mercoledì 26 giugno 2019

RIO GRANDE. Un fiume. Un padre. Una figlia.


Sebbene molti, persino tra i frequentatori di questo blog, si dicano sconcertati di ciò, va da sé che, tra i ruoli che ho scelto di assumere nella vita, da sette anni vi è quello di genitore. Nello specifico, sono padre di una bambina.
Pertanto, a menti ben arredate, non dovrebbe risultare difficile intuire come io mi sia sentito quest'oggi al vedere la foto d'apertura del sito di quell'ultimo barlume di grande giornalismo targato Inghilterra che è The Guardian.
È un periodo, questo, nel quale, proprio nella veste di genitore, ho dovuto rapportarmi con frequenza via via crescente alle tante piccole e grandi meschinità del quotidiano. Scuola, lavoro, amicizie, conoscenze, parentele. Bassezze spesso dettate da una assoluta vacuità personale, e messe in campo proprio a compensare quell'assenza di talento, qualità, competenze e sensibilità che dovrebbero invece essere i tratti distintivi, unici, di ognuno. Uno spreco di tempo ed una dimostrazione di arroganza che maggiormente avvalorano le disincantate parole che Paolo Sorrentino ed Umberto Contarello fanno pronunciare al protagonista de La Grande Bellezza: “Stefania, madre e donna, hai cinquantatré anni e una vita devastata, come tutti noi. Allora invece di farci la morale, di guardarci con antipatia, dovresti guardarci con affetto. Siamo tutti sull'orlo della disperazione, e abbiamo un unico rimedio: farci compagnia e prenderci un po' in giro.”. E difatti, in un paese di stronzi quale è divenuto irrimediabilmente il nostro, il film non ha goduto di consenso popolare proporzionato al suo riconoscimento in campo internazionale.
E così mi ritrovo a guardare la foto di padre e figlia annegati nel Rio Grande non solo nella certezza, sconcertante, che l'inaccettabile è solo un episodio debitamente rubricato e documentato di una delle tante tragedie umanitarie in corso sul pianeta, ma anche che le domande ultime sul senso dell'esistenza poste da questo scatto – domande che dovrebbero sorgere spontanee e costituire l'essenza di ogni discorso tra genitori davvero impegnati nell'educazione sentimentale dei propri piccoli – verranno affrontate in una solitudine priva di conforto e di consolazione.
Non credo si possa davvero contemplare una simile raffigurazione della sofferenza umana ed uscirne puliti, come nulla fosse.
Questa sera, per combattere la calura, ho portato mia figlia a fare un giro lungo la costa del lago, quindi ad una mostra di pittura ed infine ad un aperitivo. Siamo stati insieme. Come una famiglia si pensa debba essere. Io, lei e la mamma. Felici. Al punto che le dimostrazioni d'affetto, da parte sua, in questo breve arco di tempo, sono state molteplici e gratificanti.
Poi il caldo ha cominciato a mostrare i suoi effetti sul mio corpo, complice l'alcol, aumentandone la sudorazione e macchiando, di conseguenza, volgarmente la maglietta che avevo indosso.
In quel preciso istante ho pensato a come starebbe, mia figlia, se, nel tentativo disperato di salvarne la vita, tentassi di infilarla in quello stesso indumento, similmente a quanto fatto dall'uomo della foto in un ultimo gesto di amore disperato. Sentirebbe, per cominciare, l'odore acre tipico del corpo sudato quando vi si viene a contatto. Il temporaneo disgusto verrebbe quindi cacciato dal senso di soffocamento, inevitabile per chiunque decida di abitare in coppia un capo d'abbigliamento cucito per un singolo. Infine la sensazione di soffocamento da contatto lascierebbe il posto a quella da immersione, appresa per gioco durante le giornate in piscina, con lei sulle mie spalle. Quindi toccherebbe a me avvertire gli spasmi incontrollati del corpo che annega. Il corpo di mia figlia.
Ho nuotato sufficientemente a lungo, nella mia vita, per sapere che è esattamente così che va, in acqua.
Quel che non so – e che mi auguro la vita voglia tenermi nascosto – è se io sia capace, nella difficoltà, nella disperazione più grande e profonda, il vero banco di prova dell'essere umano, di un simile gesto, di tanto sacrificio.
Il padre di questa piccola guatemalteca lo è stato. Il braccino, che neanche la più tragica delle fini ha saputo togliere dal collo del suo papà, lo testimonia. Come il padre di The Road, di Cormac McCarthy, questo uomo ha tenuto vivo il fuoco della speranza fino dove gli è stato possibile. In un mondo popolato sempre più da padri inadeguati o negligenti, non è poco.
E nonostante questa grande differenza, oggi lo sento molto più fratello di tante altre persone a me più vicine.

sabato 15 giugno 2019

ATARI TEENAGE RIOT (LIVE). Arluno (MI), 9/6/2019.

