sabato 14 novembre 2015

MARKETTA (CON LA K). Andare in brodo per un singolo di Adele.

Ho trascorso più di metà della mia vita a coltivare ascolti di qualità, snobbando letteralmente tutto quanto recasse anche solo una lontana parvenza commerciabile, e sempre più rifugiandomi nelle nicchie – poche, ma eccellenti (non ultima quella rappresentata da Public Service Broadcasting, il mio prossimo live obbligatorio).
Per questo, mai avrei pensato che, di questi tempi, mi sarei trovato ad accostare la macchina al solo fine di prestare ascolto, incantato, ad una delle regine della vetusta, e relativissima, hit parade: Adele.

Come non poteva non essere, Hallo, il nuovo singolo di Adele, è in testa alle classifiche di diversi paesi. Quindi il tipo di ascolto che scarto di default da decenni e per il quale nutro un interesse paro a quello per la politica nostrana. Nullo.
Il fatto è che quando l'auto-tuning mi ha portato sull'attacco della canzone, su quel primo “Hallo” che giunge inaspettato come la telefonata narrata nel testo, non ho potuto far altro che obbedire all'incantesimo.

Hallo è una canzone perfetta. E bellissima.
Il soggetto è semplice. Adele è una ragazzaccia che ha spezzato il cuore ad un maschietto. Fine della storia. Ognuno per i fatti suoi, allontanamento, sensi di colpa, assenza di notizie. Fino a quando la nostra non trova il coraggio di comporre quel numero di telefono, segretamente conservato negli anni. E allora: “Hallo”. Pronto. Sono io.
La voce, calda e rotonda, priva di spigolature (al contrario di certe apprezzatissime urlatrici nazionali che non citerò); la dizione impeccabile (il modo in cui pronuncia e canta, tutto d'un fiato, “It's so typical of me to talk about myself I'm sorry”, è da scuola di canto, lezione di fraseggio, e vale l'acquisto su Itunes); le armonie semplici ed interamente asservite all'esaltazione della voce (magistralmente riuscita); la produzione attenta (il missaggio con la voce 'in avanti' da brivido); la quasi totale assenza di escandescenze (il brano prende ritmo solo sul finale, senza concessioni accattivanti, tipo virtuosismi, acuti o distorsioni). La sospetta banalità del pentimento della protagonista è fugata dal tono pacato e dalla grazia del cantato. Ma anche il femminismo psicologicamente maturo della canzone (non dimentichiamo che è la protagonista a prendere l'iniziativa e a riconoscere le colpe, e senza un Eros Ramazzotti che provvede al controcanto consolatorio e rassicurante – in culo a Tina Turner e a I Belong To 'Sto Cazzo'), contribuisce al risultato finale. Parla ad un cuore spezzato con grazia e garbo, come tante volte, forse segretamente, vorremmo vedere trattata la nostra più intima sensibilità.
Un classico, potenzialmente. Ed anche qualcosa di più, se si ha il coraggio di ammetterlo.

Oggi non crediamo a papa Francesco: figuriamoci al produttore e al manager di Adele.
Adele Adkins viene da un lungo periodo di assenza dovuto al blocco dello scrittore – o, almeno, così ci dicono. Il singolo giunge dunque a sorpresa un po' per tutti. E – guarda caso – di cosa parla? Di un evento inatteso. Ha venticinque (!) anni, ma la bellezza matura di una trentenne (afferrate? La sofferenza invecchia, e così la narrazione ne guadagna). Ha il vezzo – e la pigrizia – di intitolare i suoi albums con la cifra della sua età al momento della pubblicazione (ho già prenotato Fourty-seven, Adele: vedremo se ne avrai il coraggio). C'è l'arte del commercio, a sorreggere Adele, il suo singolo e l'album che seguirà. Eppure. . .
Anche intorno a Lionel Messi vi è una cura finalizzata al massimo risultato per sponsorizzazione, mantenimento dell'immagine, mantenimento dell'interesse mediatico ed alimentazione costante della leggenda. E questo, obiettivamente, non rende il suo calcio giocato meno spettacolare. Andrò oltre, per intenderci. Apple è il colosso mondiale del commercio, e nonostante tutto continua a produrre ottimi computers. Non necessariamente, quindi, ciò che è commerciabile deve essere carente nella qualità (vogliamo parlare dei Duran Duran?).

