giovedì 10 marzo 2016

Oscar Speech

Pubblichiamo, di seguito, la trascrizione del discorso tenuto il 28 febbraio scorso al Kodak Theatre di Los Angeles da Stefano Parenzan, in occasione della consegna dell'Oscar© come migliore produzione sotto i settecento dollari (Filthy Achievement Award) assegnato a La Lingua Come Diga Alla Merda, scritto diretto ed interpretato dallo stesso Parenzan. (Traduzione dall'Inglese di Olga Fernando).
Grazie. Grazie a tutti. Grazie di essere qui. Cosa devo dire. . .? È dura in questi momenti, sapete? Trovare le parole giuste, può essere l'impegno di una vita. Un grazie alla mia famiglia, quindi, a mia madre e mio padre: l'unica cosa che avete preso in affitto, è l'appartamento dove mi avete concepito. Sono fiero di voi. Grazie all'Altissimo; a Cassius Clay, Alda D'Eusanio, Concita De Gregorio, Ron Jeremy, il re della tisanoreica Gianluca Mech, DJ Francesco e i fratelli Savi: senza di voi non sarei qui. Fare film, di questi tempi, non è un'impresa facile. Si è soggetti ad attacchi e critiche di ogni genere. L'ansia sociale che ne consegue non sempre è contrastata con le necessarie forze - bruciate in tentativi spesso disperati di preservare l'integrità del proprio progetto dagli attacchi di quelle stesse persone che inizialmente lo hanno voluto con tanto fervore. Con 'La Lingua' ho voluto portare alla luce una questione dolorosa che, tra emergenze uterine ed umanitarie, sta silenziosamente travolgendo il mio paese: gli italiani sono sempre più illetterati. Lo dice l'OCSE; lo dice l'ISTAT e lo dice l'ISPES. Lo dice l'ITIS di Arona. Lo dico io – che faccio spesa ogni giorno. Ignorano la loro lingua, se ne disinteressano, la trattano con sufficienza [le telecamere inquadrano Dave Grohl, preda di uno sbadiglio]. Nonostante la diffusione dei correttori automatici ignorano ortografia e tipografia. Si atteggiano come se questa, la lingua, fosse un orpello del quale disporre in maniera sregolata [di nuovo Dave Grohl è inquadrato mentre ride con la moglie]. [pausa. si infervora] Scusate, ma se Leo [di Caprio, n.d.t.] può permettersi un discorso del cazzo come quello di poco fa. . . per il premio di una vita . . . [risate, fischi dal fondo] Questi sono il mio pensiero e la mia poetica, signori. Mi dispiace che alcune delle sensibilità presenti ne vengano urtate. Ad ogni modo. . . Gli italiani sembrano non prestare più cura al peso specifico della parola, scritta e parlata. Chi parla male, pensa male e vive male. Non ricordo più chi l'abbia detto. . . [dalla sala: “Jonh Wayne”. Risate] Oh, sì: the Duke [applauso. SP si allontana dal microfono e ride]. A tal proposito, vorrei citare un film che nella mia formazione umana e cinematografica è stato seminale. Sto parlando de Il Portaborse, di Daniele Luchetti. Lo vidi nel lontano 1991. Ero un giovane studente di conservatorio, ed il cinema già influenzava molto la mia vita, dai gusti narrativi ed estetici agli stili comportamentali. Ma soprattutto il potere della parola, fosse essa ben scritta o ben pronunciata; la potenza dei dialoghi; insomma: l'arte della sceneggiatura. Era questa che inconsciamente mi eccitava di più - l'occasione per godere di una comunicazione potente, diversa da quella duramente concreta ed insoddisfacente del quotidiano. Ricordo Nanni Moretti – il Botero del film di Luchetti – qualche anno prima, dire: “Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti”. Mi sembra il film fosse Palombella Rossa [guarda le prime file]. Forza, ragazzi: l'era McCarthy è passata da un pezzo [risate dal fondo]. Vabbeh. . . Sono certo che Daniele Luchetti avesse ben presente quelle parole quando fece il casting per il personaggio di Botero. E che questo abbia fatto da filo rosso – spinato – tra il personaggio del pallanuotista e quello del ministro. Ho sempre pensato che Il Portaborse, più che un lavoro centrato sulla piaga endemica della corruzione morale della politica italiana, fosse in realtà una denuncia sull'uso indecente e strumentale che della lingua si stava facendo in ambito politico. Quello fu il virus letale messo in circolo per mezzo di intellettuali professionalmente frustrati come il Sallusti del film. La ricerca di un linguaggio semplice, di cui egli viene incaricato, è in realtà un'opera di omissione. Il compito del professore non è quello di semplificare per includere, bensì semplificare per celare e distrarre. La pellicola fu premiata per la brillante sceneggiatura, e. . . [Leo Di Caprio e Kate Winslet sono inquadrati mentre lasciano il Kodak Theatre] Vedo che più si parla e più si è fraintesi. Lo diceva il grande Montanelli. . . [silenzio perplesso in sala] Mi sembra di capire che non sappiate chi è. E dire che il New York Times lo voleva in redazione. Vabbeh. [applausi] Ehi, abbiamo italo-americani in sala. [risate, guarda Morricone] Sono la nostra salvezza – vero, Ennio? [risate ed applausi] Per concludere. Sono stato attaccato da alcuni critici che hanno ritenuto la mia opera non all'altezza del film di Luchetti – dal quale, secondo loro, dovrei prendere spunto. Mi si accusa di fare impiego di un linguaggio esclusivo, e persino di essere un violento. Si dicono certi che non riuscirò a modificare la mia cifra stilistica nel senso di una maggiore semplificazione. A costoro rispondo. . . [viene colto da malore, si accascia ed è portato via dal palco]