Certo: io continuo ad avere le mie idee, a riguardo dei concerti rock e pop (giusto per individuare facilmente due categorie nettamente opposte al mondo della musica classica), ed una scarsa propensione a metterle in discussione.
 
Sarà pertanto utile, vista la premessa, rifarci ad una fonte terza ed estremamente attendibile, sulla quale, si spera, le pregiudiziali concordino positivamente. Dice, il vocabolario Treccani, alla voce evento: “Avvenimento, caso, fatto che è avvenuto o che potrà avvenire.”. Ed è proprio sulla connotazione casuale dell'evento che vorrei incentrare questa breve riflessione.
Prestate attenzione: ormai da tempo immemore vengono definiti eventi concerti che di ignoto – di affidato al caso, cioè – non hanno nulla, essendone risaputo ogni dettaglio, vezzo e tempistica. Molto spesso si configurano persino come riti stagionali od annuali, similmente ad una festa nazionale o religiosa.
Non c'è quindi dubbio che, quello di Arluno, piccolo comune alle porte di Milano, sia stato un vero e proprio evento (quanto meno per i miei standards): vuoi per l'assoluta non-conformità della proposta vuoi per l'incognita meteo (la minaccia di precipitazioni forti ha tenuto il concerto in forse fino all'ultimo). Senza poi dimenticare quanto il tempo influenzi il contributo di coloro che, all'insegna del vado-non-vado, cioè della massima indecisione, si presentano con il fare di chi, scettico, assiste alla messa per mera curiosità (non dimentichiamo che la resa di un concerto, di ogni concerto che voglia dirsi tale, dipende sempre dal fattore relazionale artista-pubblico).
Introdotti – si fa per dire – da un trio di metallari scassati alla Mötorhead la cui performance ha sortito il solo effetto di raddoppiare la vendita delle salamelle allo stand gastronomico della manifestazione, i nostri si sono presentati ad un'ora nella quale, normalmente, il vostro umile estensore già sta dormendo con i vestiti di casa indosso, e quindi la reattività risulta azzerata.
A risvegliarlo ci hanno pensato i cinque minuti di rumore a volume crescente (fade-in) a introduzione del concerto, somministrati al fine di saturare l'udito prima dell'esplosione ultra-digital, protratta per l'intera serata.
Era da tempo che non assistevo ad una performance così vitale, energica, fuori dai canoni odierni e davvero a tutto volume. Atari Teenage Riot, compagine tedesca definita da Trent Reznor come una delle sue principali fonti d'ispirazione, offre, dal vivo, la messa in scena più situazionista dell'attuale panorama musicale, dove istanze politiche tendenzialmente anarcoidi, elaborazione del suono, eclettismo stilistico, attitudine rock 'n roll ed una buona dose di nevrosi confluiscono in una miscela detonante ad altissimo potenziale adrenalinico. L'equivalente di un'onda d'urto da fissione nucleare. Il suono, potentissimo e mai distorto per l'intera durata dell'esibizione, di gran lunga superiore a quello offerto dai lucrosissimi ingressi di nomi ben più noti, sposato a luci minimali e ad un impianto visivo di immagini astratte e glitch, ha non poco contribuito alla resa del concerto: un'ora e mezza abbondante di miscela techno, trance, hardcore, inserti dance e industrial a fare da sfondo agli slogans genuinamente no-global e black-block delle voci (mai termine fu più appropriato) di Alec Empire e Nic Endo, e ai missaggi folli di un DJ non meglio definito che potrebbe benissimo dare ripetizioni a David Guetta già questo pomeriggio).
Ad occupare la scaletta, quasi tutti brani tratti dagli ultimi due lavori del trio, Is This Hyperreal? e Reset, dischi che, pur non situandosi alle vette dell'ormai ventenne 60-second Wipeout (forse il capolavoro del gruppo), ugualmente danno prova di una spinta creativa ancora genuinamente energica, giovanile, cosciente dei temi di vera rilevanza di questi nostri giorni, con un fare sovente canzonatorio dove l'imminenza di una potenziale minaccia per la società tutta è resa con ritmi da discoteca delle Baleari.
Si può ben dire che, quella di Atari Teenage Riot, è canzone di protesta (sì, avete capito bene: alla Bob Dylan, per intenderci), ma con il deejay-set al posto della fottuta chitarra con armonica.
Insomma: a 49 anni (!), come un verginello, ho assistito al mio primo concerto senza, finalmente, l'ombra di una ballad, senza strumenti tradizionali e senza pagare l'ingresso (l'evento era gratutito).
Sono tornato a casa sudato e galvanizzato come nemmeno in adolescenza.
Yeah.

sabato 6 aprile 2019

VITE AL LIMITE. L'incredibile storia dei Mötley Crüe.


A quattordici anni sono stato un fan dei Mötley Crüe. Per impeto giovanile, disallineamento con la moda in auge e ribellione ai valori di famiglia – momenti, questi, che, in giovani psicologicamente sani, sovente corrispondono alla piena adolescenza. E perché, per dirla con le parole di Nikki Sixx, bassista e fondatore del gruppo, davvero, al di là della vulgata ufficiale, gli anni '80 furono “il peggior cazzo di decennio nella storia dell'uomo.”.
O, quanto meno, così lo percepivamo noi misfits.