Adele è un'artista giovane e brava. Ha il successo che merita.

Ignoro se dal vivo sia in grado di riprodurre le magie sintetizzate in studio. Per questo motivo, non andrò al suo concerto: per non rovinare la bellezza ripetuta di questo ascolto.

In un'epoca come la nostra, dove tutto è urlato, dall'elemosina alla mestruazione, Hallo è davvero una canzone salvavita.

domenica 1 novembre 2015

TROPPO POLITICO. Riflessione sulla malsana concezione della politica da parte degli italiani.

Sono politico, che c'è di strano?
Ho il nome di Santoro e il cognome di Gaetano
(Caparezza)

Ho consigliato un libro di Marco Travaglio ad una conoscente che mi ha consultato per una lettura su fatti di attualità recente. “Ma Travaglio. . . come dire: è troppo politico”, replica lei.

Onore al Caparezza – comunista – per avere anche questa volta anticipato e codificato l'ennesimo episodio di ignoranza dilagante, della quale ormai ci si può solo prendere gioco.

Come ci si convince, in regime di totale assenza di letture, che qualcosa è troppo politico? Meglio: chi può indurre una simile opinione? Risposta: Silvio Berlusconi, Laura Pausini, Il Volo, Carlo Conti, Fiorello, il Festival di Sanremo, One Direction, Alessia Marcuzzi, Jovanotti.

Non voglio in questa sede prendere le difese di Marco Travaglio. Non lo conosco di persona e penso non abbia bisogno della mia assistenza. Possiedo un solo suo libro – Montanelli & Il Cavaliere –; ho letto la prefazione – brillante – a quello di Bruno Tinti – Toghe Sporche -, e leggo di frequente i suoi editoriali su Il Fatto Quotidiano.
Ho riletto Montanelli & Il Cavaliere proprio per verificare, a debita distanza temporale, quanto di politico vi sia, effettivamente, nei lavori di Marco Travaglio.
Cerchiamo di capirci. Questo libro, che ricostruisce la vicenda italianissima del classico siluramento di chi si è opposto alla prepotenza del padrone, è quanto di meno politico vi sia in circolazione. Travaglio scrive ed enuclea i fatti con stile e rigore da verbalizzante di Polizia. In quattrocento e più pagine, poche chiose ai paragrafi fanno trasparire il giudizio estremamente negativo che l'autore ha dell'ex-premier. L'intento di tanta asciuttezza sembra essere quello di testare il lettore attraverso una presentazione del materiale tale da metterlo di fronte ad un atto di responsabilizzazione, consistente nel giudicare da sé fatti che, se non suscitano alcun moto di indignazione od un sano interrogativo, sono segno di taciuta connivenza. Al tempo dell'uscita dell'interessante documentario di Erik Gandini, Videocracy, venne scritto sulle pagine del 'Corriere' che se la popolazione italiana non è in grado, da sé, di immunizzarsi da simili storture, non si poteva certo pretendere che igiene e profilassi civili venissero operate da una pellicola. È vero. Siamo in grado di vedere e riconoscere solo ciò che già conosciamo. Quindi perché in assenza di cultura democratica si ritiene un autore come Travaglio troppo politico? Per i più, la colpa – tutta italiana – di Marco Travaglio è quella di prendere posizione in maniera appassionata, al punto da risultare, come si è detto, troppo politico persino a chi di politica non si è mai occupato.
Noi esseri civilizzati (mi si conceda la definizione) siamo politici a prescindere. Quando ci accusano di fare troppo i filosofi, si è di fronte ad una mezza menzogna. “Non si può che filosofare”, diceva Kant. Piaccia o no, persino il tuo parere sul truzzo eliminato al televoto del Grande Fratello ha una valenza politica. Il giudicare senza pregiudizi è una stronzata che la scuola – per citarne una – sembra non avere ancora arginato.