Stefano Parenzan è stato trasportato d'urgenza al Pittsburgh General Hospital ed affidato alle cure del dottor Gregory House. Lo stesso House ha rilasciato una dichiarazione al riguardo: “Ha un ego smisurato. È questo il suo problema. Ma l'Inglese è davvero eccellente. Specie se si tiene conto che è italiano”.

venerdì 26 febbraio 2016

NO COMMENT! (The People vs. Me)

[…], in questa Nazione, non ti aggiungono centimetri al cazzo.
(The Departed, di Martin Scorsese)

Un uomo e una donna, dovrebbero raccontare di sé soltanto ciò che gli altri hanno diritto di sapere.
(Sergio Romano, Memorie di un Conservatore)

L'amico Alex B. - grazie di esistere, direbbe Eros -, ha colto nel segno anche questa volta: “Quello che mi colpisce del tuo blog è la quasi totale mancanza di commenti”. Touché.
L'osservazione è pertinente. Chi tiene un blog, lo fa essenzialmente per due motivi: la spesso malcelata convinzione di saperne un po' di più della media nazionale, e la ricerca di una gratificazione narcisistica al limite del patologico. Come Belen. Ma per mezzo di altri attributi.
Gli sta in culo che nessuno se lo caghi – no?.
Ecco allora un elenco sommario, non gerarchico, dei potenziali motivi per cui questo blog non stimola commenti (e che, paradossalmente, dovrebbe servire a stimolare la discussione [sì, buonanotte. . .]):

  • il blog fa cagare;
  • il paese è distratto dal voto sulla Cirinnà;
  • nel blog non c'è fica;
  • i contenuti del blog sovrastano la tenuta intellettuale dei suoi lettori;
  • mancano collegamenti a giochi del cazzo come Candy Crush Saga;
  • non rappresenta un'attrattiva per il mondo 'etero';
  • non rappresenta un'attrattiva per il mondo 'omo';
  • non rappresenta un'attrattiva per il mondo 'trans';
  • l'autore del blog vorrebbe sopprimere Emily Ratajkowski – e tutti i suoi followers;
  • l'autore del blog odia Checco Zalone e gli haters;
  • l'autore del blog pensa che il Papa dovrebbe scomunicare Jovanotti;
  • i lettori del blog sono tutti ex dell'autore, incazzati neri per il fatto che questo si è impegnato nella famiglia tradizionale;
  • un complotto dei Servizi nei confronti del blog mira ad escluderlo dal dibattito nazionale;
Nonostante questo, nonostante cioè vi sia carne al fuoco per un reggimento di pseudo polemizzatori e trolls , gli spazi per i commenti sono vuoti come le chiese nei centri urbani.
Vedendo, poi, quali infimi – ed infami – posts vengono commentati, beh: qualche sospetto sorge.
Invidia, assenza di senso critico, mancanza di un'opinione, paura di esporsi: non so davvero, esclusi i motivi in elenco, cosa determini tale insuccesso. Sta di fatto che nell'arte della creazione di muri di gomma, noi italiani siamo maestri. Perché questo è, il lasciar cadere nell'indifferenza ogni argomento, dal più caro al più detestabile: la risposta uguale e contraria di un muro di gomma.
Certo che chi scrive vuole essere letto e compreso! Non salvare il mondo, bensì accendere una discussione che partendo dal molto personale approdi al molto generale (generalista), e possa essere di contrasto alla tristezza e alla solitudine del quotidiano.