Con il senno di poi, possiamo tranquillamente dire che non si trattò di una svista.
Mi pare iniziò tutto con il videoclip di Home Sweet Home, trasmesso con puntualità sconcertante (era il periodo dei 'Duran' e degli 'Spandau') dalle emittenti del Silvio Berlusconi, e dalla mai sufficientemente compianta Music Television. Un videoclip bruttino, fortemente autocelebrativo, pieno, però, di quegli elementi persuasivi (l'abusata triade sesso-droga-rock 'n roll) finalizzati a dimostrare come ancora si potesse ottenere 'successo' (parola chiave per correttamente leggere la vicenda artistica dei Crüe) pur non aderendo alla moda corrente.
Personalmente non potevo, al tempo, chiedere di meglio. Per quanto stupida possa sembrare una simile affermazione, finalmente mi sentivo rappresentato.
Da chi e cosa, infine, lo compresi solo in età adulta.
I Mötley Crüe non furono esattamente una band. Furono piuttosto una gang. I suoi componenti avevano in comune, prima ancora della passione per il rock 'n roll, trascorsi di abbandono, negazione, violenza, disadattamento e vagabondaggio. Spiegano la magnetica, invincibile attrazione di alcuni di loro, il cantante Vince Neil ed il bassista Nikki Sixx, per condotte di tipo criminale, tossico-dipendente e financo maniaco-sessuale, determinanti nella creazione della leggenda che ancora oggi avvolge il nome del gruppo. È alquanto probabile che, senza il successo arriso loro anche a fronte di detti eccessi, i quattro rockers avrebbero affrontato un percorso di vita più simile a quello rieducativo che di tipo artistico. La band fu quindi un modo per fuggire ad un destino che sembrava già segnato, ma che ugualmente li perseguitò per gran parte della carriera, portandoli in alcuni casi al limite con l'autodistruzione. Aprì loro un decennio di eccessi - e successi - smodati che qualunque manager di oggi non saprebbe né vorrebbe tollerare: furono gli epigoni dello stile di vita rock 'n roll.   Di levatura musicale mediocre, hanno prodotto una decina di dischi in quattro decenni scarsi di attività - incisioni stilisticamente stereotipate, caratterizzate da un buon suono e da testi improntati ad un edonismo perfettamente in linea con la condotta di vita dei suoi componenti.
La biografia dei Crüe, qui malamente riassunta, è invece rapidamente ed assai meglio raccontata nella recente produzione Netflix The Dirt, tratta dal libro omonimo del 2001. Un lungometraggio con il quale, ancora una volta, la piattaforma statunitense riesce a fornire al pubblico pagante una visione godibile (a patto di essere disponibili alla scandalo), una narrazione efficace e persuasiva pur non toccando vette di assoluta eccellenza; capace di raccontare un'era, una tendenza, un caso commerciale ed umano, senza per questo scadere nella pesantezza tipica di chi, come il sottoscritto, sebbene indirettamente, quelle vicende ha vissuto da imberbe.
In una scelta stilistica assai condivisibile, The Dirt impiega – o sarebbe meglio dire 'dispiega' – quasi per intero il bagaglio tecnico comune ad ogni regista in attività, conseguendo in tal modo il risultato di raccontare in maniera lineare e mai noiosa un intero decennio di eccessi reiterati i quali, se esposti nella forma della serie televisiva, avrebbero certo indotto lo spettatore allo zapping dopo la seconda puntata.
A differenza della maggior parte della recente, industriale realizzazione di film insulsi dedicati a musicisti di successo (biopics), The Dirt ha il pregio di non celebrare gli eccessi dei suoi protagonisti omettendone furbescamente il lato oscuro – nonostante i Mötley Crüe abbiano contribuito, si pensa anche onerosamente, alla sua produzione (e questo valga come giudizio al contrario per Bohemian Rhapsody, pellicola che solo poteva risultare accattivante a coloro che con la musica hanno un rapporto, per così dire, conflittuale). Il punto di vista prevalente è senza dubbio quello di Sixx: le introspezioni e gli approfondimenti narrativi – scarni e rapidi entrambi – interessano esclusivamente la sua vicenda personale. Ugualmente è fatto protagonista di una sequenza – l'assunzione di eroina a breve distanza dall'overdose – che non lo configura esattamente come la prossima star di Hollywood, ma che, collegata a quella del cambio di nome all'ufficio anagrafe e, ancor prima, a quella di autolesionismo in tenera età, ne fa una figura disperata e fragile con la quale lo spettatore può empatizzare senza alcun imbarazzo. Il tutto senza rinunciare a momenti di grande commozione, distanti anni-luce da qualsivoglia stile di vita rock 'n roll, come l'intimo ed ultimo sguardo tra Vince e la piccola Skylar nella stanza d'ospedale dove quest'ultima troverà la morte.
The Dirt dimostra due teorie. La prima è che qualunque storia può essere raccontata (si veda, per restare in ambito musicale, Lords Of Chaos di Jonas Åkerlund), a patto di crederci, essere capaci di fornirne una visione e – va da sé - saperla scrivere. La seconda che ancora, in Italia, la censura è in atto, non più a livello contenutistico, bensì artistico-direttoriale. Le nostre produzioni sono soggette al tabù – politicamente imposto od assecondato - del tema inenarrabile (quale sarebbe certamente considerato quello di The Dirt, qualora si trovasse nella penisola un solo direttore artistico in grado di proporlo). E non fanno eccezione le belle realizzazioni di Romanzo Criminale, Gomorra e Suburra le quali, nonostante l'ottima fattura, confermano che nel Bel Paese si può parlare, al massimo, di temi legati alle cronache interne, nell'assoluto silenzio riguardo a molti altri argomenti ed altrettanti punti di vista.
In parole povere: ristrettezza di vedute ed assoluta mancanza d'interesse per l'altro-da-sé.
Per tutto ciò che è diverso.
Attuale - no?