Troppo politico è in realtà un'accusa che rivela una propria, intima paura: quella del vedere mortalmente attaccata da un'opinione o un parere la sicurezza piccolo borghese di chi il culo lo ha sempre avuto al caldo e ben impomatato. Di chi in una verità appurata da un collettivo vede solo la minaccia alla propria ereditata serenità. Di chi non ha il coraggio di una presa di posizione, ignorante al punto da non rendersene conto.

I danni del berlusconismo - giusto per esprimere un parere politico -, operati su vasta scala da coloro che dall'ex-cavaliere si sono sentiti ispirati, e maggiormente sul piano culturale, vanno oltre gli aspetti monetari denunciati da Marco Travaglio in tempi non sospetti. Il danno consiste nell'avere convinto una fetta considerevole della cittadinanza della pericolosità e del sospetto che, secondo questa compagine, si annida dietro ogni opinione opposta allo status quo, con il risultato di avere persuaso di ciò milioni di persone. L'aggettivo è spesso – o sempre – confuso con il sostantivo, e 'troppo politico' diventa così il giudizio linguisticamente basic con il quale si opera una squalifica che è dettata da paura, per imposizione, con prepotenza.

Non ho infine compreso cosa realmente volesse da me la persona che mi ha chiesto consiglio per una lettura – e perché a me.

Anni fa, studente e libraio estivo per l'amico Gianni, consigliai il Diario Di Un Vecchio Sporcaccione di Bukowski alla commessa dell'esercizio attiguo. Smise di parlarmi, ma ebbe il coraggio di portare a termine la lettura – e di giudicarlo solo allora.

Questo è il risultato del successo ottenuto da una classe politica determinata: l'abbattimento di ogni processo selettivo, la delega all'altro, il disagio di fronte ad un pensiero forte. Il superamento, in direzione del peggio, dell'analfabetismo funzionale.

lunedì 5 ottobre 2015

RADIO KAOS. Le chiacchere da bar delle emittenti nazionali.

Da quando il lettore CD della macchina ha misteriosamente smesso di funzionare, ho affidato il mio sostentamento musicale itinerante alla sintonizzazione automatica. Spero cioè che il dispositivo trovi per me un'emittente degna di ascolto, e che al contempo non intasi la testa con gli stessi 'liquami' della rete.

Finisco puntualmente con il trarre la stessa conclusione ogni giorno.

Il panorama FM nazionale è musicalmente sconfortante. Sembra tutto un susseguirsi di brutte canzoni e musiche tamarre con rarissime incursioni di eccezionalità (Kasabian, Gazzè-Fabi-Silvestri, Caparezza, Depeche Mode d'annata e poco altro, e please: che nessuno osi dirmi di avere dimenticato i Foo Fighters, perché son botte), interrotto solo dal blaterare dei conduttori - finalizzato a riempire spazi di programmazione stabiliti al secondo. Tutto è lecito, purché politicamente corretto. Tutto irrilevante ed approssimativo, pur di evitare anche solo pochi secondi di silenzio (mi è capitato di sentire un conduttore dire che Every Thing She Does Is Magic dei Police “è inserita in quel disco con il titolo in francese. . . come si chiama? Non lo ricordo più. Vabbè: ci siamo capiti”. Il disco oggetto di oblio è, presumibilmente, Outlandos d'Amour. Non è francese, e non ospita la canzone – che si può invece sentire in Ghost In The Machine. Facciamoci del male).

