mercoledì 7 giugno 2017

30. L'Età Dell'Innocenza.


Sebbene pubblicato nel marzo di quell'anno ed io fossi un loro fan già da tempo, ricordo di non averlo acquistato nell'immediato, e di avere ascoltato le sue note per la prima volta quando già era settembre. Lo ricordo bene. Perché fu tale e tanta l'impressione che ebbe su di me quell'ascolto da averne associato al ricordo il tempo (la fine di una bellissima estate) ed il luogo (la casa di un amico stronzo) in cui si tenne.
The Joshua Tree, l'album della svolta Americana degli U2, compie 30'anni. Tanto è passato, cioè, dal pomeriggio nel quale i tre accordi di organo in fade-in e la chitarra in delay di Edge – una delle introduzioni più memorabili della storia del rock - fecero irruzione nella nostra vita adolescente, letteralmente fermando il tempo in maniera indefinita. Un'atemporalità che, in gioventù, non mi fu più dato modo di sperimentare.
È passato così tanto tempo che l'America idealizzata dai solchi di quel vinile è divenuta l'America di Donald Trump, di un potere becero e personale, della fine del 'sogno' in ogni sua rappresentazione (mi si dirà che lAmerica reganiana, l'America dell'Iran-Contras, nella quale The Joshua Tree venne inciso non era politicamente migliore di questa – che è vero -, ma quantomeno il 'sogno' ancora reggeva, si viveva di un ultimo bagliore di illusione).
Questa personalissima considerazione sembra però essere anche il presupposto, ventilato da Edge, con il quale gli U2 si sono imbarcati, il mese scorso, in un tour celebrativo che, da rituale, ripropone The Joshua Tree per intero nella sequenza originale. Opporsi a Trump con il revival di un disco di 30'anni fa. Presuntuoso, no? Disco che 'il nostro' non solo non avrà mai acquistato per il semplice fatto che, quanto a gusti musicali, sarà suppergiù dalle parti di Dolly Parton, ma soprattutto perché, se nel 2016, a 70'anni, sbaragli ogni logica partitica e di schieramento e ti insedi alla Casa Bianca, va da sé che con ogni probabilità a 40 non stavi in fila fuori dalla Tower Records ad attenderne una copia fresca di stampa. Il che, per tornare a noi, fa degli U2 degli amabili paraculi (e non dimentichiamo che qui si parla di gente che pur di apparire accetta di essere ripetutamente intervistata, di stagione in stagione, da Fabio Fazio, come dire che anche il culo di un mulo va bene, l'importante è accoppiarsi).
Riascoltato oggi, The Joshua Tree mostra sommessamente tutti i suoi anni (30 per un disco sono come 30 per un cane). L'opacità analogica della registrazione (riscontrabile già allora), una certa rovinosa propensione al singolo (I Still Haven't Found..., With or Without You), misticismo prêt-à-porter (In God's Country). Rimane un album storicamente importante, ma non imperdibile (lo era, per fornire un esempio, The Unforgettable Fire). In compenso, Bullet The Blue Sky mantiene inalterata tutta la sua potenza politica ed evocativa. Il solo di chitarra (strepitoso) che segue il parlato rimane uno dei momenti artisticamente più alti della premiata ditta Edge & Bono. Running To Stand Still, non avendo conosciuto il successo commerciale, rimane la vera ballad del disco. One Tree Hill un bell'esempio di franchezza. Ed Exit, con le sue esplosioni musicali e le sue liriche di un lucido deragliamento umano, si conferma come la classica perla nascosta – e dimenticata.
Mothers Of The Disappeared chiude tristemente il disco secondo una logica che gli U2 o i loro produttori, in quegli anni, non hanno mai tradito: l'ultima traccia è sempre una fottuta ballad. La prima di molte canzoni da accendino che di lì a poco avrebbero portato gli U2 definitivamente nel campo della mega-produzioni. La gioventù ormai bruciata di Bono – in quell'anno ventisettene proprio come il 'giovane bruciato' James Dean – necessitava di una causa all'altezza delle proprie ambizioni pontificie. E cosa di meglio dei desaparecidos, l'apartheid, Nelson Mandela, Desmond Tutu, e poi Amnesty International e Greenpeace, tutti finiti nel tritacarne di una ben architettata strumentalizzazione?
“Gli U2 hanno girato un omaggio da venti milioni di dollari alla propria irreprensibile moralità e alla sempre meno mascherata megalomania di Bono.” Sono le parole, come sempre precise e penetranti, con le quali David Foster Wallace liquidò l'autoproduzione da parte della band di Rattle And Hum, il bel film di Phil Janou che documenta in poco più di un'ora e mezza le 109 date dello Joshua Tree Tour del 1987.
Da allora il processo non si è più fermato. L'elefantismo di Bono e compagni ha raggiunto livelli e risultati verificabili in maniera autonoma, e che quindi vi verrano risparmiati in questa sede.
Cosa resta, allora, di quel tempo? Resta l'immagine di un albero nel deserto, un segno di vita nel luogo della morte e della tentazione bibliche, un'ombra protettrice e l'idea che radici profonde possano attingere a risorse inaspettate. Quattro ragazzi irlandesi che forse, sul ramo lungo di quel vecchio albero, vi trovarono attorcigliato un serpente altrettanto vecchio che fece loro 'una promessa'. Un pomeriggio di fine estate e la sensazione che qualcosa di meraviglioso stesse per accadere proprio lì, in quel momento.
Nell'anno 2000, l'albero di Giosuè, lo Joshua Tree immortalato dagli scatti di Anton Corbijn, e da allora attrazione -feticcio del parco del Mojave Desert, è stato abbattuto.

