleveland, nell'Ohio) e raggranellare qualche soldo si è dovuto ricorrere alla nomina di un gruppo che, diciamolo, non è mai stato famoso per il suo repertorio per famiglie. La seconda è che, per quanto ipocrisia ed opportunismo, da oltre un decennio, continuino a praticare il più grande lavaggio del cervello di massa dell'era moderna, il talent show, basta un poco di attenzione per accorgersi che tra la migliore performance di Marco Mengoni ed anche solo un primo ascolto di The Slip (il disco uscì più o meno al tempo dell'affermarsi di X Factor in Italia), c'è un abisso incolmabile. Per quanto cerchino, lor signori, di persuaderci riguardo all'inflazione di talenti a loro completa disposizione, per fare un disco così, non bastano quattro accordi di chitarra ed un po' di faccia tosta. Questo a livello artistico. A livello personale (ed invito tutti coloro che, mi auguro, a seguito di queste righe, vorranno cimentarsi con il repertorio della band, a non sottovalutare l'aspetto autobiografico della sua intera produzione), Trent Reznor è stato uno sfigato, un disadattato, un fallito, un depresso, un misantropo ed un autolesionista. I Nine Inch Nails sono stati la sua salvezza e la sua cura. Grazie ai progressi tecnologici del tempo (il primo disco uscirà nel 1989), poté dare vita ad una band della quale figurare come unico componente, ed in questo modo fare delle proprie difficoltà relazionali il punto di forza, il tratto caratteristico del progetto. In questa veste, ha dato vita vita a registrazioni sui generis e sofisticate. Ha toccato tematiche strettamente – e spudoratamente – legate alle sue personali problematiche. In 30'anni, questo provinciale dell'Ohio, è passato da una condizione al limite con il patologico a quella di musicista professionista con almeno due dischi seminali a proprio carico, autore di colonne sonore, collaboratore stretto di registi quali David Fincher e David Lynch (mitica, l'esibizione dei Nine Inch Nails nell'episodio n°8 di Twin Peaks), produttore richiestissimo e selettivo. Dall'incontro con il fotografo Rob Sheridan, i Nine Inch Nails hanno dato vita ad una serie di spettacoli avanguardistici e pregnanti, di grande coesione tra musica ed immagine, che farebbero impallidire quasi tutte le megaproduzioni dei grandi nomi dello spettacolo (e non è detto, sotto sotto, che ciò non sia persino avvenuto). Il tutto attraverso la produzione di un mondo sonoro estremo: oscuro, disturbante, ossessivo, pulsante. Il mio incontro con la loro musica avvenne in maniera del tutto non intenzionale. Ero reduce dalla visione di Assassini Nati, di Oliver Stone, quando decisi di acquistarne la colonna sonora. “Produced by Trent Reznor”, stava scritto sul retro di copertina. Conoscevo, al tempo, quasi tutti gli artisti ed i brani che vi erano stati inclusi, con una sola eccezione. Un nome decisamente originale che ero certo di non avere mai sentito prima di allora: Nine Inch Nails: Burn. Mettiamola così: avete presente, anche solo vagamente, la procedura di eiezione degli aerei da combattimento? I piloti militari dell'era moderna ne subiscono la simulazione in concreto (si tratta di treni speciali lanciati in folle corsa e dotati di dispositivo d'espulsione). L'unico aspetto della procedura che ancora oggi non può essere ricreato è la reazione psicologica alla effettiva velocità con la quale, nel momento della vera emergenza, il tuo corpo reagirà all'impatto con l'aria. Può essere quella controllata che segue ad una perdita di spinta. O da shock conseguente a velocità supersoniche – eventualità, quest'ultima, che rende la sopravvivenza all'eiezione di poco superiore all'uno per cento. Ecco: il giungere improvviso del chorus di Burn fu, per me, l'equivalente di un impatto a velocità supersonica. Non posso inoltre censurare il fatto che, ancora oggi, il videoclip realizzato per questo brano, riesce a farmi vivere brevi, sporadici momenti di vero disagio. Insomma: Trent Reznor - suo malgrado, penso – è, oggi, il più importante influencer della musica moderna, di quel che resta del rock (poco), cioè; il musicista da ascoltare con regolarità per mutuarne idee e soluzioni, ma con parsimonia, per evitare che qualcuno se ne accorga.