Continuerò, allora, a blaterare da solo, come sto facendo ora, e come quei senzatetto che hanno oltrepassato confini dell'esistenza sconosciuti ai più. Continuerò perché mi piace. È una forma efficace di igiene mentale. E forse scoprirò in persone e luoghi impensabili una sensibilità per l'ipermoderno davvero sorprendente.

mercoledì 17 febbraio 2016

Santuzzo

Spare me the bleeding-heart bullshit! Do you know what I'd do if I was in power again? I'd have two queues at airports: one for flights where we'd done no background checks, infringed on no one's civil bloody liberties, used no intelligence gained by torture. And on the other flight we'd do everything we'd possibly could to make it perfectly safe. And then we'd see which plane the Rycarts of this world would put their bloody kids on!
Mi risparmi tutta quella merda sentimentalista! Lo sa cosa farei se fossi ancora in carica? Farei due diverse file ai check-in degli aeroporti: una per voli per i quali non si prevedono controlli, non si calpestano le cazzo di libertà civili di nessuno, e non si utilizzano notizie ottenute sotto tortura. Mentre per gli altri voli faremmo tutto il possibile perché siano in perfetta sicurezza. Vorrei proprio vedere poi su quale aereo metterebbero I loro figli, i vari Rycart di questo mondo!
(The Ghost Writer, di Roman Polanski, 2010)
libera traduzione di Stefano Parenzan

La notizia del minuto di silenzio che l'università Bocconi ha tributato alla memoria di Giulio Regeni mi ha urtato profondamente. Santo subito. Aveva ragione Nietsche a dire che la Chiesa è una maledizione. E lo diceva un secolo e mezzo fa in Germania. Chissà quale reazione, fosse vissuto da noi oggi. Assuefatti fino al buco del culo dalla coabitazione con il Vaticano, siamo divenuti un paese di beatificatori istantanei. Abbiamo il calendario pieno di santi e beati, eppure ne creiamo di nuovi continuamente. Ma allora meglio i calciatori: quanto meno possiamo beatificarli a ragion veduta – un dribbling, un passaggio, un goal da teca RAI. Questi perfetti sconosciuti che assurgono – non si sa bene per volere di chi – a modelli morali e comportamentali dalla mattina alla sera, hanno stancato. Devono – dovrebbero – destare in noi i più legittimi sospetti, essere accolti dal più sano pregiudizio. Ed invece: commemorazioni e funerali di stato. M'è toccato pure sentire, per bocca di un povero essere verso il quale sono obbligato da un rapporto professionale: “Quella bravissima figliola che era la Valeria Solesin. . .”. Gravidanza isterica da mancanza di modelli di vita. Come la metteremo, dovessimo scoprire che San Giulio era, ne più ne meno, come il professor Emmet del film di Polanski? Le verità suffragate da prove incontrovertibili in sede di giudizio servono solo a quelli del mestiere. Noi comuni cittadini possiamo permetterci il lusso della cosiddetta verità pasoliniana, fornita dall'equilibrio di istinto, cultura ed intelligenza. Sappiamo benissimo come si svolge la vita del ricercatore universitario, non siamo nati ieri. Specie se ammesso a Cambridge. Queste prestigiosissime istituzioni non mettono il proprio timbro per soggiorni investigativi in paesi ritenuti a rischio dalle direzioni Esteri competenti – specialità, questa, che sembra essere divenuta la nuova passione italiana. Lo appone per far accedere i propri alumni a fonti documentali precluse ai più, ma la cui localizzazione è ben nota. Christopher Duggan, storico britannico recentemente scomparso ed esperto di storia dell'Italia moderna, era così descritto da Leonardo Sciascia, A.D. 1987: “[...] giovane ricercatore dell'università di Oxford”, il cui lavoro metteva “[...] in luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione […] è rivolta non tanto alla 'mafia in sé' quanto a quel che 'si pensava la mafia fosse e perché [...]”. Senza che l'Old Bailey ce ne dia conferma, sappiamo – pasolinianamente – che per pervenire a questa conoscenza egli non infiltrò personalmente le riunioni della cupola nel corleonese. L'avesse fatto, le conseguenze temo non sarebbero state per lui diverse da quelle subite dal Regeni. E sempre pasolinianamente possiamo dire quel che Sergio Romano, ospite a Radio Rai 3 l'altra mattina, ha lasciato intuire. Raggelanti, le sue parole: “Davvero Le dispiace se dico in tutta sincerità che a questa verità non arriveremo?”. Traduzione: il 'giovane ricercatore italiano' ha messo il naso in questioni che riguardano la sicurezza nazionale del paese del quale era ospite. Il paese ospitante ha reagito secondo le proprie direttive interne. Altro che ricerca della verità e cervelli in fuga e cittadini del mondo, programmi Erasmus, borse di studio e facce pulite. Romano non si è espresso come osservatore: si è espresso da ex diplomatico. Il minuto di silenzio così facilmente elargito dall'ateneo Bocconi è un'offesa a tutte quelle schiene curve e lenti a fondo di bottiglia che nel più appassionato anonimato ci hanno donato pagine di bella scrittura ed illuminanti osservazioni. Rabbrividisco al pensiero che un domani mia figlia possa sentirsi ordinare dal docente nel quale ha riposto la sua fiducia di studentessa universitaria di tacere – tacere! - e concentrare il proprio pensiero su di un presunto martire sconosciuto. Nuove giornate della memoria all'orizzonte, signore! L'università, specie in corso di dottorato, è il luogo principe dell'indagine, di quell'accortezza del sapere che appunto si oppone ad ogni sentenza emessa sommariamente. Come può piegarsi ad una sì stupida volontà politica? Come può un rettore concedere con tanta leggerezza un privilegio che dovrebbe essere di pochissimi? L'immiserimento mitico e culturale del nostro paese è purtroppo ben misurato da questa vicenda.