domenica 28 maggio 2017

Breaking News


Non me ne frega niente
(Levante)
It's too much information for me
(Duran Duran)
Mio padre aveva un rito, in pensione. Uscita subito dopo la colazione; sosta in edicola; copia del Corriere Della Sera; di nuovo a casa; lettura del quotidiano dalla prima all'ultima riga, necrologi compresi. Quando ancora lavorava, il rito era limitato al fine-settimana. Era un gesto tanto frequente e regolare da essere legato al ricordo che ho di lui.
E così sono cresciuto – complice un maestro elementare che leggeva noi La Stampa – come un avido e compulsivo lettore di quotidiani. Principalmente, il Corriere Della Sera. Segretamente, Il Manifesto. Facevo rassegna stampa acquistando più quotidiani, perdendo diottrie, ma, soprattutto, sprovincializzando la mia personale visione del mondo.
Oggi, invece, quasi 20'anni dopo, sono capace di restare per giorni a digiuno d'informazione, senza peraltro soffrirne. Anzi: guardandomi bene, a volte, da persino visitare un sito d'informazione, per quanto ben gestito ed affidabile. Sono arrivato al punto da acquistare occasionalmente copie cartacee di quotidiani scelti a caso solo per impiegarli nella pulitura dei vetri di casa (la loro grana speciale consente una detersione perfetta, senza aloni). E non si citi la rivoluzione digitale come facile spiegazione. Che è successo, quindi?
In quella che è, oggi, la mia vita adulta, non v'è spazio per gestire la mole spaventosa di informazioni che siti web e quotidiani spacciano per rilevante. Anche dando a questi organi la massima fiducia, mi è possibile, al massimo, operare un'ulteriore cernita di ciò che ritengo sia da considerarsi estremamente rilevante. Fatto ciò, permane il problema di portarne a termine la lettura entro la giornata e con un adeguato livello di attenzione - oltre a quello del tempo da dedicare a letture di studio e di apprendimento, senza il quale verrebbe a mancare l'apparato culturale per una seria interpretazione dei fatti.
E poi c'è da dire che davvero “non me ne frega niente” delle tante grandi e piccole tragedie private - quali sono, ad esempio, certi fatti di 'nera', altri di mera cronaca e molti di 'giudiziaria' – che troppo spesso 'l'informazione' spaccia come di pubblico dominio ed interesse, ma in realtà non sono altro che riempitivi per vuoti ideologici, di pensiero e tipografici. Separare la fuffa – che è tantissima - dalla notizia degna di approfondimento è un'operazione ad alto dispendio di energie intellettuali - risorse che a volte non ho, a volte preferisco impiegare in altre attività (mea culpa). Fate un giro in quelle spassosissime sezioni, onnipresenti nelle pagine iniziali dei siti d'informazione, dedicate ai temi del giorno più 'cliccati'. Dichiarazioni prive di peso di politici di piccolo cabotaggio e calciatori; l'ennesimo ladruncolo del 'quartierino'; persone scomparse; supposti omicidi passionali; gli sbarchi a Lampedusa; X Factor; marchette editoriali; le foto del giorno; immagini di incidenti stradali, marittimi, aeronautici; gossip a 360°. Sono sempre più convinto non vi sia uno solo di questi pseudo-temi in grado di avere una qualche influenza sul mio quotidiano. Perché a questo deve mirare la notizia: concentrare il lettore sulle conseguenze di gesti quotidiani che fino a quel momento sono stati compiuti con noncuranza – sebbene in totale buona fede.
La nostra è un epoca di grandissimo disincanto. L'impiego della menzogna, oltre al non suscitare più alcuna questione morale interiore, è dato per scontato ad ogni livello ed in ogni àmbito. Certo: vi deve per forza essere, nel vivere civile, una certa dose di ipocrisia. Quanto meno per non darci delle teste di cazzo dal panettiere o all'ufficio anagrafe, per intenderci. Fatto questo, però, devono esistere àmbiti dai quali la menzogna è bandita, vista come inaccettabile ed impraticabile. Ecco: è sulla sussistenza di detti àmbiti che la coscienza comune ha da tempo cominciato a dubitare, seriamente. Di paro passo si è dato sempre più credito alla chiacchiera, per la semplice ragione – spaventevole – che non vi è nulla di più seducente di una verità conclamata, eclatante, assumibile senza alcuna verifica. Questo per sconfinare nel generico.
Per tornare, invece, al personale, non voglio dire che la carta stampata tutta consista di soli ciarlatani e falsificatori. C'è chi lo ha già ripetutamente detto – i cinquestellati –, con la conseguenza di fare - oltre a quella degli 'sboroni' - la figura degli assolutisti e di quelli con il record nazionale di citazioni in giudizio. Farà sorridere, ma quel che penso è che noi tutti - questa nazione di burini imbarazzanti -, nel tempo, ci si è comunque psicologicamente evoluti. Sprovincializzati sommariamente dal giornalismo militante dei '70 e dall'editorialismo principesco successivamente, abbiamo tutti più o meno scoperto di avere un es che pretende ad alta voce di essere nutrito con il solo cibo che lo aggrada. Questa la ragione, che credo possa venire condivisa, del perché, da tempo, io non senta più il bisogno di essere informato, quanto meno quotidianamente.
Il fatto è che troppe testate, oggi – quotidiani in primis –, sono pieni di notizie che, per i singoli lettori, sempre più spesso vengono percepite come indegne di questo status. Non sto parlando di fake news: quella è altra cosa. Se credi allo sbarco degli alieni, semplicemente te lo meriti. Sto parlando di notizie che non vengono passate al vaglio non tanto dei criteri di attendibilità, quanto a quelli della condotta e della coerenza editoriale. Non è di fatto possibile credere che quanto interessa noi sia di altrettanto stimolo per gli altri. Solo una ben definita, trasparente linea editoriale può essere, in questo contesto, di stimolo alla lettura e all'approfondimento. Ma va da sé che con la fine delle ideologie è andato perso anche l'orientamento politico che, come una bussola, guidava il lettore nelle scelte e nei giudizi. Sto sparando nel mucchio, lo so. Ma è esattamente ciò che penso al riguardo.
Una visione del mondo non può essere limitata ad una mera 'cultura dell'informazione'.
L'alternativa è un tipo di formazione che non passa dalla 'rete', non ha più luogo 'sulla strada', e non avviene più per autoformazione.
Avviene attraverso strumenti antichi ricavati dalla cellulosa, soggetti all'usura materiale del tempo, ed in questa nostro paese sempre meno frequentati, molto deprecati, ma anche, sorprendentemente, molto citati.
I libri.