La hit del momento, sempre facilmente riconoscibile, può essere sentita in differita, anche di pochi secondi, sui vari canali, nelle diverse fasce orarie. E questo svela la bufala della cosiddetta 'radio alternativa', visto che l'alternativa non c'è.
Persino le radio che si definiscono rock , a sottolineare la differenza, non sono che stazioni partorite da quella generazione ora adulta, incapace di riconoscere che dopo i 'Floyd' vi sono ancora gruppi geniali ed interessanti (es. Arctic Monkeys) - e che quindi propinano via etere né più né meno quanto girava sugli impianti stereo delle loro camerette nei pomeriggi dei compiti con le canne. Nulla di alternativo, quindi. E pure proposto con le stesse fastidiose modalità comunicative della concorrenza (Qualcuno ricorda la performance degli Arctic Monkeys all'apertura delle Olimpiadi di Londra? Personalmente è stata l'ultima volta che ho visto, come direbbe Adriano Celentano, qualcosa rock. Questi quattro giovani che dal cuore depresso cronico dell'Inghilterra approdano sul palco dello Wembley Stadium, in mondo-visione; con Alex Turner vestito e pettinato come un Teddy Boy; come i Beatles leggendari delle notti di Amburgo; con un passo da veri duri di periferia, e che attaccano a suonare con un piglio tipo non speriamo-che-vada-bene, ma: “Hey, mondo: spero TU sia alla nostra altezza”, rappresentano uno spettacolo impagabile. E la cover di Come Together, specie nelle strofe, è ipnotica e bellissima).
Ci si accorge allora che molte musiche già le si conoscono perché colonna sonora di pubblicità di griffe dell'alta moda: a volte presentate come tali – e qui l'identificazione con il prodotto è bestiale ed oltrepassa l'aspetto promozionale -, altre volte senza preparazione – tecnica psicologica subdola e letale (es: le canzoni di Cremonini per l'Algida).
Dove le frequenze lo permettono, si aprono siparietti inaspettati e a volte divertenti di musica latina. Twerking, sesso precoce, grigliate in spiaggia la domenica e mancata integrazione sono le immagini evocate da un ascolto di anche pochi secondi. E pensare che c'è chi ne fa pratica nel ballo con dedizione da musicista classico.
Il comparto 'nostalgia' è rappresentato da tre arieti come Up-Radio, Radio Nostalgia, e Otto FM, isole dove ancora si può incontrare un paese che si commuove per Cindy Lauper o alza le braccia al cielo – magari mentre al volante – al suono dei Tears For Fears; dove Whitney Houston è ancora viva e gli Spandau Ballet sono in classifica (la stessa Otto FM non dimostra pudore alcuno, presentandosi – appunto – come “la radio dei Tears For Fears”, inducendo confusione tra proprietà, esclusività e fanatismo).

Raramente la ricerca si conclude senza una sosta di sintonizzazione su Radio Zeta.
Radio Zeta è un'emittente che fa riflettere. Fa riflettere su questa italietta della della porta accanto, del vicino di casa, della spesa all'apertura del supermercato, del neo-melodico nordista; di pranzi abbondanti e cene alla festa del paese; di prime toccatine al suono dell'orchestra ospite e alle fantasie erotiche sulla zia prosperosa. È sempre estate su Radio Zeta. Secondo me, dopo un fallout nucleare, due realtà sopravvivono: le cimici e le telefonate in diretta a Radio Zeta. Secondo Indro Montanelli, la vera Italia era forse quella dei venti milioni inchiodati davanti al video di Sanremo. Radio Zeta è la conferma a questo sentore. Almeno per un suo terzo.

E poi c'è Radio Maria. “In auto ascolto sempre radio Maria. Anche perché è inevitabile: accendi la radio, c'è radio Maria. Cambi stazione, becchi ancora Radio Maria! Com'è possibile? - È un miracolooo! - Un miracolo o antenne vaticane cancerogene.” (Daniele Luttazzi – Bollito Misto Con Mostarda, Feltrinelli 2005).

Ciò che risulta mancante nel nostro panorama radiofonico è una tradizione di talk radio – quella del film dimenticato di Oliver Stone, per intenderci -, con una eccezione: Radio Padania Libera. Nel senso che è l'unica che pratica il genere – con quali risultati, verificatelo sulle sue frequenze dopo un respiro profondo (Radio RAI3 – Dio la preservi a lungo – nella sua eccellente programmazione, nei suoi approfondimenti, non pratica questo format: alla talk radio preferisce il confronto in diretta, a più voci e mediato. Ecco perché Radio Padania Libera vanta questa unicità. Quanto a Radio Padania Libera, i suoi discorsi mi ricordano sempre i davidiani di David Koresh. Troveranno mai la loro Waco padana?).