sabato 6 febbraio 2016

Zapping, Tarantino e l'Essenza dell'Opera d'Arte

Mi ero già espresso sul tema, parlando della radio. Ieri sera è capitato lo stesso con la televisione.
La mia modesta esperienza nel comparto della genitorialità ha condotto alle seguente conclusione: con l'arrivo di un figlio, ha inizio un rapporto tutto nuovo, ed obbligato, con la pratica nevrotica dello zapping. Può sorprendere, ma il salto del canale, tanto criticato dagli integralisti della 'tivù' (gente che il sabato attende di veder comparire Baudo in prima serata), presenta dei vantaggi come: l'affinamento del senso estetico di base (e considerando che il campione medio della popolazione non ne possiede affatto. . .).
È successo con Django Unchained di Tarantino. Inizialmente l'ho alternato a Peppa Pig, per i motivi sopra esposti. Poi, con frequenza disumana, a Che Bella Giornata, Conan Il Barbaro, Sette Anime e Le Tre Rose Di Eva. Ti accorgi subito – mi si perdoni l'ovvietà – della differenza nella fattura delle immagini quando passi dai vari Cesaroni e Zaloni a produzioni di livello cinematografico elevato. La qualità è superiore. Comprendi – ma solo se lo vuoi – che il digitale terrestre, sostanzialmente, nel menù ha merda mezzogiorno e sera. Non è una questione di budget: è proprio il senso del bello che risulta accentuato (mi torna in mente El Mariachi, dell'amico e compagno di strada [di Tarantino, n.d.r.] Robert Rodriguez: la forma rende e sorregge la narrazione). Persino un figo pazzesco come Jamie Foxx – devo ricordarvelo in Collateral, forse? - risulta qui trasformato, nella bellezza delle immagini, da nero a negro, con primi piani vintage in stile blackspoitation. Certo: la fotografia lussureggiante di certi formati (70mm), con i nostri apparati se ne va in fumo, esattamente come avviene per certe futuristiche incisioni. In entrambe, però, l'aspetto formale ne esce esaltato, subendo una compensazione simile a quella sensoriale. In questo deprecabile contesto, però, è il frammento e non la totalità dell'opera a risultare stimolante, il raffronto anziché il messaggio, il climax deprivato del petting. Quindi mi sono ricordato che questa settimana esce nelle sale The Hateful Eight. E mi ci sono fermato. Ritiro spirituale.
Non pretendo di fare, qui, della critica cinematografica. Voglio ricordare alla nutrita schiera dei miei lettori – quattro: grazie, ragazzi! – che questo è uno spazio personale, ed in quanto tale deputato ad ospitare non verità evangeliche, bensì soggettive riflessioni. Quelle che state leggendo sono pertanto da intendersi come, né più né meno, le opinioni di un innamorato del cinema, una persona che il giro del mondo lo ha fatto – prima ancora dell'avvento delle student fares - iscrivendosi a due indimenticabili cineforum. E questo per diversi anni. La domanda che viene qui posta è, pertanto, non perché-il-cinema-di-tarantino-è-grande, ma perché-il-cinema-di-tarantino-mi-incolla-alla-sedia. Il tutto analizzato con i limiti – e la sofferenza cinefila - di chi, da qualche tempo, i film li vede filtrati dal doppiaggio in diretta fornito dalla prole (un po' come la musica ai tempi del muto).
Anni fa mi capitò di sentire Silvano Agosti dichiarare: “Tarantino è un delinquente”. Non ricordo l'argomentazione con la quale Agosti sostenne la tesi, ma proviamo a riflettervi sopra. Sul fatto che i film di Tarantino siano violenti, penso non vi sia nulla dire. Sul fatto che produrre film violenti – meglio, film con una spiccata componente di violenza – sia strettamente connesso alla propria violenta natura, e quindi riconducibile all'essere un delinquente, è come dire che se tu, maschietto, fai sogni bagnati sei uno stupratore. E qui mi fermo, in quanto do per scontato a) che qualcuno a questo mondo vi sia, in grado di trarre giuste conclusioni in maniera autonoma; b) che determinati concetti basic di diversi comparti dello scibile, nell'anno di Trump 2016, siano ormai parte del corredo di cultura generale dei più (a] e b] sono inoltre ottime argomentazioni per svicolare ed uscirne sempre splendidi). Personalmente, trovo l'apparato violence di Tarantino parecchio appagante, specie quando funzionale alla sete di vendetta. Frustrated of the world, unite and take over!
Resto fermamente convinto che Quentin Tarantino meriti un posto nella storia del cinema non tanto per i titoli sulla bocca di tutti – compresi coloro che li hanno fraintesi per benino -, ma per quello che ritengo sia il suo Promessi Sposi (paragone azzardato, me ne rendo conto): il progetto Grindhouse come da lui originariamente concepito, vera e propria sinfonia incompiuta sul mondo di chi il cinema lo ha fatto, e di chi dentro le sale cinematografiche ha vissuto (Tarantino). Un pezzo di storia moderna messo su celluloide.