venerdì 19 maggio 2017

Il Primo Uomo


Mi accorgo solo ora che, quest'anno, ricorre il trentesimo anniversario della scomparsa, tragica per portata culturale e per modalità, di Primo Levi.
Primo Levi ha rappresentato, per me, tra medie e superiori, la classica lettura obbligatoria respinta alla sua prima proposta ed adorata nella riscoperta in età adulta. Ad oggi posso affermare che i suoi libri sono stati, senza ombra di dubbio, quelli più belli, profondi, densi di significato ed iniziatici che abbia mai letto. Sono stati i libri che mi hanno permesso, poco più che ventenne, di scoprire ed amare altri libri, altri autori, altri scrittori. Hanno rappresentato l'incontro con il pensiero, il ragionamento, la formazione, la bella scrittura, lo stile. Ma, soprattutto: l'incontro con la parola usata con responsabilità.
Tutto ha avuto inizio con La Tregua, nell'edizione Einaudi di Se Questo è Un Uomo. Volevo vedere in prima persona cosa realmente celasse di così interessante questo scrittore che così spesso ritornava – incompreso da noi 'sbarbati' e frainteso dai professori - nelle lezioni di Italiano, sovente imbragato in presentazioni non in grado di accendere l'entusiasmo – necessario in ogni avventura d'apprendimento – in quei giovanissimi allievi quali noi eravamo (il Lager, la Shoa, la guerra contro il nazifascismo, ecc., esattamente quanto di meglio per fartene tenere a debita distanza). Lo ricordo ancora. Io che mi faccio coraggio (al tempo non ero per nulla abituato alla lettura). Mi rendo conto che il compito richiede un certo impegno. Comincio. L'urto è frontale. Hurbinek, l'incarnazione dell'orrore in terra che si fa pietà: pietà per un essere venuto al mondo con la sola, mostruosa funzione di simboleggiare una fine del tempo unica nella storia umana – e nella letteratura; pietà per la propria persona, cui è toccato registrare questa testimonianza. Pagine che ancora oggi pietrificano.
Mi persuado che questo Levi, le qualità, le ha davvero. Vado indietro di un passo: Se Questo è Un Uomo. La Storia Di Dieci Giorni. Mi ritrovo sconvolto. Nella mia esperienza di lettore, sono pagine ineguagliate. Credo nemmeno i grandi sceneggiatori hollywoodiani – che grandi, in molti casi, lo sono davvero - siano riusciti, in questi decenni, nelle tante produzioni dedicate vuoi allo sterminio vuoi all'apocalittico come genere (doom), a rendere la sensazione di totale annichilimento che quel solo capitolo del libro di Levi riversa sul lettore - al punto da lasciarlo completamente disarmato, perso tra l'orrore e la sua bellissima descrizione.
Non riesco sinceramente a ricordare la sequenza esatta con la quale ho percorso l'opera di Primo Levi. Rammento solo di avervi incontrato tutti – dico 'tutti' – i temi che un giovane post-adolescente poteva trovare degni di trattazione - alcuni, come la dignità e la sanità del lavoro, assurti, oggi, allo status di profezia, fatti oggetto del libro d'esordio e, in maniera più specifica, ne La Chiave A Stella.
Ricordo bene, invece, di avere terminato questo viaggio con I Sommersi E I Salvati, che iniziai a leggere convinto che il signor Levi, seppur messi a bersaglio, i colpi li avesse già tutti esplosi. Se avete letto questo testo, in tutti i sensi 'ultimo', potete rendervi conto dell'effetto che può avere avuto su di un pivello con una simile, presuntuosa convinzione.
Primo Levi è stato un lavoratore dipendente fino al pensionamento, incaricato di una supervisione tecnica fondamentale e non facilmente surrogabile. Al tempo stesso, e cioè nel cosiddetto tempo libero, un intellettuale di riconosciuta statura, frequentatore attento ed ascoltato del fiore della cultura italiana del novecento. È riuscito, grazie ad una intelligenza non comune, ad eccellere su entrambi i fronti. Sono aspetti che, per quanto mi è dato più che sapere intuire, la scuola dell'obbligo non tratta, a favore di visioni cristallizzate e prive di vita, non in grado di stimolare nei giovani studenti l'attenzione grande che merita a ragion veduta e a pieni meriti.
Che poi la sua uscita di scena sia avvenuta per suicidio, ahimè, alimenta solo e proprio quelle leggende che egli stesso avrebbe deprecato.
Era un uomo, Primo Levi. Aveva cioè le stesse nostre debolezze e fragilità.

martedì 25 aprile 2017

Radio Ga_Ga


… Certo è che quanto segue non sarà utile al fine di procurarmi un colloquio di lavoro con i vertici redazionali di RTL 102.5. Anzi.

