sabato 8 aprile 2017

La Lingua Salmistrata


Ieri sera mia figlia ha affrontato un bis di zucchine trifolate al grido di “oh, delicious!”, frutto – spero – delle nostre tante, lunghe passeggiate con commento fuori campo in Inglese, e delle prime lezioni a scuola in questo comparto.
Nei giorni passati, invece, il Guardian ha dato notizia della lettera con la quale il Regno Unito (unito per quanto ancora?) ha comunicato a Bruxelles la propria uscita dall'Unione Europea. Per la testata di Kings Cross si tratta di un passo nel vuoto (“... the UK steps into the unknown.”). E se a dirlo è il Guardian, noi europei faremmo bene a credervi: gli inglesi a riflettere, con il senno di poi, sul voto che ha deciso la Brexit.
Ho realizzato con grande amarezza che quello che per me è stato un gesto d'amore (impossibile, difatti, apprendere decentemente la lingua di qualsivoglia popolo per il quale non si nutra rispetto ed ammirazione); se la vita non la dirotterà linguisticamente altrove, per mia figlia l'Inglese sarà un amore non corrisposto. Si troverà cioè a parlare, magari anche fluentemente, la lingua di un popolo che, sotto sotto, di avere a che fare con gente del Sud-Europa, quale lei è a tutti gli effetti, non ne vorrà sapere. Giudizio drastico? Certo. Come tutti quelli facenti seguito alla fine di un rapporto.
La Svezia, dal canto suo, ha di recente dato vita ad un programma per la diffusione capillare della lingua nazionale presso le comunità straniere ospiti sul territorio, convinta dai propri esperti del settore che, non facendo così, fra trent'anni lo Svedese è a rischio di non figurare più come lingua nazionale (!!). Con le dovute forzature, gli eventi che hanno avuto luogo nel centro di Stoccolma, ieri, venerdì 7 aprile, possono rientrare in questo discorso. Buona fortuna anche agli svedesi, quindi.
E noi?
Mi capita spesso, durante le trasferte in macchina, di cercare conforto nell'ascolto di stazioni radio, e di imbattermi così nel blaterare di conduttori alle dipendenze di emittenti con indici di ascolto di tutto rispetto su scala nazionale. Per chiedere nome e cognome ai radioascoltatori intervenuti in diretta – ad esempio – non si chiedono più le generalità o gli estremi: “Dacci le tue coordinate: ti faremo avere il premio.” (Radio Freccia). A.d.C., Ascoltatori della Cassetta (sic), non è una sigla, bensì “un aforisma” (Radio Deejay). In love with you viene tradotto nella nostra lingua in in amore con te, come un gatto (Radio Capital). Sbagliate il titolo di una canzone di Emma Marrone, e la vostra stazione radiofonica verrà tempestata di telefonate di protesta con correzione annessa. Non uno però che faccia altrettanto con strafalcioni e fandonie varie. La stragrande maggioranza dei canali radio si appoggia sul cosiddetto vocabolario basic (600 parole) e sul suo tracotante utilizzo. Una totale assenza di vergogna. È possibile assistere a monologhi di intrattenimento – da parte di persone che, si ricorda, vengono definiti 'professionisti della conduzione' – il cui contenuto – editoriale – è pari a zero. Zero assoluto. Completo svuotamento di significato e comunicazione. Un vero virtuoso in questo campo è sicuramente Nikki di Tropical Pizza. Sforzatevi, a titolo sperimentale, di parlare del nulla per dieci minuti abbondanti: vi renderete conto nell'immediato di quanto impegno richieda (ma se ciò vi viene facile, cominciate a preoccuparvi). Ribadisco: non si tratta, in questa sede, di mettere in discussione contenuti opinabili. Si tratta di denunciarne la totale assenza, ed il livello mostruoso di passività con la quale ciò viene entusiasticamente accettato dagli ascoltatori.
È sempre più frequente, inoltre, il dover fronteggiare gli sguardi stupiti, quando non disgustati o – peggio – accondiscendenti, di chi vi sente impiegare un termine che si reputa appropriato, forbito o no che sia. (A me è capitato di recente all'utilizzo di 'turpiloquio'. No comment.). È la fetta, abbondantissima, di popolazione la cui risposta ad ogni interrogativo è la frase fatta parla-come-mangi, o con-parole-tue. Vere e proprie provocazioni in grado di riaccendere l'aggressività intraspecifica in qualunque essere civilizzato.
Insomma, aveva ragione Nanni Moretti (e qui, molti tra voi lettori di questo blog mi daranno del sinistroide o del comunista, ma questo dice più su di voi che su di me): “Chi parla male, pensa male e vive male”.
I segnali provenienti dai tempi che ci tocca vivere non sono rassicuranti.
Personalmente non demorderò dal somministrare alla mia piccola creatura quanto di meglio questa nostra lingua madre è stata in grado di produrre.
Costi quel che costi.

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