Giusto oggi, Oliviero Toscani, personaggio burbero e piacevolmente diretto, spiegava ai microfoni di Radio Rai 1 – la generalissima – come, nella fotografia, il senso estetico fine a se stesso semplicemente privi l'arte di una sua componente essenziale: la provocazione. Componente che viene attivata quando – e solo quando – l'opera d'arte convogli in sé un messaggio politico – e quindi una sua rilevanza. Attenzione – sono sempre parole di Toscani -: i tramonti, le modelle insignificanti, gli scatti tutti concentrati sull'aspetto tecnico del gesto, non dicono niente, sono vuoti. Per tornare a noi: si può dire forse che l'arte di Tarantino manchi di un messaggio politico? I criminali che abitano i suoi suoi film, non rappresentano una società dove la legalità non è più percepita? La scaltrezza vertiginosa delle menti criminali non denuncia forse uno slittamento pericoloso dell'intelligenza? Le uccisioni di bianchi per mano di neri, non si inseriscono politicamente nelle tante, tristi questioni 'nere' che da Katrina a Ferguson hanno caratterizzato il dibattito statunitense nell'ultimo decennio (sugli ebrei che sterminano i nazisti, rifiuto di pronunciarmi: non ho titolo per operare come insegnante di supporto)? La vendetta al femminile, il metacinema, sono temi a forte caratterizzazione politica, rendono i film di Tarantino opere d'arte a tutti gli effetti, e un piacere per gli occhi.