Per concludere, quindi: il successo è perseguibile anche restando se stessi. Questo il messaggio implicito nel recente riconoscimento della 'Hall Of Fame'.

E non è, questo, anche il più grande messaggio di speranza auspicabile in questi nostri tempi difficili?

Diventare se stessi e rimanervi fedeli.

È un risultato che, se garantito, non avrebbe prezzo.

Per chiunque.

P.S. Sapevate che nella formazione dal vivo di questa band formidabile milita da anni un italiano? Si chiama Alessandro Cortini. Emiliano, polistrumentista, nerd. Così. Giusto per sapere, prima che qualcuno attacchi l'ennesimo pippotto sulla bravura inarrivabile di Giuliano Sangiorgi.

domenica 18 ottobre 2020

SUPERCULT. 'Fight Club' 20'anni dopo.

Lasciato finalmente libero in casa, ho potuto rivedere con calma – e, devo dire, immensa eccitazione - Fight Club, il film di David Fincher che 20 e più anni fa lanciò Brad Pitt, a ragion veduta, nell'olimpo dei grandi attori di Hollywood, così strappandolo ad una carriera che, dopo lo stucchevole Vi Presento Joe Black, rischiava di cristallizzarsi in ruoli assai remunerativi e su misura per un pubblico femminile astutamente erotizzato dall'industria cinematografica californiana. Ho notato che non solo, il film, non ha perso smalto (la recitazione è persuasiva, la fotografia attuale e dettagliatissima, la colonna sonora e la regia da cult movie): rivisto dopo l'undici settembre, il passaggio di Katrina, Occupy Wall Street, il caso Snowden, le proteste di Hong Kong, la pandemia, i fatti di Minneapolis e quant'altro di devastante abbia investito la società globalizzata dal termine della presidenza Clinton, rivela agli occhi degli spettatori, in particolar modo di coloro che lo hanno amato fin da subito, una carica profetica così forte da farne seduta stante uno dei film più importanti, rilevanti, degli ultimi decenni. Do per scontato, a questo punto, che, in quanto lettori assidui di Sala Colloqui, abbiate visto il film e conosciate alcune delle sue tante, davvero memorabili sequenze. Il nido Ikea, le immagini subliminali pornografiche, i gruppi di auto-aiuto, Tyler Durden, il disastro aereo, la cabina di proiezione, la finta rapina al supermercato, le minacce al capo della Polizia, il furto del grasso da liposuzione. Chi più ne ha più ne metta. Vale forse la pena di riflettere sul fatto che 21 anni fa, grazie ad una bella dose di coraggio (perché ce ne vuole, nella vita come nella professione), un regista con le strapalle quale è David Fincher, riuscì a persuadere una major di Hollywood a produrre un film le cui tematiche, in Italia, ancora oggi, non troverebbero una porta aperta anche proponendole singolarmente. (Ho visto, giusto settimana scorsa, l'ultimo film di Daniele Lucchetti, Lacci: tutto già visto e sentito, ben fatto, ottimo cast, ma una totale mancanza di argomenti. Viene da chiedersi, e non è la prima volta, se i nostri cineasti vadano mai al cinema a vedere il lavoro dei colleghi.). Fight Club non è un film sulla violenza (davvero fuorviante leggerlo così): è un film sull'anestetizzazione operata dalla società sugli individui, che ha come prima conseguenza il cinismo dilagante (di questi nostri giorni, osservabile ovunque), la radicalizzazione dei comportamenti (sport estremi, afterhours, sexting) ed il vuoto di senso (nichilismo). È narrato superbamente, ed ogni sforzo richiesto allo spettatore per seguire la vicenda davvero folle del protagonista è guarnita con ironia invidiabile e politicamente scorrettissima (su tutti il flashback dove il saponificatore Brad Pitt è ripreso nel mentre, nella veste di proiezionista, è intento a montare fotogrammi porno in film per famiglie). L'alter ego del protagonista, ad un certo punto, lamenta in maniera veemente l'assenza e l'inadeguatezza del padre. Ho realizzato solo allora, rivedendolo, quanto un simile passo possa avere costituito ostacolo nella distribuzione e nella promozione di questa pellicola nel paese – il nostro - che, sette anni più tardi, avrebbe dato vita a quella manifestazione dell'orgoglio bigotto che è stato il Family Day. Assai più facile – più comodo e confortevole - produrre stagionalmente il 'cinepanettone' o la commedia con il comico del momento – puntualmente identico a quello precedente. Nel cinema di David Fincher c'è un piacere quasi infantile – nel senso di istinto non mediato - nel sondare le oscurità più profonde dell'animo umano. Impresa che, in questo film, compie attraverso movimenti di camera lenti e precisi, come quelli di chi, in una cantina buia, muove i passi con attenzione, non per paura, bensì per memorizzare con precisione spazi, odori e sensazioni. Ed ecco, allora, l'impiego sapiente della sceneggiatura, che allenta la tensione per mezzo della battuta, della boutade, dello spunto originale. Ma soprattutto, il cinema di Fincher è finzione – che è poi il tratto di tutto il grande cinema. I tanti che, negli anni subito seguenti il grande successo della pellicola, si sono messi alla ricerca dei fight clubs che ritenevano esistenti ed operanti, hanno dimostrato quanto realmente fosse abissale il vuoto di molte esistenze, proprio come evidenziato dal film e dal sorprendente romanzo di Chuck Palahniuk che ne ha dato spunto. Non violenza, quindi, ma, appunto, la disponibilità, quasi prona a tutto, da parte di alcuni individui particolarmente disperati, al fine unico di colmare il vuoto insostenibile delle proprie esistenze (e come non ricordare, qui, il momento dove in combattimento si riconosce il giovane prete che, poco prima aveva reagito goffamente ad una provocazione del club?). Insomma un film che, come tutte le grandi opere, continua, a decenni dalla sua uscita nelle sale, a fornire spunti di riflessione a coloro che hanno orecchi per intendere ed occhi per vedere.