lunedì 11 marzo 2019

HOT FOR TEACHER 2. Vittorio Feltri e l'etica (mancante) della responsabilità.

Vediamo di capirci, senza grandi giri di parole.

Per Vittorio Feltri, giornalista e direttore di Libero, se un'insegnante da alla luce un figlio il cui concepimento ha avuto luogo in sede di ripetizioni con l'allievo tredicenne (è accaduto in quel di Prato), quest'ultimo, semplicemente, si è fatto una sana scopata, né più né meno, e può ringraziare il cielo per lo straordinario anticipo con cui ha avuto accesso alle gioie terrene rispetto alla media dei coetanei. Questo quanto scritto, in soldoni, nel suo editoriale della domenica.

Punto.

Pier Paolo Pasolini, che nella sua opera di poeta, scrittore, saggista, regista cinematografico e teatrale si confrontò spesso con il tema dello scandalo, visto sia come fenomeno sensibile che come oggetto di analisi, sosteneva che 'moralista' è colui che rifiuta non solo lo scandalo, ma anche, e soprattutto, il farsi scandalizzare, l'accettare di farsi scandalizzare.

Pertanto, in omaggio alla lezione pasoliniana, considerando me stesso come persona aperta allo scandalo, mi asterrò da un giudizio morale sull'uomo e sul professionista Feltri: se sono queste le fantasie che gli permettono di vivere l'esistenza come dotata di senso e foriera di gratificazioni, ben venga. La scelta e e ciò che ne consegue, umanamente e penalmente, sono affar suo e solo suo.

Dal punto di vista etico, invece, qualche giudizio va emesso.

Il nostro paese, è utile ricordarlo, è quello dove orge di lusso in stile Eyes Wide Shut hanno avuto luogo a livello governativo - e, più in generale, di potere - con una tracotanza ed una  reiterazione tali da portarne le gesta in sede giudiziaria (il processo Bunga-bunga) con le conseguenze che sappiamo (a meno che non si legga Libero o Il Giornale). (Avendo appena citato Pasolini, è anche utile ricordare come egli avesse profeticamente previsto ed analizzato nelle sue nefande conseguenze proprio questo tipo di degrado etico del potere e dei suoi rappresentanti, nel film Salò O Le 120 Giornate di Sodoma, del 1975.). Pertanto, un così ampio spostamento del confine del lecito da parte della categoria che, piaccia o no, è ancora, per tradizione, quella da cui deve venire l'esempio, ha comportato tutta una serie di assestamenti nel campo dei costumi civili e politici che l'editoriale di Feltri, debitamente intitolato 'Una prof ha un figlio dall'allievo 14enne. Scandalo? Non direi.', ben rappresenta.

Prova di questo nuovo assetto etico, la candida lettura fattane stamane (10 marzo), durante la rassegna-stampa, da Angela Mauro dell'Huffington Post nostrano: senza, cioè, fare la benché minima piega. Come leggendo un pezzo sulla Festa dell'Unità o sull'Isola dei Famosi. E, quando richiamata ai propri doveri etici da un radioascoltatore disgustato, intervenuto telefonicamente, con l'aggiunta: "Caro signore: siamo in democrazia.". Capite? Capite quale pasta umana l'Ordine dei giornalisti ritiene adeguato al ruolo? Quale sia il concetto di democrazia che abita la testa di una professionista regolarmente iscritta all'albo?

Nell'editoriale in questione, Feltri ha sparato ad alzo-zero. Oltre alla conclusione riportata in apertura di questo scritto, il direttore di Libero sostiene che, se proprio si vuole contestare la condotta della frizzante insegnante, le si dovrebbe imputare la mancata assunzione di un'anticoncezionale che avrebbe di certo evitato la seccatura del riconoscimento e del conseguente mantenimento del piccolo. Per il resto, non ha ucciso nessuno, dice il nostro (ed anche qui va sottolineato lo sconcertante silenzio di Mauro, sebbene la versione di Feltri sia palesemente sessista e pure a ridosso della giornata della donna). Non è, questo, un perfetto esempio di irresponsabilità?