lunedì 25 gennaio 2016

Blackstar

David Bowie era un esibizionista di ciò che egli creava.
Questi sono esibizionisti e basta.
Sono degli imitatori.
Non mi sono mai piaciuti gli imitatori.
(David Zard)
Intro
A volte il vino volge in aceto. Similmente la musica può volgere in tributo. Eccoli lì. Pittati, sfigati, infreddoliti, illetteratissimi, a rompere i coglioni alla piccola borghesia lavoratrice di Brixton con le loro chitarre scordate e le voci disperate. “Ziggy plays guitar. . . Planet earth is blue. . . Major Tom”. Quanto credete che dovremo aspettare per veder intasato ogni locale con Spiders From Mars David Bowie Tribute Band? Il tempo di imparare gli accordi. O nemmeno: 'il Liga' e 'il Blasco' continueranno ad avere i loro imbarazzanti imitatori. D'altronde David Bowie non è il primo artista a conquistare la vetta della classifica una volta defunto – no?
Part 1
Penso non potessi scegliere momento più inopportuno per scrivere di David Bowie. Ricorda l'erronea scelta di tempo della sua casa discografica, quando pubblicò il disco d'esordio nello stesso giorno di Sgt. Pepper's – con la scusante che, in era pre-internet, non doveva essere così facile essere aggiornati sulle mosse commerciali della concorrenza, tanto più con quella di una band che sempre più mirava alla rottura dei canoni di produzione, e che in risposta ad un successo incessantemente crescente di pubblico era determinata a mutare anche la fruizione della propria immagine.
Part 2
Ho ricevuto la notizia della scomparsa in diretta, ancora assonnato, in pigiama. Sono stato colto dalla commozione e da una immediata tristezza. Hai un bel dire, quando persone così non ci sono più, che basta seguire l'esempio, ora che tocca a noi andare al supermercato con il tascabile che spunta dalla tasca ed il fulmine pittato in volto.. Tutti a timbrare il cartellino - altroché. Più che duca bianco, colletto blu. Sono venuto al mondo, e David Bowie era già li. Ho tirato altri quarantacinque anni. Ancora li. Fino a ieri mattina. David Bowie is. David Bowie was.
Part 3
Mi sono rinchiuso in una stanza – segreta –, ed ho posto fine al chiacchiericcio post mortem ascoltandone l'ultimo disco, Blackstar, stella nera di oscuri presagi, e forse destinata a mutare in buco ancor più nero. Insegna il suo connazionale Stephen Hawking che il buco nero cessa di emettere luce, trattenendo però in sé tutta l'energia del collasso. Ed è così anche per la 'stella nera' di Bowie: densa di idee e spunti; piccola (40 min., la durata), ma dalla massa infinita. Blackstar è davvero un disco eccellente. È il prodotto di un fine artigiano (Tony Visconti) che di cesello va a realizzare l'idea proposta dal cliente (David Bowie), avvalendosi in questo dell'aiuto di maestranze esperte e qualificatissime (il quartetto jazz di Donnie McCaslin) – cui va il plauso per la strepitosa esecuzione in Sue (Or In A Season Of Crime). Lo ritengo un disco genuinamente fusion, con un tiro rock, e quella ambiguità armonica – serie d'accordi già sperimentate in passato e sostituzioni estreme - perfettamente calzante con un artista che da tempo era diventato un'icona di stile e sofisticatezza (fusione, quindi, in senso letterale, differente da quella proposta da un certo jazz bianco e stanco, che con il termine ha solo disposto di un alibi per elettrificare i discorsi musicali aperti - e sovente chiusi - dal blues e dal jazz di tradizione). Sfornare un disco così a sessantanove anni non è da tutti. In più, stando alle notizie ufficiali, un lavoro che Bowie ha realizzato in malattia (mi astengo, qui, dal dissertare sui benefici di una esistenza realmente creativa). Si pensi ad un gruppo come gli AC/DC, che, azzeccata la formula negli anni '70, continua a sfornare dischi dalle sonorità identiche, dove le uniche differenze, ad un orecchio vergine, sono rappresentate dalla trasparenza via via crescente nella qualità dell'incisione. O agli Stones, che – come dice l'amico Alessandro B. - “hanno smesso di fare musica vent'anni fa. O trenta”. Blackstar è pertanto un disco destinato a rimanere, come lo sono tutti quelli seguiti ad un decesso illustre (l'elenco è nutrito). Il canto del brutto anatroccolo dei Konrads divenuto bellissimo cigno.
Interlude
Quando la tua vita è tutt'uno con le tue creazioni, sei un artista. Quando sai suonare benissimo e fra una data e l'altra spaccare la legna, sei un musicista.
Part 4
Come tanti della sua generazione, anche David Bowie ha vissuto la squalifica, ottusamente giustificata dai cosiddetti fans, di gran parte della discografia seguita alla triologia di Berlino – similmente a quanto vissuto dai Floyd dopo Dark Side, agli U2 dopo Rattle 'n Hum, e ai Radiohead da Kid A in avanti. Cito a memoria. Mi sembra la prima di queste sia giunta in occasione del progetto Tin Machine (ho lasciato sul campo delle sinapsi, per quel gruppo), e proseguita con il concept Outside ed il successivo Earthlings. È difficile produrre musica. Difficilissimo produrne di bella, di soddisfacente per chi la fa, in primis. Certo: non sono stati anticipatori come le incisioni anni '70. Ma per sfornare tre dischi così – credetemi! - come nel Faust, si può davvero vendere l'anima al diavolo. È il massimalismo di un pubblico frustrato, quello che pretende gli artisti sempre all'avanguardia.
Reprise
Santo subito. È così che ormai reagiamo alla morte di chi ci viene consegnato dai media come un grande artista. Pier Paolo Pasolini diceva che la morte getta sempre una luce retroattiva sull'esistenza del caro estinto. Vero. Altra grande osservazione da parte dell'altrettanto grande Pier Paolo. Non dimentichiamolo: David Bowie era uno stronzo, esattamente come possiamo esserlo noi. Si guardi al proposito lo struggente documentario di George Hickenlooper, Mayor Of The Sunset Strip, dove è possibile vedere un Bowie, preoccupato dagli effetti del jet-lag, prestare scarsa attenzione al festeggiato Rodney Bingenheimer - il leggendario DJ losangelino che per primo passò le musiche di Bowie quando nessun altro sembrava riconoscerne la portata.
Finale

Ciò che di sicuro è destinato a rimanere, è l'esempio di come, nato David Robert Jones in un quartiere malfamato e periferico; in una città che solo pochi anni prima era sotto il bombardamento aereo di una paese nemico, un uomo comune, un absolute beginner, abbia reagito al tradimento di una condizione imposta (vedi alla voce: nascita) facendo appello alla propria creatività - e di conseguenza al proprio coraggio - al solo fine di diventare: sé stesso. E per questo accettando in sé tutte le contraddittorie trasformazioni che separano (forse, i famosi 'sei gradi') ogni essere umano da tale, legittima meta.

sabato 9 gennaio 2016

Bile

Quando ti cerco per le vie della città
A volte il cuore mi batte forte.
Se ti intravedo fra la gente
Vorrei dirti che sei
Almeno una piccola, forse una grande,
Parte di me.
(Il Teatro Degli Orrori, Mai Dire Mai)