Nel panorama uniforme e geriatrico dell'informazione radiofonica, ci si può imbattere in passaggi tipo:“passeremo in rassegna le notizie del giorno con un tocco di leggerezza, lasciando da parte le notizie cattive”, sui quali mi rifiuto di commentare; o in quelli più professionali di eccellenti emittenti indipendenti, rovinate da presentatori con difetti di pronuncia o parlate fastidiosamente regionali.

Isole felici? Sì, ve ne sono: Radio RAI3, quantomeno per la coerenza del palinsesto (sebbene anch'essa, in un contesto di ascolto random, può presentarsi con rassegne di musica antica che altro non fanno che aumentare le vendite dei Bon Jovi); Radio RAI2, nella prima e seconda serata, e a seconda dei conduttori, unica a proporre le sofisticatezze del panorama electronica internazionale; Radio DeeJay, quando Linus si fa umile perché ha in studio gli Elio E Le Storie Tese – e non Emis Killa – per il settimanale di Cordialmente.

Yehudi Menuhin raccontò in una intervista di sentirsi violato dalla musica nei supermercati e centri commerciali. Per quanto improntato ad un intellettualismo sterile, trovo tutt'altro che scontato sottolineare che un ascolto privato della libera scelta e del pensiero sia fortemente alienante – esattamente quanto avviene con l'auto-tuning.

Ho recentemente riascoltato Brad Mehldau, a casa e sdraiato sul divano. E al di la dell'aspetto tecnico, ciò che ammalia in questo pianista meraviglioso è la costante ricerca della musica percepita dentro di sé. È forse la qualità che più caratterizza la figura del musicista vero. È un atteggiamento che il musicista attua nell'esecuzione per conferire a questa un senso il più alto possibile. È un atteggiamento che noi tutti possiamo attuare nell'ascolto per risolvere una parte del caos e conferire alle nostre vite un senso altrettanto alto, lontano da ogni pratica assimilativa automatica ed incontrollata.

lunedì 21 settembre 2015

CRIMINAL INTENT. L'inconscio criminale dell'italiano medio.


Non è esaltato dalla serie televisiva, ed anche nel film di Michele Placido – sebbene impersonato da Stefano Accorsi – non emerge. Solo nel suo parto originale, quello cartaceo, il commissario Nicola Scialoja è presentato per ciò che è: giovane, in gamba; coraggioso; affrancato da ogni protezione corporativa e politica; intelligente, testa calda e solo. Cioè arredato di tutti quegli orpelli che fanno di una persona un eroe.

Eppure nessuno, parlando del fenomeno Romanzo Criminale, ha mai citato Scialoja allo stesso modo e con la stessa frequenza del Freddo, del Nero, Dandi, “Libbano” o di altri personaggi similari. Mai sentito dire “che ganzo, Scialoja!”, come sovente avviene, invece, per i criminali del 'Romanzo'.

Anche nel film la caratterizzazione dei personaggi sembra conferire maggiore rilievo alla frangia criminale (si pensi al Nero, impersonato da Riccardo Scamarcio: bello, fascinoso, giovane, aitante e letale. Fino a quando non lo si vede prelevare una persona dalla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 - azione che lo riconsegna istantaneamente al giudizio sulla sua vera natura -, chi non si innamorerebbe di uno così?).

Nikita Nabokov diceva che la buona letteratura è quella che suscita in noi velleità letterarie. Ed è proprio questo che il meccanismo narrativo di Romanzo Criminale attiva nell'inconscio dell'italiano medio: la sua parte criminale (che non si concretizza, ma nemmeno gli consente un moto empatico nei confronti del commissario). Una giustizia disposta ad avvalersi di una persona come Scialoja, fa paura, all'italiano medio. Potrebbe, di fatto, restituire noi un paese nel quale le doppie vite, fatte di sotterfugi, appoggi non dichiarati ed apparente legalità, risulterebbero non più praticabili. Nel quale, per farsi strada, verrebbe finalmente richiesto, impegno, dedizione, coraggio e il rispetto delle regole del gioco. Ecco spiegate, forse, le ragioni di questa tendenza.