Mi è venuto subito da pensare che con un articolo così, nel North Carolina, per dirne una, quasi sicuramente finisci in galera. Ma questa è solo una considerazione marginale. Da noi non solo non ci finisci, in galera, ma è anche probabile ti venga tributato un bell'applauso. Questa sì è la vera conseguenza di vent'anni di berlusconismo: la quasi totale corruzione dei costumi che ha interessato la nostra società nella sua interezza, dalla politica all'informazione, dai cosiddetti opinionisti alla pubblica opinione.

"Lascereste mai vostra figlia di quattro anni con quest'uomo?", ironizzava Charles Bukowski, quasi certamente riferendosi a se stesso.

No. Non la lasceremmo, caro vecchio Hank.

Come non lasceremmo una qualsiasi testata giornalistica in mano ad uno come Feltri.

Ma quella era la California. Questa la Padania.

In conclusione: se leggi Libero e ti ci riconosci, te lo meriti.

sabato 2 marzo 2019

COMBATTERE LA CHIACCHIERA. Una serata con Alessandro M. Carnelli.

È da tempo che avverto in me il disagio, l'apatia e l'insoddisfazione determinati da quest'epoca di chiacchiera imperante ad ogni livello.

Si ha davvero l'impressione, ascoltando le persone negli immancabili sermoni quotidiani, che la chiacchiera da Bar Mario, sdoganata nel bel paese quasi trent'anni fa dall'omonima canzone di Ligabue, sia ormai divenuta un vero e proprio codice di riconoscimento, similmente ai cori da stadio dei tifosi del calcio o alla danza maori dei rugbisti neozelandesi, per una categoria umana - i cosiddetti tuttologi - vasta come un'area di consenso maggioritario. E il bar il contesto naturale, l'habitat - dove detto codice si imprime e sviluppa, odierna e depauperata versione del caffè letterario.

Vi chiederete - si spera - perché qusto riferimento, alto, al caffè letterario: perché Alessandro Maria Carnelli, amico, direttore d'orchestra, musicologo e conferenziere del quale ho già avuto modo di scrivere in un precedente post, è esattamente il tipo di persona che avreste potuto incontrarvi all'interno, se solo il suo concepimento fosse avvenuto con anticipo di un secolo. Colto, appassionato, realista, attento alle avanguardie, e dotato di un senso dell'umorismo pronto e tagliente a protezione dagli incanti dei falsi profeti.

Pagato pegno all'italica pratica dell'inchino (che si spera possa tradursi in inviti a gratuitamente imbucarsi alle prossime stagioni sinfoniche che lo vedranno sul podio), quella di ieri sera con Alessandro Carnelli, la conferenza dal titolo 'Notte Trasfigurata: donna e società nella musica e nella cultura della mitteleuropa di primo '900. Conversazione con Alessandro Maria Carnelli', è stata l'equivalente di una vera e propria gita in montagna, dove gli intervenuti hanno potuto respirare a pieni polmoni, per un'ora e mezza abbondante, l'aria purissima di chi parla non per chissà quale imposizione, bensì per naturale vocazione: per scelta, competenza ed inossidabile cognizione di causa. Esattamente i tratti che molte (troppe) istituzioni, culturali e non, non riescono più a garantire.

Voluta dalla Consulta Femminile di Arona (alla quale va, come minimo, il plauso per il coraggio ed il gusto della scelta) in vista dell'8 marzo, la serata si è articolata in una esposizione a braccio inframmezzata dall'analisi di esempi dell'iconografia dell'epoca in analisi, e dagli ascolti - meravigliosi - da Tristano e Isotta di Richard Wagner e Notte Trasfigurata di Arnold Schönberg, interrotti con enorme sofferenza dal Maestro per questioni di tempo - argomenti, tutti,  pescati a piene mani dal lavoro che, lungo questi ultimi anni, Alessandro Carnelli ha svolto sul tema, sfociato nel notevole ed apprezzato saggio 'Il labirinto e l'intrico dei viottoli: Verklärte Nacht, di Arnold Schönberg', e nel disco Towards Verklärte Nacht, registrazione di rara coerenza programmatica e particolare bellezza.

Alessandro Carnelli ha affrontato un argomento che nell'italietta 2019 può serenamente dirsi impopolare e difficile. Lo ha fatto con chiarezza espositiva, senza inciampi, con la propria personale volontà (da grande divulgatore) a mettersi sul piano degli intervenuti, così catturando l'attenzione anche dei più malmessi (io: ero morto di sonno).