E poi, visti i contenuti di quella che alle statistiche risulta essere l'emittente radio più seguita d'Italia, si dubita persino che il suo apparato organizzativo disponga di una redazione o di altra unità facentesi carico di quanto fuoriesce dalle bocche a busta-paga dei suoi conduttori e dai banchi di regia.
RTL 102.5 non è solo “la radio numero uno d'Italia”, ma anche la più vista, grazie al gemello televisivo, in conseguenza di una multimedialità imperante ed irrinunciabile che obbliga la radio tutta - la radio intesa come media, appunto - ad essere visibile e televisibile.
È infatti difficile, di questi giorni, consumare qualsivoglia alimento o libagione senza imbattersi in un televisore acceso e sintonizzato su RTL 102.5 TV (canale 36 del digitale terrestre), che svariati esercizi – bar, gelaterie, pizzerie da asporto – ed altrettante attività dotate di sala d'aspetto somministrano alle rispettive clientele con orgoglio ed assoluta noncuranza.
Proviamo, allora, a ragionare.
Chi propone un simile prodotto internamente alla propria attività commerciale, nutre la convinzione di non solo offrire un intrattenimento efficace - e questo è probabile se si considera che i più, nella nostra nevroticissima società, abbisognano di un sottofondo costante da relegare a livello inconscio -; ma anche di comunicare al cliente od occasionale visitatore un'identificazione vuoi con l'attitudine psicologica del canale – incarnata dai suoi conduttori - vuoi con le scelte musicali trasmesse. Se si ha anche solo vagamente presente il tipo di programmazione giornaliera di RTL 102.5 TV, c'è da rabbrividire. Seguire anche solo pochi minuti di trasmissione significa, in questo contesto specifico, intraprendere un viaggio attraverso un mondo dove il senso estetico risulta fortemente mutilato – quando non completamente assente. Per non parlare della chiacchiera incessante (generata dal fatto non trascurabile che spesso le coppie di conduttori si intrattengono con battute riguardanti la loro briosa – e agli effetti insondabile - vita privata), del vuoto di senso, dei video tamarri e del catenaccio in costante scorrimento di improbabili sms sentimental-fanatici.
Ma la cosa interessante è che quasi sempre, tra gli astanti, l'unico visibilmente inebetito dai videoclips di RTL 102.5 TV sono io. Lo dico a seguito di attenta osservazione: non mi sono mai trovato a seguire in video la musica che RTL 102.5 TV trasmette non-stop in compagnia di qualcuno. Non i coetanei, non i giovani, non i vecchi. Io solo. A voi l'ardua sentenza.
Personalmente trovo il successo di questa emittente semplicemente incantevole (sensazione che devono avere provato anche i suoi vertici, i quali, come neo-genitori galvanizzati – o delusi - dal primogenito, hanno pensato bene, in questi anni, di figliare, partorendo, in sequenza: Radio Zeta [l'italiana] e Radio Freccia [un omaggio al film di Luciano Ligabue]). Può permettersi l'emissione di qualsiasi proposta anche indegna di questo nome, nella certezza che, in ogni caso, essa verrà venerata dai fedelissimi - ed ignorata dai tantissimi che, nel mentre ne risultano indifferenti, non provano però fastidio ad assumerla come intrattenimento imposto (un po' come la musica, spaventosa, di supermercati e centri commerciali).
L'assenza di senso critico ha origine in tutta una serie di ragioni che vanno dal culturale in senso stretto allo psicologico in senso lato. Mancano sì i mezzi tecnici, conoscitivi, necessari alla formulazione di un giudizio, ma anche la predisposizione – l'attitudine – a sovvertire culturalmente lo stato delle cose per come sono a noi imposte. Sebastião Salgado, interrogato di recente per un consiglio; sorprendendo e forse anche deludendo molti sedicenti fotografi in trepidante attesa per un miracolo da parte del maestro brasiliano in grado di spianare loro una prosperosa carriera nella nona arte, ha risposto: “Se sei giovane ed hai tempo, vai a studiare … Studia per essere effettivamente in grado di capire cosa stai fotografando”. Inteso?
Sta di fatto che una fetta considerevole della popolazione italica accetta quotidianamente – ed acriticamente, direi – di essere intrattenuta da una simile proposta mediatica. Nulla di sorprendente: forse si tratta solo di quello stesso pubblico che Marco Morgan Castoldi, sebbene rivolto alla sua fascia tardo-adolescenziale, ha di recente definito “di Bimbimikia” (esternazione poco felice, viste le conseguenze per l'ex coach, ma sicuro molto divertente e, soprattutto, appropriata).
Avevano ragione Morrissey e i suoi The Smiths (altra manica di stronzi che, giunta ad insolvenza con i rispettivi mutui, questo luglio ci propinerà l'ennesima reunion): “Impiccate i benedetti DJ / Perché la musica che mettono senza sosta / Non dice nulla della mia vita”. (Hang the blessed DJ / Because the music that they constantly play / It tells nothing to me about my life). La canzone era Panic. L'anno il 1986.
Il prossimo caffè me lo bevo a casa.