È stato Pulp Fiction di Quentin Tarantino il primo film che, in Italia, ha estetizzato i gangsters al punto da farne fonte di citazione per schiere di illetterati (Il Padrino di Francis Ford Coppola si limitò, al tempo, alla semplice loro rappresentazine). Con una differenza, però. Pulp Fiction è un film su criminali visti da criminali; in azione, cioè, nel loro habitat naturale. Mentre in Romanzo Criminale – il libro - lo scontro tre bene e male è presente, voluto: non vi si può sfuggire, ed obbliga ad una presa di posizione. (Quando parteggi per Julius o per Wolf, ritenendoli migliori di un Vincent che si fa ammazzare seduto sulla tazza, sei già compromesso: hai solo scelto il meno peggio. Ma c'è una via d'uscita: affrontare le brutalità pulp con cinica ironia – ridervi sopra, in tal modo esorcizzandola - e se non disponete di senso dell'umorismo siete semplicemente da compatire.

Nei tredici anni lungo i quali si dipana la vicenda del 'Romanzo' – dal sequestro Moro ai giorni che precedono Tangentopoli -, Nicola Scialoja intercetta, a pelle prima e con l'investigazione dopo, tutte le dinamiche che oggi sappiamo avere caratterizzato quel periodo travagliato. Il muro di gomma, l'eterodirezione, la squalifica, la carriera per volontà politica. dinamiche che noi tutti possiamo sperimentare nel nostro quotidiano da civili, e che Scialoja, da tutore dell'ordine, esperisce con uno sconcerto che girerà in cinismo.

Certo: è anche una bella testa calda, Scialoja. Ama fare di testa sua, in barba alle regole. Ma sempre alla ricerca appassionata della giustizia ad ogni costo – motivo che dovrebbe permetterci di amarlo ulteriormente, ma che ancora non basta per fare di lui un eroe nazional-popolare. Nella nostra sovente disperata vita nazionale, la risposta di Scialoja all'opportunista, irriconoscente Sandra Reynald - “Fregare quanti più bastardi possibile.” -, dovrebbe suonare come vero e proprio grido di battaglia cui dare supporto ogni qual volta avanzato dai più valorosi dei tutori dell'ordine; e da far risuonare al nostro interno quando di fronte a soprusi, prepotenze e sotterfugi del nostro quotidiano.

Nicola Scialoja. Commissario di Polizia tra il sequestro Moro e l'avvento di Tangentopoli; successivamente direttore dell'”Ufficio logistica e informazioni sulla criminalità del Ministero degli interni […]. Non si e mai sposato.”

Un eroe dei nostri tempi.

martedì 8 settembre 2015

MONEY FOR NOTHING. La grande bufala dei megaconcerti.

Mi accorgo solo ora che gli U2 hanno suonato in Italia, ed io, per la prima volta in trentatré anni, ho prestato all'evento la stessa attenzione che do alle parole di un Renzi o di un Lupi. Nulla.

E dire che si trattava di un evento non da poco: doppia data con apertura del tour , tutto esaurito e prove in loco (Torino). E che canzoni come A Day Without Me, Gloria, Red Light, A Sort of Homecoming, Wire, Indian Summer Sky, hanno illuminato e reso accettabile la mia adolescenza. L'incontro con la bellezza e la profondità.

Nulla. La più totale indifferenza.

Settimane addietro, stavo seguendo il prime time di Radio Rai2, quando l'evento è stato oggetto di una promozione di quindici, venti minuti (marchettone), lungo i quali la conduttrice ha raccontato, in preda ad irrefrenabile entusiasmo, della corsa planetaria all'approvvigionamento dei biglietti. Ecco perché oggi me ne sono infine ricordato. Cifre da weekend lungo in Liguria per un solo ingresso. Intere famiglie in trasferta per assistere alla doppia data. Il recordman della stagione, ci informano senza vergogna, è un brasiliano, con circa milletrecento euri sborsati per tre ingressi – ai quali vanno aggiunti trasferta e soggiorno. E ce lo raccontano a sottolineare come questi che sanno il fatto loro! Pur di soddisfare il buon gusto che li caratterizza, non badano a spese. Non come noi.