Il Teatro Degli Orrori, nel panorama italiano, è tra i gruppi indie più interessanti e stimolanti. Riflettiamo. Cosa si vuole da un gruppo rock indipendente? Iperstimolazione sonora e presa di posizione politica – che è esattamente quanto il prodotto Teatro Degli Orrori fornisce all'acquirente, garanzia inclusa (molte dei loro brani sono di quelli che rimangono, credetemi). Mai Dire Mai viene dal loro secondo disco, un'incisione dalle sonorità lucidissime, artigianalmente prodotte nei laboratori milanesi del suono di Mauro Pagani, ed in netto contrasto con le sonorità volutamente grezze e cupe del disco d'esordio (capolavoro). Mi è sempre sembrata una salubre canzone noise dal piglio brutale, dove il parlato di Pierpaolo Capovilla trascina lo sprovveduto ascoltatore per il bavero, nel mentre gli viene somministrata una bella lezione di vita. Intro, strofa, strofa, ritornello, strofa, ritornello, chiusa. Ed è in quest'ultima che la canzone si trasforma in ballata, con il testo che vira dalla prepotenza del parlato al cantato dei versi citati in apertura. Dove capiamo che l'aggressività del protagonista è solo il paravento di una ricerca ossessiva della persona amata - prova di come noi si cerchi, ami, apprezzi e comprenda solo ciò che già conosciamo.
Passeggiavo “per le vie della città”, quindi, con mia figlia (tre anni e mezzo), in bicicletta, quando ho incrociato dei parenti (tre, in due differenti locations) i quali, non riconoscendoci (!), hanno tirato dritto. Ho realizzato, allora, quanto veritiere siano certe canzoni che da sempre mi ronzano nella testa. E quanto psicologicamente sia illuminante che proprio quelle – e non altre – abbiano scelto di abitare in me.
Cerchiamo chi già vive dentro di noi.
Riconosciamo solo chi già sentiamo di conoscere.
Ricordate Ask, degli Smiths? Meglio. Ricordate gli immensi Smiths di Morrisey e Johnny Marr? Ask fu, nel lontano '85 e quanto meno in Italia, il loro maggior successo commerciale. La rabbia fa sragionare. Ed è facile in simili momenti strumentalizzare delle parole, specie se profonde – come spesso sono quelle del Moz. “Se non è l'amore, allora sarà la bomba a metterci insieme” (If it's not love, then it's the bomb that will bring us together). Suona minaccioso, ma non lo è. Non ho intenzione di muovere un solo dito per riavvicinare persone di questa taglia, tantomeno di fare del male a chicchessia. Le parole di Morrisey servono solo a ricordare noi quanto sia estrema, a volte, la realizzazione di un'unione. Cazzi vostri.
Ciò che maggiormente mi disgusta della 'cultura' social dei giovani è la quasi assoluta inconsapevolezza delle conseguenze social – appunto - di tutto quanto viene, 'postato', 'tweettato', pubblicato, condiviso, 'taggato' e commentato (se mi state dando del vecchio che se la prende con i giovani, siete avvisati: è proprio così). Di queste merdine non so che farmene. Non accetto lezioni da gente così. Accetto di essere giudicato solo dai miei pari. Ed ecco allora, a riparazione dei danni di guerra, la definizione di cuginanza direttamente dal Sabatini-Colletti: vincolo di parentela esistente fra cugini. Ed ora la chiosa dal Parenzan-Camisa: è estendibile alle cugine di tre anni.
John Lennon, il grande, che aveva nei Beatles la sua famiglia, palesò ripetutamente come la gelosia e l'invidia di Harrison e McCartney – Ringo Starr fu l'unico a non mostrare ostilità – furono per lui e Yoko Ono fonte di imperdonabile dolore. Ma anche che tutto ciò non gli impediva di volergli bene – con grande coerenza per chi,a quel tempo, ci ricordava che “l'amore è la risposta”.

Non pretendo di scrivere, in futuro, canzoni del livello del grande John.
Spero solo di avere – qui sì come lui – la capacità di continuare a voler bene a quei tre bastardi che, con il loro atteggiamento, mi hanno fatto davvero male.

sabato 26 dicembre 2015

I CAN Get No Satisfaction

Non è capace di riassumere ed appassionarsi ad un testo scritto.”
(da: Indagine OCSE su Facoltà del Mondo Adulto 2015)

“Ho letto qualcosa del tuo blog. . . era un po' lungo – oh no? E poi non capivo un cazzo. . . non so.”

Quando tieni un blog, ed uno dei tuoi lettori si avvicina, di persona, per dire te parole come queste, beh: son soddisfazioni. Non c'è che dire.

È di oggi (25 dicembre) la notizia dei risultati di uno studio OCSE, che vedono il nostro paese primeggiare nellla classifica dell'analfabetismo funzionale, con un tasso pari al 47%. Quando tieni un blog, son soddisfazioni anche queste. In conseguenza di ciò, tu, blogger, hai almeno un valido motivo (un alibi?) con cui replicare a cotanto 'complimento'. In più, il dato spiega in maniera esauriente per quale ragione, ogni santo giorno, noi si abbia a che fare con schiere di rincoglioniti.