sabato 8 aprile 2017

La Lingua Salmistrata


Ieri sera mia figlia ha affrontato un bis di zucchine trifolate al grido di “oh, delicious!”, frutto – spero – delle nostre tante, lunghe passeggiate con commento fuori campo in Inglese, e delle prime lezioni a scuola in questo comparto.
Nei giorni passati, invece, il Guardian ha dato notizia della lettera con la quale il Regno Unito (unito per quanto ancora?) ha comunicato a Bruxelles la propria uscita dall'Unione Europea. Per la testata di Kings Cross si tratta di un passo nel vuoto (“... the UK steps into the unknown.”). E se a dirlo è il Guardian, noi europei faremmo bene a credervi: gli inglesi a riflettere, con il senno di poi, sul voto che ha deciso la Brexit.
Ho realizzato con grande amarezza che quello che per me è stato un gesto d'amore (impossibile, difatti, apprendere decentemente la lingua di qualsivoglia popolo per il quale non si nutra rispetto ed ammirazione); se la vita non la dirotterà linguisticamente altrove, per mia figlia l'Inglese sarà un amore non corrisposto. Si troverà cioè a parlare, magari anche fluentemente, la lingua di un popolo che, sotto sotto, di avere a che fare con gente del Sud-Europa, quale lei è a tutti gli effetti, non ne vorrà sapere. Giudizio drastico? Certo. Come tutti quelli facenti seguito alla fine di un rapporto.
La Svezia, dal canto suo, ha di recente dato vita ad un programma per la diffusione capillare della lingua nazionale presso le comunità straniere ospiti sul territorio, convinta dai propri esperti del settore che, non facendo così, fra trent'anni lo Svedese è a rischio di non figurare più come lingua nazionale (!!). Con le dovute forzature, gli eventi che hanno avuto luogo nel centro di Stoccolma, ieri, venerdì 7 aprile, possono rientrare in questo discorso. Buona fortuna anche agli svedesi, quindi.
E noi?
Mi capita spesso, durante le trasferte in macchina, di cercare conforto nell'ascolto di stazioni radio, e di imbattermi così nel blaterare di conduttori alle dipendenze di emittenti con indici di ascolto di tutto rispetto su scala nazionale. Per chiedere nome e cognome ai radioascoltatori intervenuti in diretta – ad esempio – non si chiedono più le generalità o gli estremi: “Dacci le tue coordinate: ti faremo avere il premio.” (Radio Freccia). A.d.C., Ascoltatori della Cassetta (sic), non è una sigla, bensì “un aforisma” (Radio Deejay). In love with you viene tradotto nella nostra lingua in in amore con te, come un gatto (Radio Capital). Sbagliate il titolo di una canzone di Emma Marrone, e la vostra stazione radiofonica verrà tempestata di telefonate di protesta con correzione annessa. Non uno però che faccia altrettanto con strafalcioni e fandonie varie. La stragrande maggioranza dei canali radio si appoggia sul cosiddetto vocabolario basic (600 parole) e sul suo tracotante utilizzo. Una totale assenza di vergogna. È possibile assistere a monologhi di intrattenimento – da parte di persone che, si ricorda, vengono definiti 'professionisti della conduzione' – il cui contenuto – editoriale – è pari a zero. Zero assoluto. Completo svuotamento di significato e comunicazione. Un vero virtuoso in questo campo è sicuramente Nikki di Tropical Pizza. Sforzatevi, a titolo sperimentale, di parlare del nulla per dieci minuti abbondanti: vi renderete conto nell'immediato di quanto impegno richieda (ma se ciò vi viene facile, cominciate a preoccuparvi). Ribadisco: non si tratta, in questa sede, di mettere in discussione contenuti opinabili. Si tratta di denunciarne la totale assenza, ed il livello mostruoso di passività con la quale ciò viene entusiasticamente accettato dagli ascoltatori.
È sempre più frequente, inoltre, il dover fronteggiare gli sguardi stupiti, quando non disgustati o – peggio – accondiscendenti, di chi vi sente impiegare un termine che si reputa appropriato, forbito o no che sia. (A me è capitato di recente all'utilizzo di 'turpiloquio'. No comment.). È la fetta, abbondantissima, di popolazione la cui risposta ad ogni interrogativo è la frase fatta parla-come-mangi, o con-parole-tue. Vere e proprie provocazioni in grado di riaccendere l'aggressività intraspecifica in qualunque essere civilizzato.
Insomma, aveva ragione Nanni Moretti (e qui, molti tra voi lettori di questo blog mi daranno del sinistroide o del comunista, ma questo dice più su di voi che su di me): “Chi parla male, pensa male e vive male”.
I segnali provenienti dai tempi che ci tocca vivere non sono rassicuranti.
Personalmente non demorderò dal somministrare alla mia piccola creatura quanto di meglio questa nostra lingua madre è stata in grado di produrre.
Costi quel che costi.