Buon gusto? Ma se sono anni ed anni che questi ex rockers non fanno altro che sfornare dischi tutti uguali, deludenti, banali; e dare loro seguito con tours il cui unico fine è quello di fare cassa. “Ah, imperdibili!”, ti dicono.

Bene. Se questa gente per te è imperdibile – e parlo di U2, Springsteen, Rolling Stones, Madonna, Metallica, Ligabue, Vasco, Eros, Lorenzo e tutti coloro che non si fanno scrupoli a chiedere centoventi euri per un terzo anello -, il tuo profilo rientra di fisso tra i seguenti. Sei:

    a) John Fitzgerald Kennedy (come JFK, la ricchezza di famiglia ti protegge dalla crisi in corso, e come lui ne diverrai consapevole solo fra qualche anno [il presidente scoprì quella del '29 negli anni quaranta, studente ad Harvard]);
    b) Carlo Massarini (sei una leggenda vivente del tuo paese, e godi di accrediti per ogni evento, cioè entri gratis);
    c) Joe Kavanagh (sei così disperato che accetti il ruolo di piccolo corriere della droga pur di assistere al concerto);
    d) Pamela Des Barres (non ti accontenti di una data: vedi tutte quelle nel tuo paese ed un buon numero di quelle continentali, ma ,a differenza delle groupies, paghi tutto);

E questi del servizio pubblico che fanno? Ti raccontano dell'asta al rialzo illimitato per conquistare non uno, bensì più biglietti, al prezzo che per molte famiglie è il mensile – o neanche.

Segue ora un elenco random di artisti visti dal sottoscritto, con relativo tariffario:

  • Billy Cobham - € 16;
  • Mike Stern - € 20;
  • Anathema – gratis;
  • Paco De Lucia – L. 22.000;
  • Stefano Bollani ed Enrico Rava (ft. John Scofield) – € 18;
  • Steve Grossmann – gratis;
  • Brad Melhdau Trio – gratis;
  • Paolo Fresu – gratis;
  • Dave Kilminster e Guthrie Govan - € 16;
  • Bansky - £ 3;
  • Damien Rice - € 26;
  • Caparezza - € 15;
  • Marta Sui Tubi - € 14;
Capiamoci: nussun artista può chiedere le cifre che la conduttrice di Radio Rai2 ci ha somministrato come un farmaco generico. Nessuno di loro vale quelle cifre. Se è possibile – e lo è – sentire Daniel Baremboim in platea alla Scala per quaranta euri, e vedere Bansky per tre sterline – cifra calmierata dallo stesso artista: che genio -, va da sé che quando gli Stones te ne chiedono centoventi, è in corso un inganno – questo sì 'diabolico'.

Che il servizio pubblico impieghi una simile leggerezza in tempo di crisi, è piuttosto sconcertante.


Che nello specifico, a farlo, sia Radio Rai2, un canale che parla ai giovani, la categoria cioè più sfruttata e colpita da questa crisi, è – come cantava un altro grande nostro artista - 'Fuori dal Tempo'.

lunedì 7 settembre 2015

TUTTI I BAMBINI DEL MONDO. La tragica fine del piccolo Aylan Kurdi.

Dopo una crisi iniziale, ho riguardato le due foto di Aylan Kurdi con un po' più di distacco.
Mi sono così tornate alla mente le lezioni di Pier Paolo Pasolini ad un immaginario 'ragazzo di vita'. Quelle sull'estetica. Quando spiegava al giovane Gennariello di come le cose ci parlino.
Eccomi allora tornato sui banchi di scuola, a scrivere il tema: cosa ci dicono le foto del piccolo Aylan?