mercoledì 7 ottobre 2020

POLLUZIONI NOTTURNE. Quando Eddie Van Halen cambiò la mia vita (in meglio).



Nella storia della chitarra moderna – intendendo con questa la sua versione elettrica, sia rock che jazz – vi sono incisioni che, nel bene e nel male, ne hanno profondamente influenzato lo pratica esecutiva. Traduco: dischi dopo la cui pubblicazione tutti i chitarristi, persino inconsciamente, si sono visti costretti a cambiare il proprio modo di suonare. Breve excursus discografico: 1968, Electric Ladyland, di Jimi Hendrix; 1981, Friday Night In San Francisco, con Al Di Meola; 1984, Rising Force, di Yngwie Malmsteen; 1987, Surfin' With The Alien, di Joe Satriani; 1990, Inside Out, con Frank Gambale. Un anno dopo l'uscita di questo ultimo disco, l'insulsa figura del guitar hero cessò di colpo di esistere, distrutta dalla montante ondata grunge nord-pacifica (che ringraziamo di cuore, per questo) e da quanto ad essa seguì. Tra Jimi Hendrix e Al Di Meola, però, ho intenzionalmente omesso un disco anch'esso a pieno titolo tra le pietre miliari del chitarrismo ed il vero protagonista di questo scritto. Sto parlando del primo ed omonimo album dei californiani Van Halen, finito tra le mani dei suoi primi, fortunati acquirenti nell'inverno del 1978. Ora, va da sé che, pure che manchi la fantasia agli altri membri della band, se il nome del tuo gruppo è Van Halen, il suo primo disco si intitola Van Halen, e tu che ne sei il chitarrista fai Van Halen di cognome, è alquanto improbabile non goda di ottima reputazione, nella compagine. Detto questo, urge spiegare il perché di questa presentazione ad effetto. Eddie Van Halen, il chitarrista che proprio con il disco d'esordio letteralmente sfondò la barriera del suono, per come questo era stato fino allora concepito, è mancato ieri all'età non proprio veneranda di 65 anni. Non scrivo questo per dovere di cronaca (obbligo dal quale mi sento del tutto esentato: se volete particolari sull'autopsia, penso vi basterà seguire Barbara D'Urso): lo scrivo perché Van Halen, che ascoltai per la prima volta nell'indimenticabile estate del 1982, fu responsabile di un bel po' delle mie notti insonni di quel tempo, ed ha avuto su quell'adolescente smarrito che ero un'influenza al limite con l'abnorme (non solo riuscì a farmi trovare il coraggio per chiedere a mio padre l'acquisto di una chitarra, ma persino mi spronò in termini di costume, portandomi a raggirare abilmente mia madre per l'acquisto di una tuta per l'ora di ginnastica, in tutto e per tutto identica a quella che il nostro indossa sulla copertina di Women And Children First, uno dei momenti più alti della mia esistenza). Van Halen fu per me un'onda d'urto contro la quale impattai vergine ed impreparato, che al suo passaggio mi lasciò seminudo, con le sole mutande in laceri e a bocca aperta per almeno una settimana (quel primo ascolto avvenne nel mentre mi trovavo a passare l'estate nella fattoria di famiglia, insieme a nonni, zii, cugini e parentado acquisito, e quello sconvolgimento, la cui origine avevo tenuto segreta, venne preso da tutti come un momento difficile della mia crescita, quando, in realtà, ce l'avevo già duro grazie a