Sui contenuti dell'esposizione non mi esprimerò, pena il rovinare il bel lavoro fatto dal Maestro: rimando tutti di cuore alla lettura del libro e all'ascolto della registrazione che non solo possono arricchire chiunque vi si accosti con un minimo di disposizione ad apprendere e doverosa umiltà, ma anche costituire un ottima idea per un regalo speciale, diverso, da darsi, possibilmente, a soggetti meritevoli di cotanta cura e raffinatezza.

Sulle conclusioni, invece, dirò, per trasparenza, a cosa sono giunto, visto che da un incontro di questo tipo si spera di tornare a casa almeno un po' scossi nelle proprie personali certezze.

Si fa un gran parlare, a livello politico, di quote rosa (termine villano e fuorviante) come fosse una scoperta scientifica di lor signori, bellamente ignorando come la grande cultura mitteleuropea della Vienna di fine secolo, per mezzo dei suoi migliori esponenti, avesse già inquadrato il problema esattamente negli stessi termini con cui si pone oggi a noi moderni - che  con la definizione 'quote rosa' cerchiamo appunto di rivendicarne la paternità e financo la ricerca di una soluzione (!), in una sorta di buio anno zero, incapaci di riconoscere che senza una svolta genuinamente culturale questo paese, al massimo, passerà dalle quote rosa a quelle nere, nere come le camice che già marciarono per le strade della civilissima Europa quasi un secolo fa e che oggi si tingono magari di altri colori, ma che sotto sempre nere rimangono.

La conversazione con Alessandro Carnelli mi ha ricordato due esempi che vado subito a riportare - e che spero non urtino la sensibilità del Maestro, quando si vedrà ad essi accostato senza previa autorizzazione.

Il primo è Aldo Carotenuto, defunto docente di Psicologia presso La Sapienza di Roma, quando sosteneva: "Per qualunque disciplina, nel momento in cui esponiamo un problema, per quanto complesso e oscura possa essere, se veramente ne abbiamo compreso il nucleo la relativa descrizione sarà necessariamente chiara ed esauriente.".

Il secondo è la figura del professore descritta da Massimo Recalcati ne L'Ora di Lezione. "L'insegnamento non dipende da una retorica o, come si dice oggi, da una capacità o da una tecnica di comunicazione, ma dal carisma di chi parla, ovvero da come sa rendere vivi, far vibrare gli enunciati che trasmette. Dipende dalla forza enigmatica della sua enunciazione.".

Ieri sera ho pensato che sarebbe stato bello, se avessi avuto, da studente ignorante quale sono stato, un insegnante così.

Poi, però, mi è tornata alla mente anche una frase che lo stesso Maestro riportò nel mentre io e lui si parlava seduti su una panchina, mesi fa. Mi diceva del giudizio lapidario che un commerciante della città (Arona) aveva espresso in sua presenza riguardo l'impatto sulla cittadinanza di alcune recenti iniziative culturali: "Certo che questi eventi, di lavoro, non ne portano.".

Ecco. In un'Italia culturalmente siffatta, che legge Fabrizio Corona ed è incapace di concepire la cultura svincolata da un bilancio di esercizio, serate come quella di ieri hanno l'efficacia di un vaccino esavalente.

Buon lavoro, Maestro. E grazie.

domenica 25 novembre 2018

L'UOMO SENZA INCONSCIO. Rocco Siffredi e la sconcertante replica a Mario Adinolfi.