lunedì 20 febbraio 2017

Eroi Dei Nostri Tempi


Premetto che non è mia intenzione discutere di Sully e Snowden da un punto di vista cinematografico – sebbene entrambe le pellicole offrano parecchia carne al fuoco.
È interessante che due grandi narratori di storie americane, quali Eastwood e Stone, nello stesso momento storico (le primarie, il tracollo del partito democratico, l'elezione di Trump), abbiano scelto, a soggetto delle rispettive produzioni, due vicende accomunate da aspetti che vanno dalla moralità al coraggio; dal confronto con la paura a quello con se stessi; dalla professionalità all'etica di questa; dal mito dell'eroe solitario alla sofferenza del gesto eroico. Ma soprattutto: dallo straordinario senso della responsabilità dei loro protagonisti.
La retrodatazione delle due vicende può anch'essa essere vista come tratto di comunanza. Del 2009 l'ammaraggio del volo US 1549; del 2013 le rivelazioni del Guardian. Gli estremi del primo mandato Obama.
In un moderno e politicamente connotato gioco delle parti, l'allora neo-eletto presidente riservò a Chesley 'Sully' Sullenberger un trattamento da eroe (la tribuna d'onore alla cerimonia di insediamento), proprio nel mentre l'agenzia statunitense per la sicurezza del volo (NTSB), in un'indagine dovuta, ne sottoponeva a verifica l'affidabilità in maniera a dir poco insinuante. A fine-mandato, e alla ricerca della rielezione, gli toccò invece dare della spia a tale Edward Snowden, caricarlo in toto di una responsabilità che la sua amministrazione, poco credibilmente, disconosceva (ricordate la battuta mi-sa-che-mi-sono-fidato-dele-persone-sbagliate, da Fahrenheit 911?), e con l'agenzia per la sicurezza nazionale (NSA) silente in quanto gabbata dal giovane – ed intelligentissimo – tecnico informatico.
Sully è una visione edificante, un film dove la tecnica cinematografica è integralmente al servizio dell'espressività, del dramma umano che Chesley Sullenberger si trova a vivere alla soglia della pensione, investito da un'emergenza ignota al settore; il dramma di un uomo sano, solido, responsabile, di fronte all'ignoto – appunto -, al non-conosciuto. Anche l'integrale dell'ammaraggio, magistralmente ricostruito in digitale, non indugia, temporalmente e personalmente, su aspetti sensazionali – quali potrebbero essere le reali, effettive reazioni dei passeggeri che, diversamente da 'Sully', non realizzarono quanto stava per accadere loro fino all'impatto con lo Hudson. Montata in tempo reale, è funzionale alla comprensione da parte dello spettatore dell'immensità di ogni dramma necessario alla comparsa di un eroe, e del prezzo da pagare per diventarlo. La narrazione non si incentra sul gesto - indiscutibilmente eroico - dell'optare per un ammaraggio e del realizzarlo. La storia di Sully è quella di un uomo che deve giustificare, nell'ansia che segue ogni tragedia attraversata, la propria scelta eroica. L'eroe conclamato è visto nella difficoltà, nudo. È seguito dalla telecamera nel mentre paga il prezzo dell'eroismo, come un uomo qualunque. Come tutti. Tom Hanks interpreta la sofferenza dell'eroe in maniera sempre equilibrata, davvero eccellente.
Il parallelo con Snowden - lontano dalla pensione, giovane, promettente, in carriera, dotatissimo, patriota ed innamorato – è il confronto con un ignoto del quale il protagonista scopre di essere non spettatore, bensì parte integrante, funzionale ad un sistema di schedatura che concresce autonomamente, svincolato da ogni controllo giurisdizionale. Avevo promesso di mantenermi a distanza dalla critica cinematografica, ma mi risulta impossibile non parlare di quel movimento di camera, nel finale, che, transitando dietro allo schermo del computer portatile fa scomparire Joseph Gordon-Levitt rivelando allo spettatore il volto di Edward Snowden in carne ed ossa. Vale l'intero film, e lo dico senza cattiveria. Un momento di grandissimo, commovente cinema civile americano in grado di donare una speranza ed una forza che, personalmente, avevo dimenticate.