brani come You Really Got Me, I'm The One e Atomic Punk, i miei preferiti). Fu il primo disco a portarmi via da una realtà che ero incapace di descrivere e codificare, consegnandomi ad un immaginario pericoloso ma bellissimo, davvero fatto di sesso, droga e rock 'n roll. Perché, parliamo chiaro: se Ludvig Van Beethoven è stato la colonna sonora delle illusioni napoleoniche e Gustav Mahler quella della psicanalisi, i Van Halen sono stati quella del porno, della perversione adolescenziale, dei festini e – mi permetto di dire – di un sano machismo (quello malato fu appalto dei Mötley Crue). Van Halen rimane tutt'oggi un disco straordinario, ineguagliato tra le opere d'esordio e non solo. Stratosferico nel suono, veloce come la gioventù sa essere, spregiudicato, perfetto fino nella scaletta dei brani, e pervaso da una spensieratezza invidiabile allora come oggi. Siamo onesti: contrariamente all'agiografia che proprio in queste ore viene scritta, e che ormai accompagna ogni dipartita del mondo dello spettacolo, Eddie Van Halen non era un genio della musica e nemmeno della chitarra (che dovemmo dire, allora, di Paco De Lucia o Pat Metheny?). Questi sono titoli che vanno attribuiti con parsimonia. Le personalità davvero geniali appaiono di rado e non sempre sono premiate da successo commerciale. Eddie Van Halen fu un giovane coraggioso e curioso che seppe rompere un argine del suo tempo – e già questo mi sembra non sia poco. Sviluppò il suo stile fin dove la fisicità della tecnica da lui inventata (il tapping) lo consentiva, dopodiché visse fino all'ultimo di una rendita che era nel contempo di fama, di stile e finanziaria (le esibizioni dell'ultimo decennio erano vere e proprie caricature di sé stesso). Tutto questo, però, non ha importanza. Eddie Van Halen e la sua band, 40'anni fa presero un preadolescente sfigato con i baffi e lo sbatterono di colpo in strada, dicendogli: “Ehi, moccioso: va, divertiti. Nessuno può impedirtelo.”. E di questo gli sarò riconoscente fino alla morte.

mercoledì 16 settembre 2020

OUR HOUSE. Le responsabilità educative della famiglie.

Delle cose rimastemi dell'Inghilterra pre Brexit, prima cioè della sua trasformazione in quella cloaca politico-sociale che è oggi, c'è una canzone dei Madness (per coloro che non li conoscessero, un gruppo ska formato da simpaticissimi svitati della suburbia londinese, famosi negli anni '80 per una serie molto fortunata di hits il cui merito è sicuramente quello di avere fedelmente raccontato con fare scanzonato la working class britannica del tempo). Si intitola Our House, ed è un ritratto gioioso e leggero della tipica famiglia inglese vista con gli occhi di uno dei figli. Una famiglia felice perché non desidera altro che quello che ha: un padre operaio (“Father gets up late for work”), una madre casalinga e premurosa (“Our mum, she's so house-proud”), figli orgogliosi di esserne parte (“Our house was our castle and our keep”), il fragore inevitabile dei nuclei numerosi (“it's usually quite loud”), gli ordinari riti del fine-settimana (“Father wears his Sunday best”) e, naturalmente, la casetta nel bel mezzo del quartiere (“Our house, in the middle of our street”).