Un conoscente, incontratomi per caso, ha insistito affinché gli concedessi di mostrarmi un documento audiovisivo dai contenuti ritenuti - sembra di capire - di assoluta rilevanza critica.
Siccome mi interessa vedere fin dove si può arrivare quanto a vacuità, e dato il mio constante risultare, in questi frangenti, un inguaribile pusillanime, ho acconsentito alla richiesta.
Si trattava del recente scontro a distanza, avvenuto sulle frequenze dell'emittente radiofonica Radio24, tra Mario Adinolfi, esponente dell'imbarazzante partito politico Il Popolo Della Famiglia, e Rocco Siffredi, pornostar da tempo ufficialmente sdoganata dalla televisione pubblica e privata – che in Italia sono la stessa cosa –, in preparazione del grande passo storico del pornazzo in prima serata.
Sembra dunque che il primo (Adinolfi) abbia proposto, coerentemente con la propria posizione e ruolo politici, l'esilio forzato, il bando, del secondo (Siffredi), ritenuto (il secondo) moralmente riprovevole (dal primo), corruttore dei santi precetti per la costituzione e la conduzione di una famiglia che voglia dirsi (per il primo) degna di questo nome.
E la risposta di Siffredi a tale, becera provocazione non si è fatta attendere. Con un messaggio vocale inviato alla trasmissione La Zanzara, condotta dagli amabili furbacchioni Giuseppe Cruciani e David Parenzo, il pornoattore marchigiano ha difeso, con stile a dir poco personalissimo, le proprie posizioni.
Dopo infatti averlo ingiuriato per interposta persona (“... mi dicono: 'Rocco: ma rispondi a 'sto stronzo'), scoperto il ruolo politico di Adinolfi, Siffredi si è lanciato in una difesa a spada tratta della propria famiglia (“... fantastica, bellissima, ragazzi stupendi, tutti e due laureati.”) che avrebbe suscitato imbarazzo persino nel meridione degli anni '70. Corregge subito il tiro, tradendo una certa delusione nei confronti degli 'stupendi ragazzi' (“... nessuno dei due vuol fare il pornostar [sic], non so il perché.”), per poi scivolare allegramente in un lapsus sulla cui interpretazione si preferisce sorvolare (“... qui non hanno ripreso [sic] da me.”).
In un'ottica da Orsolina, la polemica poteva tranquillamente chiudersi qui. Invece è proprio a questo punto che a Siffredi scende la catena, come si suol dire, e l'autodifesa finisce con lo sconfinare pesantemente nel penale. Insinua che i travagliati trascorsi coniugali di Adinolfi siano da attribuirsi ad omosessualità repressa, e lo dice inciampando in un congiuntivo con il quale sembra non avere un rapporto facile (“... penso che Lei, nel Suo inconscio... sogni che io... ti incula [sic].”). Perso definitivamente il controllo, allora, il Rocco nazionale passa prima al 'tu' (“Sono convinto che tu vuoi essere inculato da me.”) e quindi alla stoccata finale (“... se mi piace il tuo culo, ti inculo. No problem.”).
Voglio sperare, a questo punto, che tra i lettori di questo disperato blog ve ne siano alcuni pienamente consapevoli delle assai dolorose conseguenze di natura correttivo-carceraria che, in alcuni luoghi del mondo, seguirebbero per direttissima a parole come queste.
Riassumiamo. Abbiamo una star del porno la quale, sebbene da anni risieda all'estero, combatte come un Savoia contro un improbabile esilio. Difende strenuamente la propria famiglia, trascurando però del tutto di citare la consorte, per concentrarsi esclusivamente sui due figli maschi. Considera il conseguimento della laurea da parte di questi un traguardo di cui andare orgoglioso, ma si dice stupito del totale disinteresse degli stessi per l'arte (!) paterna. Da prova di considerare l'omosessualità altrui con il massimo discredito, mentre per la sodomia praticata a fini risolutivi, come egli propone per il contenzioso con Adinolfi, sembra riservare una connotazione virile unita un certo tasso di sadico piacere – dovuto, quest'ultimo, all'umiliazione inflitta alla vittima dalla resa pubblica (radiofonica nello specifico) della minaccia.
Insomma, impiegato nella pornografia cinematografica da decenni, Siffredi sembra del tutto ignorare, quantomeno quando provocato sul piano personale, i comportamenti sociocriminali che la diffusione planetaria di quel materiale, da egli copiosamente prodotto, improntato ed interpretato, ha causato: mi riferisco al sexting, e più in generale all'odierna, concreta possibilità, da parte di qualsivoglia soggetto, di manipolare a fini ricattatori o squalificanti immagini di un privato dove, va da sé, ancora è possibile fare della propria persona ciò che si vuole. Esattamente il comportamento da egli tenuto nei confronti di Adinolfi. Ad occhi distaccati, Siffredi sembra proprio aderire al profilo di uomo senza inconscio teorizzato da Massimo Recalcati nel libro omonimo: completamente slatentizzato e pertanto sprovvisto di una sede psichica capace di accogliere gli aspetti oscuri della personalità. In parole povere, incapace a mentire. Condannato alla verità.
Siffredi si batte contro l'aggregato di stampo tradizionale proposto da Adinolfi e dagli altri fenomenali sostenitori del family day, ma ciò che in realtà sogna – e predica - è proprio una bella famiglia stile Mulino Bianco: esaltazione del fallo paterno, orgoglio smisurato per i figli maschi, ostentazione della consorte, incarnazione della propria persona nel modello comportamentale e professionale da imporre alla prole.
Vuoi vedere che la minacciata sodomizzazione di Adinolfi è in realtà l'ennesimo pensiero volato libero dalla testa di Siffredi?


domenica 4 novembre 2018

PRIMA DI EIACULARE ('BEFORE YOU COME'). I giovani italiani e l'Inglese.


Un'attenta classe di scuola superiore.
Due anni fa circa, una conoscente ha lasciato il cosiddetto 'posto fisso' per una carriera nell'insegnamento, avendo regolarmente passato il concorso per l'inserimento in ruolo. Materia: Inglese. Assegnazione: scuola superiore (istituto per geometri ed agrario).