In comune vi è sicuramente l'aspetto della responsabilità, intesa nelle due pellicole nelle sua accezione più nobile: non tanto il portare a compimento un impegno assunto quanto l'accettazione delle sue conseguenze. L'indagine ministeriale per 'Sully', l'esilio forzato per Snowden.
Qui non si tratta di raccontare come va a finire. Si tratta di provare a capire perché due grandi, affermati registi, connazionali, abbiano simultaneamente avvertito l'esigenza di narrare vicende solo apparentemente diverse e distanti. Il bisogno dell'eroe – da non confondersi con il nostrano, ciclico bisogno dell''uomo forte' – denota l'assenza, nelle sfere decisionali, di persone capaci di assumersi responsabilità vere. Capaci di scegliere (impossibile, qui, non citare quello scrittore dal cuore grande come l'America che è stato David Foster Wallace, con le sue bellissime riflessioni sulle “[..] cause che travalicano l'interesse personale [...]”, quando ebbe a scrivere sulla campagna di John McCain). La critica è sicuramente rivolta alle facce che popolano un certo stabile di Pensylvania Avenue, a Washington DC. E a casa nostra? Riuscite davvero, in questo contesto, a non pensare a Virginia Raggi? Io no. Ho sostenuto, moralmente, la sua candidatura. Una donna, giovane, a capo della città più problematica e grande d'Italia. L'opportunità di finalmente mostrare la forza di decisioni controcorrente, prese con cognizione di causa (quanto Snowden e Sully hanno fatto rispettivamente). E se funziona a Roma è probabile che l'esempio sia replicabile altrove. Ebbene, mi sento, oggi, come chi ha acquistato un'auto rotta pagandola come nuova. Non dubito del carico gravosissimo che questa persona si è trovata sulle spalle, e che curverebbe chiunque al suo posto. Ma questo è l'impegno che lei e i Cinque Stelle hanno scientemente voluto assumersi. Questa responsabilità è stata chiesta a gran voce da lei e dalla compagine che l'ha sostenuta. Forse Virginia Raggi dovrebbe andare un po' più al cinema e un po' meno in riunione con Beppe Grillo. Scoprirebbe di persone in grado di prendere decisioni vitali in 208 secondi (!), e dell'esistenza di giovani brillanti e promettenti, esattamente come lei, disposti a rinunciare ad “una vita normale, un buono stipendio, carriera, famiglia”, semplicemente per fare 'la cosa giusta'. E che tutta quella merda trovata a Roma, insomma, è roba risolvibile, consente una reazione - senza, tra l'altro, il rischio di finire nel Tevere con l'intera giunta al seguito, o sottoposto a waterboarding in uno scantinato a Il Cairo. Questo immobilismo, ormai lungo un semestre, non consente giustificazioni. Con la sua gestione capitolina, incessantemente sbandierata – e qui mi rivolgo al movimento, più che alla persona -, non si è riusciti nemmeno nel fare 'la cosa sbagliata'. Siamo all'inazione, alla paralisi decisionale. L'esatto opposto di Chesley Sullenberger ed Edward Snowden.
È di queste ore la notizia della piena disponibilità della giunta Raggi alla costruzione di un nuovo stadio. È come se Chesley Sullenberger avesse optato per un rientro al più vicino aeroporto, replicando ottusamente quanto praticato in simulazione. E Edward Snowden avesse proseguito indifferente nell'attività comandatagli, perché, dopotutto, per citare il connazionale medio, “io faccio solo quello che mi dicono di fare”: vivremmo in un mondo totalmente privo di fiducia nel prossimo, e senza alcuna speranza.
Grazie a questi eroi, il farsi di tale apocalittica prospettiva è rimandato ancora per un po'.