Nel caso in questione – il giudizio sul blog -, le cose sono due. Partiamo dalla più rilevante, saluto delle armi con chi me le ha cantate per bene. Ritenendomi montanelliano in diverse scelte etiche di scrittura, aderisco alla tesi che segue: se il lettore non capisce, la colpa è di chi scrive, non di chi legge. Touché, amico: se, come comunicato, non hai “capito un cazzo”, colpa mia. Da domani solo posts con cuccioli d'animale e pietanze nostrane.

La seconda vede però i ruoli invertirsi con simmetrica proporzione. Sempre a seguito delle succitate scelte, cerco di calmierare i miei scritti con una basilare quanto antica regola della scuola giornalistica statunitense: una tesi deve vedere il proprio succo enunciato in non più di settecento parole. Se non sei in grado di produrti in un simile compito, il giornalismo non è il tuo mestiere – e la tua facoltà di comprensione necessita quanto meno di revisione. Tranne quando in preda alla logorrea, è questa una regola che mi riesce di rispettare. Quindi niente cuccioli né pietanze.

Se settecento caratteri o poco più (l'equivalente di due pagine di un qualunque tascabile in commercio) sono sufficienti per a) decretare la lunghezza del testo come eccessiva b) impedire di coglierne il senso – per quanto confuso ed inarticolato -, va da sé che l'indagine dell'OCSE un fondo di verità ce l'ha – e dichiarare di avere faticato di fronte a settecento o poco più parole, tradisce il fatto che o da tempo non si leggono più libri o non li si è mai addirittura letti (Un consesso di linguisti nerd [ma si può essere linguisti senza essere nerd?], ha calcolato, nel tempo libero, il numero di parole necessarie all'uomo sapiens per comunicare. Il vocabolario basic: seicento vocaboli.).

Si pensi che l'analfabetismo funzionale è tanto diffusamente riscontrabile nel campione medio della popolazione (l'esperienza è personale) da non consentire nemmeno più spontanei moti di spirito da innalzare a difesa (cfr. Senso dell'Umorismo. Woody Allen colse il dilagare del fenomeno vent'anni or sono, fissandolo in una battuta de La Dea Dell'Amore: “Sono del tutto superfluo.”, “Oh, ti senti poco bene?”). Tempo fa, nel corso di una conversazione formale – quella che segue i convenevoli, per intenderci -, il mio interlocutore si è definito 'lascivo' nel tentativo di sottolineare la propria scarsa propensione all'impegno (!). E va da sé che, considerata la natura di questo blog, calcolo e scrittura non vengono presi in considerazione: inseriti nell'equazione, alzerebbero le percentuali emerse dallo studio a livelli persino non credibili.

Questo spiega molte delle difficoltà, delle scocciature, dei disagi e delle nevrosi nei rapporti interpersonali occasionalmente intrattenuti nell'anno 2015 (vedi luoghi pubblici). La maggiore correttezza, grammaticale, sintattica e formale (stilistica) nella comunicazione incontra, quando non il riso, lo sguardo condiscendente dell'interlocutore e versioni non richieste.

Essendo appassionato alla lettura, sovente vengo colto da conoscenti impegnato in questa attività. È verificabile da chiunque come l'ignoranza comporti, nei soggetti che ne sono portatori, una strana forma di curiosità nei confronti dell'oggetto (libro) della loro repulsione – sorta di intellettuale flagranza di reato. “Che stai leggendo?” è il quesito unico e ricorrente. Sapendo per esperienza che, quantomeno delle mie letture, questi inquisitori sui generis sono del tutto all'oscuro, da tempo replico muto, rivolgendo all'interlocutore solo la copertina del libro. Che faccia da sé: l'analfabeta funzionale è comunque in grado di leggere. L'ultima volta è capitato con le Lezioni Preliminari Di Filosofia di Giuseppe Semerari. La reazione? “Oh, Signore: no, grazie.”

Faccio parte di quella schiera – nutrita - di persone che hanno vissuto il cosiddetto dramma scolastico. Bocciature, ripetizioni, sospensioni, assenze ingiustificate, squalifiche morali e psicologiche, bullismo, acne. Ma, raggiunta la maggiore età e la consapevolezza di una ignoranza imbarazzante, il rifugio è stato lo studio. E da Gutenberg in avanti, non mi risulta sia stato praticato per infusione. Tocca forse allo psicologo, più che all'intellettuale puro, tentare di spiegare, oggi, la natura di questa bibliofobia dalle conseguenze culturalmente devastanti.

Indro Montanelli, al culmine della carriera, concluse che “più si parla e più si è fraintesi”. In questi tempi di diffusa, ma latente, ignoranza, venire fraintesi potrebbe persino essere visto come un risultato in positivo.