La rivedo e subito chiedo come va, a scuola. Risponde di sentirsi molto giù, molto abbacchiata. Da diverso tempo ha la netta 'impressione di trovarsi di fronte a giovani che, per l'Inglese, non hanno interesse alcuno. Dice di passare quasi interamente il tempo assegnatole a riportare ordine all'interno di classi ingestibili. Ed ingestibili principalmente per il suo rappresentare una materia per la quale non è avvertito alcun tipo di trasporto.
Quindi anche la preparazione meticolosa delle lezioni, spesso effettuata a casa ed a scapito della famiglia (è coniugata e madre di due), si riduce ad un'ulteriore mortificazione intellettuale.
Condizione che non fa bene né a chi la subisce (il singolo docente) né a chi vi contribuisce direttamente (gli alunni) o indirettamente (la direzione scolastica): nulla è infatti più devastante per la scuola e per i suoi fruitori di un corpo docente umiliato nelle intenzioni.
Il marito, persona arguta e dai modi spicci che spesso mi fa dono di spunti ed osservazioni di notevole rilevanza, commenta anch'egli sconsolato. “Questi giovani del cazzo, proprio non li capisco. Mi chiedo cos'abbiano nella testa. Come è possibile, a diciotto anni, non capire che senza l'Inglese, oggi, sei un semianalfabeta anche se poi consegui una laurea? È come pretendere di praticare uno sport a livello agonistico disdegnando però la corsa. 'Sai, io non corro. Della corsa non me ne frega niente. Mi interessa solo giocare.' Nell'inconscio di questi ragazzi c'è Diego Armando Maradona, e non Samantha Cristoforetti. E se pensi così, sei un fallito. Sei un fallito già a diciotto anni.”
Ha ragione.
Devo a questo punto dichiarare, non senza imbarazzi, che, da tempo immemore, sono considerato alla quasi unanimità un ottimo parlante Inglese, sia per ciò che riguarda la forma sia per la pronuncia. Ad onore del vero va aggiunto che, in un paese che con l'Inglese ha non pochi problemi, godere di una simile considerazione non fa curriculum. Ma tant'è. In verità, a me sembra anzitutto di avere avuto la fortuna di una seconda lingua che amo, la cui imposizione è stata, quindi, sempre vissuta con gioia. E poi quella dell'avere sempre nutrito degli interessi per materie e discipline che nel mondo anglofono hanno conosciuto eccellenze di prim'ordine. Sto parlando del cinema e della musica. Ma, da qui all'essere considerato un buon parlante, ne passa.
Detto ciò, il fatto che dei giovani mostrino, oltre ad una totale assenza di vergogna per i comportamenti messi in atto, un così manifesto disinteresse nei confronti di una materia che, almeno nelle loro vite, può fare la differenza, si iscrive, forse, all'interno di una problematica ben più vasta – e determinante – di quella del sapere: l'area del dsiderio.
È tempo che, personalmente, noto come i giovani, almeno nei miei confronti, risultino connotati da una totale assenza di manifestazione del desiderio. Sembrano davvero non desiderare nulla. Ma è chiaro che non è così, che non può essere così (a meno di tare mentali invalidanti). Ne ha parlato magistralmente Massimo Recalcati qualche settimana fa in un incontro dedicato proprio al desiderio. Ha molto a che vedere con il tipo di crescita vissuta, e quindi con l'apporto che in tal senso è stato fornito dai genitori. Mamma e papà ti hanno detto che, al mondo, conta solo una lingua e -guarda caso – è quella tua? Mi si lasci ricordare che anche il differenziarsi dal modello genitoriale può essere fatto oggetto di desiderio.
Qui non si tratta di stabilire il primato di una lingua – nel caso dell'Inglese già fortemente compromesso dagli attuali assetti geopolitici e dalla condotta morale delle nazioni che a tale primato hanno contribuito, e cioè Stati Uniti e Gran Bretagna. Si tratta di riconoscere, con opportunistica intelligenza, che l'Inglese è, e rimane ancora, la prima delle seconde lingue, quella obbligatoria. Quella dalla quale poi muovere verso un'esigenza linguistica più specifica, maggiormente legata alle proprie personali propensioni e competenze.
Non si spiega forse così lo sconcertante provincialismo dei giovani - per non parlare di quello del paese? Non comprendere, cioè, che esiste una conoscenza che esula dai confini nazionali nei quali si è stati catapultati a nascere, vivere od entrambe le cose? E che quindi è necessario un passe-partout in grado di consentire l'attraversamento quanto più agevole di detti confini, oltre i quali potrebbe trovarsi la vocazione di ognuno?
Suona come una patetica sferzata alla fuga dei cervelli, lo so. Ma lungi da me non solo il promuoverla: anche l'assumere il fenomeno ad esempio e soluzione. Resto convinto che i cervelli di questo paese non siano realmente in fuga, ma che risiedano, silenziosi, nei suoi confini, mortificati come la nostra insegnante d'Inglese, sostituiti politicamente, ai comandi, da intelligenze modestissime ed immeritevoli. Ugualmente, anche questo sommerso di intelligenza nostrana non può mostrarsi indifferente alla questione dell'Inglese, specie in un'ottica comunitaria linguisticamente composita come la nostra – e giusto per non allargare troppo il discorso.
Oggi ci vogliono più palle per rimanere che per andarsene.
Nessuna fottuta statistica potrà persuadermi del contrario.