lunedì 30 gennaio 2017

Storia Di Due Brani


Qualche mese fa, Gisella Congia, psicologa, fotografa, documentarista, mente ed anima della realtà social e territoriale Il Club Dei Genitori, ha chiesto se volevo apportare un contributo al loro nuovo progetto, per mezzo di musiche originali. Quanto ha fatto seguito alla risposta, può essere ascoltato qui di seguito.

LENA'S SONG

BRAD
Effettuata in una fredda mattina d'autunno, la sessione di registrazione è stata affrontata dal Vs. umile estensore con il fardello assai pesante di un'intera notte in bianco, gentilmente offerta dalla prole. Dico ciò con l'intenzione non di conferire a questa prova tratti eroici che non può né deve avere; bensì con quella di confermare quanto già evidenziato nelle belle interviste di Gisella Congia sulla figura e sul ruolo paterni. E cioè che la loro assunzione responsabile [di ruolo e figura, n.d.r.] può avvenire solo al prezzo di un cambiamento (vedi alla voce 'sconquasso') che origini dal quotidiano di chi tale scelta decide di compiere.
Suonare non è un mestiere facile. Pretendere di farlo in totale assenza di sonno, e con il carico di quelle azioni di accudimento che caratterizza le notti insonni di tutti i genitori, può avere conseguenze devastanti. La famosa figuradimmerda, per intenderci. Fortuna vuole che a a registrare questi due brevi pezzi vi fosse Vittore Savoini, session man del basso, musicista di grande esperienza e mestiere. Grazie a lui, gli innumerevoli colpi di sonno che hanno caratterizzato le tre ore rese necessarie da sveglia-takes-masterizzazione, sono spariti come d'incanto, unitamente al loro carico di imperfezioni tecniche.
Lena's Song mi è uscita dalle mani – guarda un po' – il giorno quando venni a sapere che sarei divenuto padre di una bambina. Brad è stato invece ispirato dalla figura – immensa – del pianista statunitense Brad Mehldau, e dalla sua mostruosa capacità di improvvisare su strutture ostinate. Entrambi sono stati eseguiti su di una chitarra classica.
Un grazie speciale a mia moglie Francesca: oltre ad avere procurato questo 'ingaggio', e a scuotermi dal bradipismo, mi ha dato quanto di più bello ho nella vita: la nostra piccola. Ti amo.
Questo lavoro, del quale sono davvero soddisfatto, lo voglio dedicare a tutti quei genitori i cui immensi sforzi quotidiani sono devoluti alla crescita di figli psicologicamente sani, alla formazione di persone decenti.
A tutti gli altri, la cui inazione è causa dell'orrore verificabile quotidianamente in contesti come: scuola; luoghi di aggregazione; luoghi pubblici; a loro dedico le parole che il grande Leo Longanesi ebbe a dire in tempi non sospetti: “Sulla bandiera dell'italiano medio sta scritto: 'Tengo famiglia'.”.
Lo so: sono cattivo ed astioso.
Ma ho anche dei difetti.