Nella prima, il piccolo Aylan è riverso sul bagnasciuga. La spiaggia dove giace il suo corpo, almeno nella porzione delle scatto, è deserta. È solo. Solo nella morte, con i suoi tre anni.
Il suo corpicino esangue, con ancora l'abbigliamento estivo fatto di scarpine, pantaloni corti e maglietta rossa, sembra quello di un bimbo esausto dopo una giornata ininterrotta di giochi. Ma non è così. È riverso in discesa, le braccia allineate lungo il corpicino, il viso mezzo affondato nella battigia. È la postura più innaturale che un bimbo possa assumere. Innaturale come la sua morte.
La magliettina rossa ci ricorda la bimba ebrea di Schindler's List e, paradossalmente, la bandiera del divieto di balneazione; ma sopratutto l'inadeguatezza dell'abbigliamento per una traversata notturna, il freddo terribile che Aylan avrà provato nelle sue ultime ore, nonostante l'abbraccio caldo e disperato della sua mamma.
La sabbia ha di sicuro invaso gli occhietti, le narici, la bocca ed ogni altro orifizio madre natura ha voluto rendere accessibile, luoghi nei quali, con i nostri figli, non permetteremmo la presenza di una singola briciola.
Sullo sfondo, la presenza di pattume ed altri detriti equiparano la restituzione del corpo di Aylan a quella di un tronco, di un pezzo di legno. La par condicio della natura.

Nello scatto successivo, un agente della guardia costiera turca, realizzato il compito che dovrà affrontare nella giornata di servizio, raccoglie le spoglie del povero Aylan.
Quanto può pesare un bimbo di tre anni in fuga dalla guerra e ramingo da giorni o settimane? Non più di tredici chili, il peso medio di un essere umano della sua età in salute. Il peso medio del bagaglio a mano che tutti noi portiamo senza fatica quando ci apprestiamo ad un viaggio aereo. Eppure il corpo del guardacoste è ricurvo come sotto il peso di decine di chili. Grava su questo uomo il peso morale, politico ed umano di un'intera comunità continentale. Non lo tiene saldo al petto – come faremmo tutti noi con un carico innocuo -: lo tiene a distanza. Come un collo radioattivo.
Nella versione video di questa tragedia, l'agente viene visto, però, condurre le spoglie di Aylan dietro uno scoglio poco distante, a dare cioè riparo ai resti di una creatura violata troppo presto nel diritto all'innocenza, alla felicità, alla sicurezza di una famiglia. Alla vita. Lo occulta alla vista, dietro a quello che diviene una camera mortuaria open air, ma dietro al quale sparisce anch'egli – e dove sono certo avrà praticato quei riti di decenza e pulizia che, sul corpo di un bambino, precedono la notifica all'autorità competente e l'arrivo del coroner. Un angelo, forse.


Non so se il fotografo dell'Associated Press abbia scattato queste foto d'stinto o razionalmente. Ma è certo che, come ha sottolineato Mario Calabresi, sono destinate a fare storia allo stesso modo di altre ormai abitanti il nostro immaginario collettivo. Risvegliano le coscienze assopite dal sapere che Aylan non è il primo a perire in simili circostanze e non sarà l'ultimo. Ci ricordano che in una comunità che si dice civile ed avanzata non si può morire a tre anni, solo, affamato, infreddolito, orfano, negli occhi l'orrore di una tragedia civile – la guerra - ed epica – il naufragio con la famiglia -, rinvenuti da un bagnino o da un turista, trasportati dalla corrente.
Quando la politica avrà trovato una soluzione “all'altezza della storia”, a noi tutti toccherà un compito di identica levatura: realizzare che, proprio per l'amore nei confronti dei nostri figli, a fronte di identica tragedia adotteremmo identica soluzione – certi che i nostri bimbi non meritino la fine toccata al piccolo siriano.
Sempre Calabresi, ha ricordato come la morte di Aylan Kurdi, tre anni, in fuga dalla guerra insieme alla sua famiglia, possa essere per ognuno “l'occasione per fare i conti sul senso ultimo dell'esistenza”.

Buona fortuna a tutti noi.