Per quanto stilizzata, ho pensato proprio a questa famiglia, ieri l'altro, alla sua fierezza, alla sua semplicità, nel mentre, con paura e disgusto, leggevo i diversi resoconti biografici sui due fratelli di Artena, protagonisti delle cronache di questi giorni per avere condotto, in un piccolo paese del basso Lazio, un pestaggio in branco (quattro contro uno) conclusosi con la morte dell'aggredito.

La famiglia è un aggregato che può salvare, ma anche distruggere. Lo sappiamo bene tutti quanti. E se a qualcuno ancora serve un esempio, ciò significa che vive in un mondo diverso, quantomeno, da quello nel quale vivo io e che - mi piace pensare - credo sia lo stesso di molti di coloro che leggono o frequentano Sala Colloqui.

Giovani, carini (si fa per dire) e disoccupati, fino a pochi giorni fa, i due fratelli vivevano con i genitori - la famiglia, per l'appunto -, in una grande villa, svettante in maniera sospetta sulla modestia degli immobili circostanti. Grosse cilindrate, abbigliamento ed accessori firmati, bella vita puntualmente ostentata sui social, liquidità da emiro, fisico curatissimo ed ottimi rapporti con le forze dell'ordine, con le quali, nonostante la giovane età (25 anni), i due hanno intrattenuto, negli anni, diverse chiacchierate aventi come oggetto reati di varia natura.

I resoconti di cui sopra, tutti concordanti tra loro, riportano, oltre agli elenchi di mobili ed immobili appena riportato, l'incredulità ed il dolore della madre per quanto accaduto. C'è da capirla: quale madre non si sentirebbe così di fronte all'incarcerazione dei propri figli con un'accusa tanto infamante? I fallimenti sono duri da digerire. E quello sul fronte educativo, deputato come è in buona parte alla famiglia d'origine, è quello che riserva più dolori. Sorprende, però, che nessun sospetto sia emerso quando i due 'bravi ragazzi' hanno portato - immagino con orgoglio incontenibile - lei e papà nella nuova casa, attrezzata di tutto; quando, presumibilmente, li hanno ricoperti di attenzioni materiali di ogni genere; quando, sebbene titolati al reddito di cittadinanza, d'improvviso hanno smesso di vivere l'angoscia dell'arrivare sani e salvi a fine-mese. È davvero un bel paese, il nostro, avranno pensato: i nostri ragazzi faticano a trovare lavoro - come tutti, d'altronde. Ma, nonostante questo, non gli manca niente. Possono fare una vita normale. Hanno pure la fidanzata!

Com'era inevitabile, in un paese socialmente abbruttito qual è oggi l'Italia, all'indomani del pestaggio si è subito parlato di fascismo, di clima di intolleranza promosso dalla politica, di tecniche d'attacco sistematicamente praticate in palestra, di assenza delle istituzioni. Non uno che abbia concentrato l'attenzione sulla famiglia, intesa come luogo di formazione, come il posto dove, per la prima volta, come ho accennato poco fa, viene insegnata ai piccoli la fondamentale differenza tra bene e male. 'Fanculo alla retorica: che razza di famiglia sia, quella di questi fratelli picchiatori, lo possiamo facilmente immaginare senza nemmeno l'aiuto della folla di psicologi, psicoterapeuti, criminologi e filosofi che ormai popola ogni talk show, dispensando consigli per ogni ambito dello scibile umano. Dal melo fiorisce la mela, e dal banano la banano. Di meli che producono banane non se ne ha notizia. Questi due fratelli sono così perché così sono stati cresciuti, perché sono il frutto biologicamente determinato dell'albero che li ha fatti germogliare. Papà e mamma stavano bene così, senza porsi troppe domande. Sopra le regole, si vive senza preoccupazioni. E allora 'avanti!', ché la vita te ne da già tante di suo, senza che noi se ne debba cercare altre. È il familismo italico. Un male antico e non ancora estirpato. Altro che Covid19! Una giustizia efficiente confischerebbe seduta stante tutti i beni di una simile famiglia, donandone i proventi a quella della vittima.

Ma, nel paese del family day, è molto più facile – e conveniente – dare la colpa a Benito Mussolini.